Nel mondo del libro*
di Mario Cedrini
(aprile 2006)

 

 

In uno splendido libro dedicato al dono[1], scritto nel 1983 e tradotto in italiano solo nel 2005, Lewis Hyde spiegava che nella società mercantile, a differenza di quanto accade nelle “comunità” (quelle studiate dagli antropologi e rette dal dono, quella formata dagli artisti e dagli amatori, i mondi del socialismo reale, quello della famiglia, e via dicendo), si può fare tutto, perché si è liberi di farlo: si può andare a vedere una partita di football, una mostra d’arte, si può fare shopping e viaggiare. Il problema è trovare qualcuno con cui farlo. In Italia, gli amanti del libro sono considerati con rispetto, per paradosso, più dai media e dalle vetrine importanti (come la Fiera di Torino) che dai loro concittadini e dallo stato. La migliore critica che può riguardarli è quella di soffrire di bulimia: come se la continua ingestione di libri, alla quale corrisponde, per poter continuare il ciclo, il loro rigetto all’esterno, nascondesse un meccanismo freudiano, attraverso il quale gli amanti del libro sopperiscono evidentemente alla mancanza di qualche elemento di vita reale. Non bisogna chiudersi nel loro mondo, spiegano i critici: altrimenti si dimentica la realtà. E chi vi si chiude, altro non è che il rappresentante massimo della tarda società capitalistica, alla continua ricerca di fattori di crescita della crescita. Ci dovrà pur essere un limite, alla lettura, oltre a quello delle ventiquattro ore quotidiane. Una critica, per gli amanti del libro, totalmente priva di fondamento. Ed è l’unica alla quale prestino attenzione, pur senza cedervi: presuntuosamente, ritengono che l’esperienza del libro arricchisca anziché indebolire. Un gioco a somma positiva, insomma, e non uno a somma zero. Il mondo dei libri contro il mondo esterno, ecco il grande scontro. Ma qual è il mondo dei libri?

Ognuno darà una risposta differente, è ovvio. Gli amanti dei libri narreranno di mondi possibili e di mondi infiniti, quelli creati dai libri. Ma un mondo dei libri, se esiste (ed esiste), dovrà pure avere una casa, magari simbolica, i cui muri non portanti saranno altrettanti confini, per difendersi dalla realtà esterna. Le biblioteche, ad esempio. Quei luoghi tristi, che ricordano i casermoni sovietici, o le impenetrabili prigioni di Guantanamo. Qualsiasi cosa accada al loro interno, si tratterà di pura burocrazia o di violenza gratuita. Burocrazia + violenza: oltre a fare il comunismo reale, al pari dei soviet e l’elettricità, fanno anche le biblioteche in Italia. Non tutte, chiaramente: ma una buona parte, in particolare nelle grandi città, laddove svolgono funzioni di pubblica utilità. E cioè, poco utilitaristicamente per la verità, perseguono scopi di rappresentanza: i libri si rifugiano al loro interno, scambiando il tetto che li ripara con la promessa di stare buoni, pronti a sorridere ai quattro avventori della biblioteca, senza entusiasmo, solo per una buona causa. Quella per la quale i quattro avventori sono chiamati a testimoniare: lo scontato tentativo culturale (basta questo) della città che ospitano le biblioteche. Per fortuna gli avventori non sono così fertili, altrimenti quel tentativo mostrerebbe il suo fallimento. Entrare in una biblioteca italiana è spesso un rischio: vi troverete isolati, le facce in giro non vi piaceranno, agli sportelli difficilmente si affaccerà qualcuno. Se lo farà, sarà per anticiparvi: il libro che cercate non esiste, è stato rubato, è in fase di catalogazione, non è mai stato qui, ha subito un fenomeno di autocombustione. Tuttavia avrete perso almeno mezz’ora per sfuggire alle regole della burocrazia. Burocrazia + violenza: non capiterà spesso di essere trattati bene, e nemmeno bene, ma al pari di un cliente di un supermercato. Il dramma è in fondo qui: non si è clienti, ma utenti. Una parola quasi onomatopeica: il rumore di una porta che si chiude, sbattendo, al contrario di “cliente”: qui la porta si apre facilmente, lubrificata dall’equivalenza mercantile.

Kokoschka diceva che i libri ceduti in prestito non tornano mai, perché offesi. È probabile che sia così: e può anche darsi che in una biblioteca italiana, i libri richiesti siano sempre irrintracciabili, proprio perché si vergognano di farsi vedere. O rifiutano orgogliosi il primo contatto, dopo anni di sonno profondo, con un qualsiasi ricercatore, magari interessato a un semplice titolo contenuto nella loro bibliografia. Se fosse possibile, tuttavia, non si rivelerebbe infruttuosa una loro gita all’estero, magari a Montréal, città dalla quale Torino (e Roma) ereditano direttamente il titolo di Capitale Mondiale del Libro. Semplicemente per conoscere un altro mondo, quello nel quale sono immersi i libri montréalesi.

