I paradossi sull’identità meridionale salentina tra “pizziche” e “tarante”

 

di Paolo Coluccia (paconet@libero.it)

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

Testo di base per l'intervento all'Incontro tematico seminariale sull'Identità organizzato da Rete Meridione, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e al Scuola di A.F. "I. Sannazaro",

Somma Vesuviana (NA), 23-24 settembre 2005.

 

1. Poiché mi è difficile capire, in questa fase concitata di globalizzazione socio-economica e culturale estremizzante e parossistica, cosa sia l’identità di un popolo (figuriamoci di un’area geografica ampiamente complessa come quella meridionale e mediterranea) cercherò di arginare una dilagante divagazione culturale contemporanea, che si perpetua nella mia zona d’origine (il Salento, in provincia di Lecce) da qualche anno a questa parte e che pretende di riscoprire identità e valori di una terra con uno spettacolo estivo, per certi versi piacevole e anche di grande successo, ormai arrivato ad un livello mediatico internazionale. Infatti, lo spettacolo “La Notte della Taranta” è stato definito, su vari quotidiano locali e nazionali, “lo spettacolo più atteso del calendario estivo pugliese”. Oppure: “Un grande evento... una manifestazione culturale che, confrontandosi al pensiero unico di una società globale, recupera identità e valori”.

Questi i dati numerici della manifestazione di questa estate, terminata nella serata del 27 agosto 2005:

Ø      12 spettacoli itineranti nei vari comuni della Grecia Salentina e in qualche altro comune limitrofo

Ø      grande serata finale nel comune di Melpignano (LE), con

Ø      4 ore di spettacolo nella serata finale

Ø      80.000 spettatori (qualcuno dice addirittura 100.000) nella sola serata finale

Ø      4 ettari di spazio occupato per la serata finale

Ø      70 musicisti dell’orchestra popolare della serata finale

Ø      29 brani in scaletta più altre melodie “contaminate”

Ø      130 giornalisti (tra cui anche una troupe cinese)

Ø      50 stand gastronomici

Ø      500 volontari per il traffico, informazioni, protezione civile ecc.

Ø      Costo: 500.000 euro (contributi Regione, Provincia di Lecce, Consorzio dei Comuni della Grecia Salentina, Camera di Commercio di Lecce, Comune di Melpignano ecc.)

 

2. Devo dire in anteprima, a scanso d’equivoci, che non ho nulla in contrario per lo spettacolo, per l’iniziativa e per il coinvolgimento della popolazione locale e dei numerosi turisti provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa, per il clima di festa che si è venuto a creare e per i molti temi culturali e musicali che sono emersi nel corso degli ultimi anni. Ci sarebbe qualche nota stonata, come l’improvvisazione dantesca di De Gregori nell’ultima edizione, da far emergere, ma non è di questo che qui si vuole parlare. Il problema invece è altro: arrivare a definire tutto questo “i valori” e “l’identità” di una popolazione mi sembra un’enormità, un azzardo e quasi certamente una profusione d’insipiente esternazione intellettuale. Che poi il fenomeno (peraltro singolare e minuziosamente descritto nel dopoguerra dallo storico delle religioni, prestato all’antropologia culturale, Ernesto De Martino e dalla sua equipe nel libro La terra del rimorso) sia stato cospicuamente svenduto ad un’orgiastica espressione d’isteria collettiva (o presunta tale) è bene fin da principio puntualizzarlo. Inoltre, l’evidente spreco di denaro pubblico non appare giustificato da alcun fantomatico “ritorno” economico, per quanto qualcuno si sforzi d’individuare, improvvisandosi economista e facendo dei conti molto semplicistici in tema di PIL d’occasione (giro d’affari di 1.000.000 di euro nella sola ipotesi che ciascuno dei partecipanti  - 100.000 - abbia speso almeno10 euro). Il prodotto delle cifre è esatto, ma l’analisi socio-economica è approssimativa e fuori luogo. Infine, al terzo punto, ma non ultimo in ordine d’importanza, si deve rimarcare l’errore di fondo, che sta nel considerare l’epifenomeno della pizzica e del tarantismo, come folklore, fenomeno popolare e festa popolare.

