A cura di Paolo Coluccia (paconet@libero.it)
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L’economia solidale è un’economia politica
e non un’economia caritatevole
(J. J. Sanchez, Porto Alegre 2003)
Questo testo è la rielaborazione in lingua italiana dell’editoriale premesso da Alain Caillé al numero 21 della Revue du MAUSS, Rivista del Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali, (1° semestre 2003), interamente dedicato al tema dell’economia solidale, sul quale, negli ultimi tempi, si è soffermato con una certa intensità un grosso movimento di pensiero, che ha visto all’opera economisti, sociologi, antropologi, psicologi, filosofi ed intellettuali variamente legati al movimento antiutilitarista nelle scienze sociali. I brani in corsivo riprendono fedelmente il testo dell’editoriale citato.
1. La speranza dell’economia solidale.
‘Un altro mondo è possibile’, affermano i no global. Ma è possibile un altro mondo senza un’altra economia? E questo miraggio di un’altra economia è plausibile? Economia solidale, economia sociale, economia informale, microfinanza, commercio equo ecc., tutto ciò crea un’alternativa economica vera al capitalismo?
Scrive G. Massiach (vice-presidente di ATTAC): «Si fa strada una controtendenza nel diritto internazionale. L’idea che è possibile regolare l’economia e gli scambi a partire dal rispetto dei diritti; diritti civili e politici come pure diritti economici, sociali e culturali».
Né lo stato né il mercato libero bastano a soddisfare i bisogni della maggioranza delle popolazioni; occorre dunque necessariamente ed imperativamente trovare qualcosa d’altro, altre soluzioni economiche.
Purtroppo si sa che una buona parte dei percorsi economici alternativi hanno il nome di economia clandestina, lavoro nero super sfruttato, o peggio, che non è per niente trascurabile, economia criminale, traffico di droga e di armi, riciclaggio di denaro sporco ecc. Per alcuni, queste sono delle soluzioni, ma difficilmente raccomandabili e universalizzabili.
Si cerca un’alternativa possibile. Tre prospettive si disputano il suffragio: l’economia informale, il terzo settore e l’economia solidale.
Sulla prima pesa il carattere proteiforme e poco trasparente delle relazioni di scambio, anche se sarebbe possibile discernere molto più chiaramente quella parte di scambi che appartengono all’economia criminale, quarto settore – come lo chiama Rifkin – o Sistema D, e ciò che è alla base delle azioni economiche elementari, sociali, di sussistenza, legate alle tradizioni culturali, a professioni con chiaramente monetizzate, ad espedienti di sistema che esprimono un consistente substrato economico e sociale. Non ci sono, su questo settore, molti studi nel mondo.
Sul secondo, molti studi e una massa enorme di letteratura socioeconomica, da sempre suffragato e ben accolto dalle ONG e dal mondo associativo legato al non profit, pesa lo svantaggio relativo alle fonti di finanziamento e alla produzione del bilancio, che, in società molto individualizzate come la Francia e l’Italia, provengono in larghissima misura dallo Stato ed eccezionalmente dal settore privato. Questo restringe il campo d’azione, soprattutto nella concorrenza e nella competizione con il settore privato del mercato che mantiene il privilegio settoriale nella creazione del profitto.
Inoltre, si denota su questo settore socioeconomico, la pressione di una concezione sociale filantropica e caritatevole, che spinge a caratterizzare il progetto politico, più che economico, che spesso emerge nelle azioni dei soggetti non governativi o no profit, che così resta ancora più lontano dal fornire un’alternativa reale e concreta alla dominazione lucrativa del mercato e della finanza.
Pertanto, tutte le speranza, oggi, o almeno da qualche anno a questa parte, riposano sull’economia solidale, che per ora rappresenta soltanto una speranza e sulla quale circola qualche tiepida teorizzazione – che spesso cade in luoghi comuni, anche obsoleti – da parte di una schiera risicata di “nuovi-economisti”, spesso alla ricerca di futili clamori e di successi personali, o portatori di qualche debole sperimentazione.
Sostenitori e teorici: Da Franco, Fraisse, Laville, Ortiz, Arruda, Amouroux, Johnson, Geiger. Alcuni, tra cui Nancy Neamtam, presentano il ricorso all’economia solidale come una radicalizzazione della ricetta democratica. Heloisa Primavera vede uno sbocco obbligato del sistema del Trueque argentino, impelagatosi di recente negli abissi inflazionistici causati dagli abusi di emissione di moneta sociale nei Nodos della RED, ad opera di sprovveduti e soprattutto di gruppi malavitosi e di speculatori privi di scrupoli.