I libri montréalesi parlano una lingua strana: si pensi ai nomi delle vie, le loro “côtes”, collocazioni: ML3795P431993, ad esempio. Difficilissimo trovarli, a meno di conoscere tutto di loro: l’argomento generale trattato e la categoria speciale, al suo interno, cui si riferiscono, sperando di sapere a quali lettere corrispondono, e via dicendo. Per un bibliotecario tutto ciò è normale, non così per gli avventori. Non ci sono pause, tra quelle cifre: ciò rende tutto più difficile, come se a chiedere informazioni per la strada ci si ritrovasse con un incomprensibile “Adxpoidriquasemforgireinfo”. Ma tant’è, siamo in Québec. E non c’è distinzione immediatamente percepibile tra economia e scienza, filosofia e arte. I libri amano stare tutti insieme, l’uno accanto all’altro, in un delirio di colori. Che si estende all’infinito: qui a Montréal i libri sono tutti esposti, pronti ad abbandonarsi nelle mani di un avventore cui piaccia anche solo il colore o la forma del libro, o magari il fatto che non rechi nulla scritto sul dorso. Quando si entra in una biblioteca, la prima sensazione è quella di una vertigine, si è quasi sopraffatti: i libri sono tutti lì, ordinati (almeno per loro!) sugli scaffali, suddivisi da corsie lunghe un centinaio di metri. Ai lati, macchine fotocopiatrici, stampanti e computer, tavoli e sedie ovunque, di qualsiasi tipo: dal piccolo studiolo all’interno del quale sparire per un contatto amoroso con il libro, ai grandi tavoli, alle zone di “studio in comune”, dove gli studenti possano parlare. Chiunque, all’interno, può prendere uno o più libri e portarseli al tavolo, a condizione che poi non li rimetta al loro posto (i libri amano sfuggire all’ordine, quando assaggiano la libertà) ma li posi sugli scaffali di “pré-classification”. Quando passa il personale a prenderli, per riportarli a casa, i libri sono visibilmente stanchi, ma sorridono dal carrello. Insomma, un ricercatore può ad esempio cercare un libro e perdersi nei tanti che – come gli animali in un negozio – spingono per essere tirati fuori; si entra per un libro, se ne vedono cinquanta, se ne prendono quattro. Nessuna burocrazia: l’unico inconveniente è che diventa difficile dissuadere qualcuno dal sottolinearli e dallo scrivere sulle loro pagine qualche messaggio ai posteri.

Immaginiamo che stiate cercando un libro, e che nonostante possiate farlo tramite internet, laddove sono disponibili a chiunque i cataloghi delle biblioteche montrealesi (ma se avete una tessera, naturalmente gratuita, potrete costruire un vostro “dossier d’usager”, per sapere sempre – ovunque siate – quali libri avete preso in prestito, quando riportarli, quando sono disponibili quelli che avete riservato), vogliate farvi un giro di persona. Cercate alla biblioteca dell’UQAM (Université du Québec à Montréal, francofona), che è forse la meno attraente, eppure possiede un suo fascino, perché si estende su di un unico piano, e sembra davvero infinita. Ma il libro non c’è. Allora cercate nella biblioteca della storica McGill University (anglofona), situata nel campus ottocentesco, disposta su 8 piani: magari, però, non c’è nemmeno lì; se la prospettiva non vi allarma, fate anche un salto alla biblioteca di musica, nella quale, mentre voi cercate, gli studenti suonano le loro tastiere al computer, in maniera del tutto silenziosa – hanno le cuffie. Allora decidete di andare alla biblioteca della Concordia University (anglofona), e vi ritrovate in un palazzo degno del Parlamento europeo: una struttura in vetro, su sei o sette piani, con al centro opere di arte contemporanea. Se il libro è particolarmente capriccioso, potrete tornare nei pressi dell’Uqam e recarvi alla Grande Bibliothèque du Québec, appena nata. Enorme, tutta in vetro color acquamarina, tutta nuova, tutta colorata. Il libro è lì che vi attende, non ha più voglia di fuggire. È stremato, come voi. Docile, si posa delicatamente nelle vostre mani, e sogna il suo nuovo rifugio. Impossibile non trovarlo, qui la logica di funzionamento delle biblioteche è fin troppo semplice: esse comprano – semplicemente, appunto – tutto. Tutto ciò che viene pubblicato: libri e riviste, in mille lingue, formati, edizioni. Soddisfatto, il vostro libro vi segue sino al banco dei prestiti. E qui inizia il dramma. 