In effetti, a mio modesto avviso:

 

·      non si tratta di folklore etnico-popolare;

·      non si tratta di un fenomeno popolare (cioè più o meno esteso alla

popolazione);

·      non si tratta di una festa popolare recuperata dalla tradizione.

 

Anzi, si tratta di tutt’altro, e lo spiego di seguito:

 

·      è un fenomeno sicuramente strano e complesso che “tocca” individui singoli e in situazione di difficoltà socio-economica, culturale ed esistenziale;

·      pur all’interno della società contadina (di fatto numericamente cospicua nei tempi passati) solo poche e singole persone (soprattutto di sesso femminile) vengono ad essere “toccate” dal fenomeno (ovvero, “morse” dalla taranta), e non larghe fasce della popolazione (occorre dire tra parentesi che non esistono nell’area geografica tarantole e ragni velenosi);

·      non può essere considerato un momento di festa proveniente dalla tradizione popolare, in quanto il fatto è fonte di dolore, di disagio fisico, mentale, sociale, di singole persone che trovavano un po’ di giovamento al suono (peraltro dilettantesco) di tre o quattro musicanti locali, quasi sempre barbieri, sarti o nullafacenti, che intonavano una musica aspra, stonata e con ritmi esasperati, con strumenti consunti, a volte anche artigianali (un violino, un tamburello con sonagli, una piccola fisarmonica, una chitarra ecc.).

 

Inoltre, per onor di cronaca, va detto che la manifestazione più eclatante in termini numerici e popolari, che riuniva cioè più persone “tarantate” provenienti da vari comuni della provincia, avveniva in occasione della festa di San Paolo (29 giugno) a Galatina (centro della penisola salentina a 20 km a sud di Lecce), durante la ricorrenza del Santo Patrono della città, la cui popolazione era protetta e pertanto resa “immune” dalle conseguenze “velenose” del morso della taranta durante “il lavoro nei campi”. Queste “tarantate” dei paesi limitrofi o anche più lontani si recavano a bere l’acqua di un pozzo situato nei pressi della cappella del Santo e ricevevano quasi sempre, anche se momentaneamente, la grazia e la guarigione dal morbo, che però puntualmente ritornava nel periodo primaverile dell’anno successivo. Dunque una ciclicità, una ripetizione estenuante, spesso senza fine. Il fenomeno, per molti versi inspiegabile con la chiarezza della ragione, risulta fortemente intriso di simboli e appartenente derive culturali, qualcuno accenna alle feste dionisiache dell’antica Grecia, che affondano le loro radici nella notte dei tempi.

 

3. E allora, cosa si vuole richiamare alla memoria, in termini d’identità e cultura, con una festa, quella odierna, per certi versi contraddittoria, fantastica e appariscente, ma anche consumistica e decadente, che si estrinseca nelle notti estive d’agosto di ogni anno, soprattutto negli ultimi anni, in concomitanza di sagre e feste di paese, tra cibi cotti alla brace e prodotti locali, qualche volta anche di buona qualità, per confluire poi in questa mediatica manifestazione finale della notte melpignanese di fine agosto?

Che dire dell’improvvisazione e della spesso scadente riproposizione di musiche passate per popolari, quando non lo sono affatto, da parte di gruppi nati negli ultimi tempi come funghi, spesso ignari e inconsapevoli di quello che passa loro per bocca cantando, con versi e gesti grotteschi e con melodie prodotte da moderni strumenti persino elettronici, a parte qualche sporadico gruppo più serio e di notevole spessore e professionalità musicale, distintosi per aver compiuto una complessa ricerca etno-musicale e per non essersi appiattito sulle note consunte di “pizziche e tarantelle” di varia estrazione e consumo?