Le formulazioni che fanno capo a queste posizioni lasciano comunque intravedere una buona dose di ingenuità e di ambiguità dell’economia solidale, la quale, oltre che a risolvere i problemi legati alla scarsità, dovrebbe sobbarcarsi anche nella regolazione politica dei diritti civili ed umani e di quelli economici e sociali.
Le effusioni di affetto nei confronti di Lula e del suo partito dei lavoratori che lo ha portato alla presidenza del Brasile, non bastano a dare certezza alla soluzione della miseria morale ed economica di ampie fasce delle popolazioni appartenenti al 3° e 4° mondo, presenti anche in larghi strati delle città opulente del mondo occidentale.
E con questi problemi l’ingenuità bonaria, affibbiata impropriamente alla parola solidarietà, non basta. Mentre i punti nodali legati all’ambiguità dell’economia solidale sono le ideologie, le strutture organizzative, la vocazione, gli strumenti, i fini, il potere, i risultati, la concretezza.
Si paventa, dunque, il rischio di contaminazione dell’economia solidale da parte dell’economia criminale. Un esempio per tutti: la Russia. Secondo Leonid Kossals e Rosalina Ryvkina l’economia sotterranea rappresentava il 10-11% del PIL nel 1991, il 39% nel 1994 e rappresenterebbe almeno il 50% oggi. Una ‘economia dell’ombra’, che si è da lungo tempo imposta come un’istituzione ad interi settori e in seno alle istituzioni economiche della Russia.
L’altra difficoltà dell’economia solidale è intravista nella mancanza di ideali e di effettive ambizioni. Afferma infatti Serge Latouche che il settore solidale, manchevole di una rottura netta con l’ethos del tutto-economico dominante, checché se ne pensi, non saprà mai giocare che un ruolo suppletivo e caritatevole dell’economia di mercato. È nell’informale, nell’informale antisviluppista e sostenitore di un’etica della de-crescita economica e non nell’economia solidale che bisogna trovare rifugio. Sottostimando il dinamismo egemonico del capitalismo, l’economia solidale si mostra incapace di sfidarlo veramente (Geneviève Azam). Questo settore dell’economia sociale rischia di cadere nell’isomorfismo istituzionale, ovvero la tendenza di somigliare alle imprese del settore privato, cioè ad ibridarsi per tornaconto con l’associazionismo, ma diventando anche dipendenti dal sovvenzionamento pubblico. Cosa c’è, si chiede provocatoriamente Latouche, dietro quegli incessanti tentativi più o meno caritatevoli che esistono dal XIX secolo, creati per moralizzare e umanizzare il capitalismo?
Oltre la provocazione, e la posizione estrema e radicale che essa lascia intendere, c’è una risposta, che è la seguente: nuove forme di filantropia americana, come quelle che si sviluppano in particolare nella Silicon Valley.
Se da una parte – in Europa – il paradigma del dono è sostenuto da un discorso politico di sinistra, a tonalità un po’ cristiana e un po’ socialista, gli attori dominanti del terzo settore americano appartengono al mondo degli affari e sviluppano una tradizione filantropica antica e vi iniettano i valori di efficacia e di professionalità propri dell’impresa moderna. Per essi, redditività finanziaria e ritorno sociale dell’investimento nella filantropia non sono che le due facce della stessa medaglia. Bisogna che ciò ritorni, che ciò marci e che ciò renda.
3. Spiegazioni e schermaglie teoriche
Forse non sappiamo quello che vogliamo, almeno in questa fase. Si stanno mischiando molti ingredienti, si sta facendo una certa confusione di idee e di concetti. Da un’altra-economia all’altra – economia informale, sociale, del terzo settore o solidale – le frontiere sono fluide e gli slittamenti continui.
Spesso non si bada tanto all’uso corretto delle parole e delle loro coppie, e in quest’ultimo caso si ricade inevitabilmente in ‘ossimori’. Per Bruno Lautier, l’insieme di tutte le varie forme rappresentano un’alternativa. Invece Serge Latouche ripudia la prospettiva solidale a vantaggio dell’informale.