È domenica pomeriggio, sono le sei. Al banco dei prestiti ci saranno almeno cinquanta persone in fila. Certo, ci sono quattro sportelli e quattro sportellisti… ma anche al banco del “prestito fai da te” ci sono venti persone. Rimpiangendo la meno frequentata biblioteca italiana, vi mettete il cuore in pace e guardate chi è in fila con voi. Un ispano-americano vuole prendere in prestito un libro su James Dean. Ci sono ragazze con romanzi appena usciti in mano, genitori che tengono in una mano il figlio e nell’altra tre dvd. Un giovane intellettuale richiede qualche cd di musica classica. Voi, come altri, siete ricercatori, e prendete libri (anche) per lavoro: quasi vi sentite a disagio. Attorno a voi, centinaia di persone che camminano in tutte le direzioni. Qualcuno si siede tra uno scaffale e l’altro, per terra, e inizia le sue ricerche. Sulle poltrone in pelle nera, a lato, molti leggono il giornale o guardano cataloghi d’arte, e libri di fotografie. Una cinquantina di computer in fila, tavoli occupati da studenti, quasi tutti con un computer portatile. È domenica pomeriggio, sono le sei; e oltre agli studiosi, ai curiosi e alle famiglie dei dvd, ecco i bambini, seduti sul loro divano, circolare, con le cuffie agli orecchi e la bava alla bocca, tanta è l’attenzione con la quale stanno guardando sul loro schermo dedicato un film di Harry Potter. È domenica pomeriggio, sono le sei, tutto va bene e soprattutto è gratuito: mentre in Europa la Commissione europea ha accarezzato l’idea di rendere il prestito un servizio a pagamento, qui nessuno mette mano al portafoglio, se non per prendere una tessera magnetica, anch’essa colorata, recante la scritta: “En savoir plus”.

È quasi il vostro turno. Ed ecco svelato l’arcano: c’è un limite insuperabile e quasi fastidioso. Non potete prendere in prestito più di 30 oggetti (libri, ma anche dvd e cd) contemporaneamente. Allo sportello, guardano con sufficienza i vostri tre libri, e in un attimo siete fuori. Sembra facile, ma c’è ancora un vincolo: entro due settimane, i libri devono tornare. Se proprio volete, potete rinnovare (“solo” due volte!) il prestito; via internet, in qualche secondo. Veniamo ai “non dicta”: immaginate di recarvi per la prima volta alla biblioteca dell’Uqam. Siete uno studente universitario, ad esempio. Vi piacerebbe vedere anche le altre biblioteche, ma non osate confessarlo. Lo sportellista vi anticipa, regalandovi una tessera che vi permetterà di avere accesso a tutte le altre biblioteche. Tutte vi rilasceranno una tessera a loro volta; arriverete, alla fine del breve tour appena descritto, ad avere quattro tessere, quattro numeri d’identificazione, quattro password, un centinaio di libri in mano. Appena entrati, qualcuno del personale tenterà di attirare la vostra attenzione: tranquilli, è solo l’”accueil”, vogliono sapere come esservi d’aiuto. Fate una prova, e vi recate al banco delle informazioni. Chiedete di un libro che non trovate; vi dicono dove si trova, e mentre state compiendo il secondo passo in direzione del vostro libro, sentite che vi richiamano, per chiedervi: “Ha bisogno d’altro, signore?”. Alla Grande Bibliothèque, una delle tante sportelliste è costretta a rilasciarvi la tessera e a chiedervi, a tale scopo, alcuni vostri dati. Sbalorditi, rispondete sottovoce quando vi chiedono, non certo per formalità burocratiche, di cosa vi occupate. Se un libro riservato è finalmente ritornato, vi augurerà, dandovelo, una buona lettura. Quando tornerete a casa, dovrete ricordarvi che i libri stenteranno a mostrarvi il lato migliore di sé: in fondo, alla biblioteca si trovano bene. Non fate mai l’errore di prenderne solo uno; quando un libro “uqam” incontra un libro “mcgill”, si parlano (ma in quale lingua?).