Che dire infine delle orde selvagge di turisti, scatenate e affamate di cibi locali, tra prodotti pregiati (pochi e di fatto evitati perché giustamente costosi) e salse piccanti per ogni gusto e per ogni tasca (le molte pietanze di basso costo sono tenute in grande considerazione dai molti turisti “fai da te”, perché permettono di smorzare la fame nelle lunghe serate estive all’intera famiglia con pochi euro, e questo crea notevoli danni in termini economici ai ristoranti della zona, che sono spesso in polemica con gli organizzatori), che si accalcano in questa ventina di giorni dell’esttate? E questo non significa che ci sia un ritorno in termini turistici e culturali, ma le tasche gonfie di denaro sonante di qualcuno che riesce a speculare (senza quasi nulla dare al fisco perché incontrollabile) su questa pseudo-popolanità festaiola a dir poco di cattivo gusto, quando poi alla fine non rimane che un mucchio enorme di sporcizia, di spazzatura e di odori sgradevoli, che permangono almeno fino alle prime piogge rigeneranti e rinfrescanti dei temporali estivi.

Ci sarebbe veramente da inorridire e da fremere nel cuore se tutto questo potesse essere veramente spacciato per identità e cultura di un popolo! Quale identità si vuole ritrovare in questo travisamento culturale, in questo caotico meretricio di luglio-agosto degli ultimi anni? A mio parere nessuna, perché ciò che può o dovrebbe poter essere individuata come identità e cultura di un popolo, oltre che dover ancora stentare ad emergere, appare molto lontana dalle intenzionalità e dalle significazioni pubbliche o private delle istituzioni e delle comunità meridionali salentine.

 

4. Pertanto, cosa vuol dire Franco Cassano quando in uno striminzito, quasi telegrafico, articolo sul settimanale “Carta. Cantieri sociali” (n. 29 dell’8 agosto 2005) proclama che “dietro il recupero della tradizione della taranta c’è un fenomeno molto più vasto, che è quello della riscoperta della propria cultura”, oppure: “Lecce... considerata come una delle province più arretrate d’Italia – ma quando mai? Sarà per campanilismo barese di basso profilo o per ubriacatura di statistiche sul PIL de “Ilsole24ore” che Cassano dice questo? (NdR) la riscoperta della taranta ha in qualche modo segnanto un’inversione di tendenza”, dove “la tradizione ha cessato di essere peso e torna ad essere risorsa, un motore culturale”. Per certi versi questo può essere vero. Ma, tentando di allargare lo spazio –  “Il sud... ha un’altra scommessa da affrontare: sfruttare la riscoperta dell’identità come risorsa – sembra che parli un capo-economista del FMI o della BM in vena di strategie economicistiche (NdR) in un quadro politico nuovo (per) far prosperare la terra in cui viviamo (e per arginare) la fuga dei laureati – per questo, forse, non bastrebbe sgombrare le università da baroni e baronetti che ancora vivacchiano cercando di crogiolarsi nella ricerca, mentre di fatto consumano e sperperano a proprio piacimento i pochi soldi della ricerca con vili comportamenti nepotistici? (NdR). E da qui parte puntualmente una vanagloriosa concettualizzazione propedeutica: “La scommessa è quella di puntare sulla qualità, darle spazio e farla prosperare, facendo prosperare di conseguenza l’intero territorio”. Infatti, “nella globalizzazione è importante avere una storia locale da narrare – non importa se sia poi uno stucchevole “tuca tuca” di hawaiana memoria spacciato per cultura popolare (NdR). Pertanto: “La musica è un veicolo straordinario per questo processo di riscoperta dell’identità” (questo è vero, ma non è il nostro caso) anche se “bisogna evitare di restare chiusi in un’identità statica”, perché bisogna riscoprire i “beni comuni, oppure la diffusione di un’altra concezione dello sviluppo”. E siamo arrivati alla semplificazione economica sottratta di seconda mano ai no global.

L’articolo è quasi tutto qui, in queste poche frasi in corsivo - viva la sinteticità! - a parte la finale citazione entusiastica del film di Edoardo Winspeare (rampollo del principe di Depressa (frazione di Tricase, grosso centro nel sud-est del Salento), appassionato di cose “popolari”, regista del film “Pizzicata”, che alla trattazione del fenomeno del tarantismo non disdegna di far recitare da rustiche contadine dolci fanciulle reclutate nella locale tardo-nobiltà-borghese, come la protagonista, vestita da contadina “pizzicata” dalla “taranta” durante la faticosa coltivazione dei campi, che fa bella mostra di delicati piedini e manine, lisci e vellutati, per nulla screpolati e anneriti dalle pietre e dalla terra, che solo per l’occasionale ripresa scenica hanno rinunciato alle cure e agli unguenti.