Questa visione dell’informale è aspramente criticata da Lautier, in quanto, egli osserva, dove questo esiste è immancabile la presenza, o il dover fare i conti, con la corruzione e con la criminalità – l’economia informale, egli dice, non è mai niente di solidale né di gioioso.
Sono due visioni sull’economia informale che si scontrano, quella africana (di Latouche) e quella latino-americana (di Lautier). Ma non è nelle parole che non ci si capisce, ma nella sostanza del fenomeno: la prima visione è governata da principi basati sulla reciprocità e sulla solidarietà, la seconda invece è spesso avviluppata e sottomessa rispettivamente dalla logica criminale dei cartelli mafiosi del narco-traffico e dal dualismo strutturale rappresentato storicamente dai grandi proprietari e dai lavoratori senzaterra, costretti a vivere di espedienti nelle favelas e ai margini della società, diventando facile preda delle organizzazioni malavitose.
Invece, secondo Alain Caillé, l’economia solidale (come pure l’economia pubblica) non incarna un altro principio economico sistemico, come quello dell’economia di mercato. Essa rappresenta un’altra maniera di istituire (direbbe Polanyi) l’economia. Esiste un grande pluralismo nel modo di istituire e di incanalare le economie sulla via della creazione di solidarietà e di comunità sociali e politiche.
Questa istituzione, questo incanalamento dell’economia può creare una solidarietà tra i membri della famiglia, ristretta o allargata, tra i membri del villaggio, tra correligionari, tra appartenenti ad una stessa cultura o tra cittadini di una comunità politica, tra salariati (è il caso dell’economia sociale), tra militanti ecc.
Il problema specifico dell’economia solidale è che ha per obiettivo quello di creare la solidarietà, la fiducia, la lealtà e la reciprocità tra gli individui che non sono legati a-priori da questi cementi sociali in senso tradizionale o ereditati.
E l’economia solidale non può esistere se non inscritta nello spirito della democrazia. Secondo la sua dimensione esplicitamente politica. Perché è soprattutto di questo che si tratta.
È illusorio mirare a costruire una scienza economica alternativa alla scienza dominante, una scienza economica tutt’altra. In compenso, diventa ogni giorno più urgente imparare a gettare sull’economia un altro sguardo diverso da quello che ci impone la stessa scienza economica, uno sguardo ispirato da una parte dalla stessa economia ma anche dalle altre scienze sociali e dalla chiara coscienza dell’urgenza etica e politica che ci permetta di superare la visione economicistica del mondo.
Questa coscienza è assai condivisa da un numero crescente di economisti, convinti nel riconoscere i limiti della loro disciplina. Il movimento PEKEA (Political en Ethical Knowledge on Economic Activities): questo movimento raggruppa già più di 500 ricercatori appartenenti a 45 paesi.
4. Ricchezza e gratuità
Si sta lentamente aprendo una nuova pista di ricerca, quella che mette in dubbio le fondamenta stesse della ricchezza economica. Tutte le ricchezze non sono necessariamente quelle economiche.
Occorre sfuggire alla dittatura del PIL e della mercantilizzazione?
Patrick Viveret nel suo Rapporto al Segretariato di stato per l’economia solidale propone di riconsiderare la definizione sociale della ricchezza. Anche Dominique Méda si pone la stessa questione nel suo libro Che cos’è la ricchezza? Il rapporto Viveret si ricongiunge pertanto all’importante lavoro effettuato dagli esperti dell’ONU e comporta l’elaborazione di indicatori sociali che tentano di valutare a loro volta la felicità del vivere e la realizzazione di fini intrinsecamente desiderabili ben al di là dell’agiatezza materiale.
Amarthya Sen, Premio Nobel per l’economia ed economista eterodosso, spiega perché è necessario opporre un indicatore sintetico di sviluppo umano al PIL, al fine di relativizzare la portata di quest’ultimo e di spostare l’attenzione sociale dagli obiettivi che puntano al solo aumento della produzione di mercato. Si deve pensare, implicitamente ed esplicitamente, lo sviluppo umano, la giustizia sociale, la qualità della vita sotto il segno della ricchezza, che sempre più apparirebbe come una ricchezza economica?