La differenza principale tra i mondi del libro a Montréal e le biblioteche italiane, tuttavia, è ancora da scoprire. Quella domenica pomeriggio, il tempo era bello, e la temperatura particolarmente indulgente. Eppure la biblioteca era piena. D’accordo, ma era domenica. Sì, solo perché ho voluto fare una prova. Che di martedì fosse piena, mi sembrava scontato. E infatti lo era. Ma i montréalesi sono abituati al chiuso, poiché l’inverno è lungo, si dirà. Già: una buona percentuale si sarà certamente ritrovata nella città sotterranea, tempio del consumismo. Eppure la biblioteca era piena.  Non solo di ricercatori, come detto, anzi. Il libro aveva invitato nel suo mondo un’intera popolazione, estremamente varia per età, etnia, condizione sociale. Soprattutto, una popolazione enorme. Il libro l’aveva invitata, come fa ogni giorno, dal mattino presto alla sera tardi, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica (il lunedì, i libri riposano). Ieri attorno al fuoco, oggi attorno al libro, la comunità si forma guardandosi, imitandosi, venendo a contatto, toccando gli stessi oggetti e lasciando che i libri costruiscano il legame. Qualcuno sarà entrato per suo interesse, magari come voi: altri sono là perché vogliono semplicemente guardare un film gratis. Altri ne vogliono scegliere uno per godersi una serata casalinga; le famiglie possono immobilizzare i figli di fronte allo schermo. Qualcuno vuole solo dei cd, e come sempre i giovani sperano di riconoscere un partner nella persona che studia al suo fianco. Eppure, prima o poi, i figli si ricorderanno che la loro ormai ferma abitudine di andare a trovare il libro è iniziata in quel modo giocoso, e magari rideranno al pensiero di essere stati ingannati, convinti di frequentare una seppur strana sala-giochi.

D’accordo, si tratta di una visione idealistica. Ma è in fondo la stessa che dovrebbe animare (perché, altrimenti?) coloro i quali hanno reso possibile la creazione di biblioteche in ogni angolo del pianeta – o quasi. Quale orrore proverebbero i nemici del libro, nello scoprire che la pubblicità di Montréal capitale mondiale del libro in altro non consiste se non nel proclama, da parte di un cittadino: “Leggo in biblioteca. Leggo a casa. Leggo prima di addormentarmi. Leggo nelle pause del lavoro. Leggo ovunque”! Che “la penombra di pagine non lette”, svolazzanti attorno al nuovo lettore, possa spingerlo alla curiosità nei confronti dei libri, è stato suggerito da un grande economista (che sperava di smetterla, più prima che poi, con l’economia!), John Maynard Keynes[2], ormai molti anni fa. Che quello della Grande Bibliothèque e delle altre biblioteche di Montréal sia un mondo dell’abbondanza, come appare ed è, nel quale il denaro non è il principale strumento di comunicazione come all’interno di una società di estranei, è ciò che salva l’amante dei libri dall’accusa di bulimia e di schiavitù nei confronti del paradigma della crescita. Il racconto di Borges sulla biblioteca di Babele ne è la dimostrazione per assurdo (se mai ve ne fosse bisogno: quel paradigma necessita di libri che contengano tutti i precedenti, ciò che con la proliferazione delle pubblicazioni diventa, per nostra fortuna, impossibile): il mondo dei libri resta un suggeritore di altri mondi, perché quella Babele ne è la negazione. I suoi libri non si pongono tale scopo, e proprio per questo finiscono per esaurire tutte le possibilità, senza che l’umanità ne risulti arricchita. E’ un monumento, senza vitalità. Al contrario delle biblioteche di Montréal, né monumenti, né senza vitalità: la prima impressione che se ne ricava entrandovi è proprio quella della vita, del muoversi, del gioco, della coesione, dello stare insieme. Come i libri, che appaiono improvvisamente tutt’altro che immobili. Ed è ciò che più conta: nella società mercantile è difficile trovare qualcuno che voglia condividere le nostre esperienze. Possiamo fare tutto, ma da soli; e invece Hyde si sbagliava, qualcosa sfugge alla regola: in una biblioteca di Montréal, potremo persino condividere la più intima delle nostre esperienze con altre persone. Leggere laddove altri stiano anch’essi leggendo. Leggere a casa del libro. E poco importa se qualcuno guarda un dvd, probabilmente (ecco l’imitazione), prima o poi, lo faremo anche noi. E lui cercherà di scoprire, prima o poi, che cosa vi ha spinto a curiosare negli scaffali.

Potremmo anche spingerci a declamare il valore sociale del libro in sé, delle storie che racconta. Ma sarebbe superfluo, e si perderebbe di vista quel senso di festa che vi accoglie quando entrate. Se le chiese fossero piene di libri, con tutta probabilità susciterebbero meno terrore.  Un libro, umilmente, dà un argomento in più; ed è quando scarseggiano le vedute, che si litiga. E così via: preferiamo davvero rimanere nella festa, sperando che dimentichiate quasi il libro che davvero state cercando, optando invece per una passeggiata non forzata tra le vie del mondo del libro. In fondo, potrete sempre cercarlo quando si approssima l’orario di chiusura: a meno che alle 10 di sera non siate troppo stanchi. Se così fosse, avrete un pretesto per tornarvi l’indomani; ma di un pretesto, di un pre-testo – ed è questo il bello – non ne avrete proprio bisogno. 

 

Note al testo

[1] L. Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, Bollati Boringhieri, Torino, 2005 (1983)
[2] Si veda a tal proposito Ke(y)nesai tu di un libro?, all’interno del dossier.

 

* Già pubblicato sul sito www.rizomamente.org