Che ci racconta allora Cassano? O altri studiosi e intellettuali che, sul fronte opposto dei denigratori, sparano a zero contro la manifestazione de “La Notte della Taranta” sulle pagine di Repubblica o dello stesso settimanale Carta, quando osservano che questi spettacoli sono dannosi per il patrimonio culturale salentino, quasi che la “pizzica” sia un fenomeno per far quattrini, “mentre in passato chi danzava stava male”? Certamente il fenomeno è complesso e, pertanto, controverso. Lo ammette lo stesso sindaco di Melpignano, che nella citata Carta afferma: “E’ un atteggiamento culturale tipicamente nostrano che in passato non ha prodotto risultato”, e qualcun altro aggiunge di rinforzo: “Il movimento della pizzica, dagli anni ’90, un fenomeno importante non solo dal punto di vista culturale e sociale, ma anche sul piano economico, ed è nato essenzialmente dal basso”. Solo che negli ultimi due-tre anni la manifestazione è diventata quasi un’istituzione calata “dall’alto”, che ha anche prodotto tante polemiche, litigi e ricompattamenti dell’ultima ora nelle varie sedi istituzionali che ormai patrocinano l’evento.

 

5. Dubbi, polemiche, critiche, proposte. Personalmente mi sento distante da tutti, perché nessuno vuole chiamare le cose con il proprio vero nome, dire cioè in maniera chiara di cosa si tratta veramente, con che tipo di fenomeno abbiamo a che fare e per come si tenti di travisarlo, trasformarlo, denigrarlo, innalzarlo o magnificarlo, tanto da “mediatizzarlo” impietosamente. Tutti mi sembrano degli abili falsari, almeno in termini culturali: si nascondono pure e semplici verità, che poi di fatto nascondono ciò che potrebbe in effetti essere recuperato nella cultura e nell’identità di un popolo, mentre si fa incetta di qualcosa di singolare che, pur essendone parte, non può assolutamente rappresentare il tutto, ovvero identità e cultura in senso lato di un popolo, di una regione, di una storia, di una speranza.

 