A questa domanda si ispirano le riflessioni di Arnaud Berthoud, che distingue due generi di ricchezza, quello della cura, per esempio il seno della mamma per il suo bambino, e quello dell’uso dei beni materiali. Ne deriva un modo diverso di intendere e di considerare i servizi e i beni, dunque una nuova concezione della ricchezza, che rifiuta la visione dell’utilitarismo. Allo stesso modo Alain Caillé si domanda se piuttosto che con la produzione e con il lavoro, la ricchezza, la “vera” ricchezza non sia quella che ha a che vedere con la grazia, il grazioso, la gratuità, con ciò che è dato in più e senza sforzo. Se è questo il caso, lo sforzo di misurarla assomiglia al tentativo di abbracciare un fantasma.
Ci sarebbe tutta una dialettica sottile sulla ricchezza e sulla gratuità da sviluppare, che mostrerebbe come le imprese di mercato non prosperano se non in presenza di luoghi pieni di risorse gratuite, come l’acqua potabile, l’aria respirabile, le buone relazioni sociali, efficienti infrastrutture pubbliche e sostegni finanziari. È perciò importante far rinascere negli esseri umani, qualunque sia il loro ruolo sociale e politico, l’importanza dell’apporto dei servizi gratuiti che puntino al miglioramento continuo degli stessi e dell’ambiente sociale.
L’economia solidale anti-economica, che concorre al perfezionamento permanente di Linux, è, nel suo campo, esemplare. Occorre, pertanto, seriamente e in profondità, aprire una riflessione su queste forme più moderne di gratuità. Una posizione estrema, che porta l’altra-economia su posizioni parossistiche, certamente estreme ed utopistiche, è quella espressa dl movimento Collectif d’artistes, che punta ad una apertura dello spazio della gratuità, ma con una radicalizzazione incondizionata. Sarebbe pericoloso pretendere di rimpiazzare l’economico con il gratuito. Ma sarebbe altrettanto pericoloso, in senso inverso, non far esprimere il diritto al desiderio della gratuità. Non è attraverso questo rapporto con la gratuità, con la natura e con il vivente – di cui il partorire rappresenta senza alcun dubbio il paradigma per eccellenza – che le donne potrebbero giocare un ruolo specifico e insostituibile, si domanda Geneviève Azam?
5. Conclusione: calma sull’altra-economia
Discussione complessa, certo, ma senza dubbio necessaria, quella sull’economia-altra, sull’economia solidale, su cui ruota un cospicua riflessione rivolta all’approfondimento di concetti sociali, economici e culturali, ed un insieme di teorizzazioni (vecchie e nuove) legate a filo diretto con le nozioni di economia formale o sostanziale, sociale, solidale, informale; di produzione, ricchezza, utilità, materialità, gratuità, benessere, qualità della vita; dell’ambiente, natura, biodiversità, conservazione, vivente. È illusorio oggi mirare ad edificare un’altra economia da contrapporre all’economia di mercato capitalistica. Ma è infinitamente augurabile inventare nuove regole del mercato e (puntare) all’invenzione di nuovi modi di rapportarsi all’economico e di istituire socialmente l’economia. Si potrebbe dire riassumendo: «Altra economia, economia altra, no; altra istituzione dell’economia, sì».
Le conclusioni sull’economia solidale, dunque, non possono essere che le seguenti. Mobilitando i sentimenti di lealtà, di solidarietà e d’amicizia, essa libera energie, permette alla collettività di beneficiare del lavoro gratuito dei suoi membri e crea tra essi ciò che Jacques T. Godbout chiama un sentimento di indebitamento mutualistico positivo.
Il rischio pressante, in una concezione del genere dell’altra-economia, sarebbe quello di cadere facilmente preda delle buone intenzioni, e questo non va bene, almeno al giorno d’oggi, dove già tanti soggetti istituzionali e sociali, oltre che religiosi, millantano un credito enorme. Sappiamo, ci dice Viveret, che l’inferno è pavimentato di tante buone intenzioni, che sulla terra sono rimaste solo tali, e che ‘basterebbe non essere malvagi’ per evitare la punizione eterna.
In positivo, però, ritorna alla fine la proposta di Gustave Massiah posta in apertura, che poteva sembrare un po’ estranea alla questione dell’altra-economia. La prima condizione perché nel mondo si coordino e si finalizzino tutte insieme le più disparate, e proprio per questo straordinarie, esperienze di economia-altra, è che coloro che vi partecipino condividano almeno una stessa esigenza di giustizia e dunque la stessa esigenza di far rispettare il diritto.
Pertanto, il cemento dell’altra-economia alternativa non è economico, ma etico e politico.