6. Per esprimere fino in fondo il mio pensiero e la mia posizione, tento di gettare delle ipotesi, delle piste di ricerca, per delle possibili spiegazioni. Il fenomeno del tarantismo legato alla “pizzica” potrebbe essere intravisto da singoli individui come il vano e parziale tentativo di superare la condizione sociale ed economica meridionale di un passato ancora recente, se non per certi versi ancora presente, ovvero di ciò che potrebbe rappresentare la sua vera identità, che nello “sfondo” storico-sociologico è segnata dalle difficoltà sociali ed economiche legate alla subordinazione, al familismo, al patriarcato, alla precarietà esistenziale e alla fatica della quasi unica attività lavorativa svolta nella coltivazione dei campi, spesso in affitto o a mezzadria, con contratti capestro, risultato di accordi notarili stipulati con un padrone avaro, parassita e prepotente ed un “massaro” ignorante e affamato, spesso con molti figli da sfamare. Nella cultura meridionale, soprattutto letteraria, non mancano classici esempi e tipi ideali di narrazione di questa condizione e di questo tipo d’identità popolare, anche di grande spessore artistico. Citiamo a solo titolo d’esempio, I Malavoglia e il ciclo dei vinti di Verga, il teatro dialettale napoletano dei fratelli De Filippo, il poema dialettale del Capitano Black (al secolo Giuseppe De Dominicis di Cavallino in provincia di Lecce) e, per che no, il recente ciclo di canzoni scherzose, ma anche tristi, sul ricco e sul povero di Federico Salvatore. In questi riferimenti letterari ed artistici traspare in forma chiara e semplice (purtroppo anche dolorosa) l’identità del popolo meridionale, che oggi si sublima nella nevrosi quotidiana che si manifesta nella lotta (tra poveri) per l’occupazione, per allontanare le discariche dai propri paesi e per la distruzione plateale di prodotti agricoli nelle strade perché restano invenduti o soggetti alla speculazione di abili intermediatori e truffatori e di pochi scrupoli, i blocchi ferroviari e stradali ecc. Se questo è il nocciolo duro dell’identità meridionale, spesso legata alla cultura dell’espediente e del sotterfugio, del provvisorio e del disagevole, della fatica e dello sfruttamento anche se non di tipo proletario, si può intravedere il “morso”, la “pizzicata” della tarantola (in puro linguaggio figurativo) come il momento illusorio e grottesco (persino isolato e sotterraneo, inconsapevole e non strategico) escogitato da singoli individui (spesso donne) in età sessualmente matura ma inibita, tra ignoranza fisiologica e comportamentale imperante, in un ambiente socio-economico e culturale ostile, tentativo di togliersi da queste forme di precarietà diffusa, quasi poi a diventare una sublimazione o catarsi popolar-religiosa legata ad istinti sessuali repressi o forma ed espediente di liberazione dal peso della solitudine e dell’emarginazione, anche familiare, e soprattutto forse dalla stessa fatica di tutti i giorni. Il tarantismo, dunque, per dirla con lo stesso De Martino (tanto citato, usato e abusato anche da chi non lo ha mai letto), è un “morso” che fa strada al “rimorso”, in una “terra del rimorso”, come recita il titolo del suo famoso libro, in una situazione reattiva complessa e coinvolgente ad un’identità miserabile, in una terra e cultura ostili, che solo l’emigrazione in luoghi sempre più lontani del nord dell’Europa e della stessa Italia, se non d’oltreoceano, lenirà o eliminerà del tutto, specie a partire dagli anni ‘50. Infatti, proprio la ricerca condotta negli anni ’50 dall’equipe guidata da De Martino registrava la fase di un fenomeno marginale ed in via di definitiva estinzione e sdradicamento. Qualcosa che qualcuno negli anni ’70 definiva come ormai “finalmente” scomparso, un passato da dimenticare, una pratica “stucchevole” e “denigratoria” da evitare, persino nei discorsi quotidiani.

 

7. Perché tutto questo oggi non si dice, nemmeno si accenna, viene taciuto, si nasconde (proprio come si nascondeva la stessa povera persona “tarantata”, quasi ghettizzata, nella famiglia, nel vicinato, nella comunità – anche se questo era poi un modo per sottrarsi all’avvilimento, allo sfruttamento, alla precarietà, spesso di genere, ma anche un atto di ritorsione, di avvicendamento nel palcoscenico locale da protagonista, di messa in scena di una violenza ostentata ed estenuante)? Si cerca oggi di mascherare con una festa, estetizzante ed esilarante, ciò che festa non è, che non è riso, che non è allegria, che non è la cultura o l’identità in senso assoluto di un popolo e di una regione, ma nemmeno in senso relativo, ma solo una minima appariscenza culturale, oscura, contrastante e incostante, un microfenomeno facente parte della complessa struttura sociale e della cultura contadina e popolare, in particolare del meridione salentino, ancora tutta da indagare, comprendere, rispettare.

Considerevole, perciò, aver fatto riemergere un fenomeno, controverso ed affascinante, di una parte di popolo, ma, che una generazione politica ed intellettuale, di fatto ignorante (nel senso che ignora o misconosce senza curarsene più di tanto), lo scambi e lo spacci come “la cultura” e “l’identità” dei meridionali salentini, nella parodia generale delle semplificazioni a buon mercato, è qualcosa che acquista un sapore amaro e sconfortante, da contrastare e contraddire, e se qualcuno si sente di controbattere a queste mie osservazioni si faccia pure avanti. Il dibattito può e deve iniziare! Almeno per far finire questa demenziale messa in scena estiva, che violenta un fenomeno appartenente ad un’intimità individual-popolare perduta, facendo leva su un folklore festaiolo di cattivo gusto e di basso profilo.