Ivan Illich

 

Il mazzo di fiori dell’amicizia…

 

(Brano tratto dal saggio: Ivan Illich, La cultura della cospirazione; sta in La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 324-330)

 

Il mazzo di fiori dell’amicizia cambia ad ogni soffio, ma quando è là non ha bisogno che lo si nomini. Per molto tempo ho creduto che non ci fosse un nome per indicarlo, né un verbo per esprimerlo. Ogni volta che ho provato a cercarlo, ne sono stato scoraggiato; tutti i sinonimi sono stati annessi alla forza dalle controfigure sintetiche: mode per le masse e umori abilmente commercializzati, sensazioni chic, eleganze e tendenze dei gusti. Dagli anni 1970, la dinamica di gruppo e tutto l’armamentario che l’accompagna, i ritiri e il training fisico, fatti per creare “l’atmosfera”, sono diventati un grande mercato. Un silenzio discreto sulla questione che sollevo è apparso preferibile, piuttosto di creare un malinteso.

Poi, trent’anni dopo […], ho improvvisamente capito che esisteva sicuramente una parola semplicissima per dire quello che cercavo di definire con “atmosfera”, e questa parola è pace. La pace, non nel senso con cui le numerose parole della stessa famiglia sono usate in tutto il mondo, ma la pace nel suo senso postclassico, europeo. La pace, secondo questa accezione, è la sola parola forte adatta a designare l’atmosfera di amicizia creata tra eguali. Per capirlo, bisogna considerare la pace come il frutto della conspiratio – strano comportamento rituale quasi dimenticato ai giorni nostri.

Ecco come mi è venuta questa intuizione. Nel 1986, alcune dozzine di pacifisti di Africa e Asia preparavano l’apertura di un centro comune di ricerca sulla pace. L’assemblea di fondazione doveva tenersi in Giappone e i responsabili volevano un oratore del terzo mondo. Per ragioni di delicatezza, però, cercavano qualcuno che non fosse né asiatico né africano; considerandomi latino-americano, mi chiesero di venire in fretta. Cacciai dunque la mia guayabera in valigia e partii per l’Oriente.

A Yokohama, presi la parola come storico. Prima di tutto, volevo finirla con la nozione di pace universale. Intendevo insistere sul diritto di ogni ethnos alla sua pace speciale – dato che ogni comunità ha il diritto di essere lasciata in pace. Doveva essere ben chiaro che la pace non è una condizione astratta, ma per ogni comunità, uno stato speciale molto specifico da gustare nella sua unicità particolare, incomunicabile.

Il mio obiettivo, a Yokohama, era duplice: contavo di esaminare non solamente il senso, ma anche la storia della perversione della pace in questa appendice dell’Asia e dell’Africa che chiamiamo Europa. Dopo tutto, la maggior parte del mondo, nel XX secolo, soffre dell’accettazione entusiasta delle idee europee. L’assemblea del Giappone mi dette l’occasione di opporre lo spirito unico di pace che è nato dall’Europa cristiana alla sua perversione e contraffazione quando, nel gergo della politica internazionale, viene creato un legame ideologico fra lo sviluppo economico e la pace. Sostenni che solo sciogliendo la pax (la pace) dallo sviluppo si poteva rivelare la gloria fino a qui insospettata che si nasconde in questa pax. Ma arrivarci era difficile davanti a un uditorio giapponese.

I giapponesi hanno degli ideogrammi per una cosa che noi non abbiamo, non diciamo o non avvertiamo: fu-dô. Il mio insegnante, il professore Tamanoy, me lo descrisse così: “l’incomparabile freschezza che nasce dalla mescolanza di un suolo particolare con le acque adatte”. Fidandomi della mia sapente guida pacifista, poi deceduto, partii dalla nozione di fu-dô. Era facile spiegare che la philia ateniese e la pax romana, per quanto differenti l’una dall’altra, sono tutte e due incomparabili con il fu-dô. La philia ateniese esprime l’amicizia tra gli uomini liberi di una città, e la pax romana l’ordine amministrativo di una regione dominata dalla legione che ha piantato le sue insegne nella sua terra. Per merito del contributo del professor Tamanoy, fu un gioco da ragazzi precisare le contraddizioni e le differenze fra queste due nozioni e portare il pubblico a commentare le analoghe eterogeneità nel senso culturale della pace rimandando tutte a una particolare atmosfera eminentemente desiderabile. Fino a questo punto, la conversazione fu facile.

Però, parlare della pax all’epoca protocristiana si rivelò una questione delicata, perché attorno all’anno 300 pax diventò una parola chiave nella liturgia cristiana dato che l’eufemismo disegnava il bacio di bocca in bocca fra i fedeli che partecipavano alle funzioni. La pax divenne la mimetizzazione dell’osculum (dalla parola os, bocca), della conspiratio, il mescolarsi dei soffi. Il mio amico pensò che non solamente mi esponevo a un malinteso, ma che rischiavo di scioccare evocando pubblicamente un simile contatto fisico. Il gesto, ancora oggi, ripugna ai Giapponesi.

Anche in latino osculum non è né molto antico né frequente. È una delle tre parole che si può tradurre con “baciare”. A confronto con il tenero basium, paterno o coniugale, e il lascivo suavium, osculum apparve tardi nel latino classico e servì solamente in una circostanza come gesto rituale. Nel II secolo, divenne il segno dato ad una donna da un soldato in partenza, la maniera per riconoscere come suo il bambino che lei aspettava.

Nella liturgia cristiana del I secolo, l’osculum, prese una nuova funzione. Divenne uno dei due momenti forti della celebrazione dell’eucarestia. La conspiratio, il bacio sulla bocca, fu ormai il gesto liturgico solenne col quale i partecipanti al culto condividono il loro spirito gli uni con gli altri. Venne a designare la loro unione nello Spirito Santo, la comunità che prende forma nel soffio di Dio. Esplicitamente, corporalmente, la celebrazione cristiana centrale era compresa, letteralmente, come co-respirazione, cospirazione: la produzione di un’atmosfera comune, di un ambiente divino.

L’altro momento eminente della celebrazione era, ben inteso, la comestio, la comunione della carne, l’incorporazione del credente al corpo del Verbo incarnato, la communio era teologicamente legata alla con-spiratio precedente. La conspiratio divenne l’espressione più forte, la più chiara e la più francamente somatica della creazione, fuori da ogni gerarchia, di uno spirito fraterno in preparazione al pasto unificatore. La pace come mescolanza del suolo e delle acque è una bella immagine; la pace come risultato della conspiratio richiede un’intimità esigente.

Questa pratica non doveva essere scontata. I documenti rivelano che la conspiratio fece molto presto scandalo. Tertulliano, il rigorista africano Padre della Chiesa, stimò che una degna matrona non doveva essere esposta a un possibile imbarazzo a causa di questo rito. La pratica persistette ma non il nome; la cerimonia esigeva un eufemismo. Dal III secolo in poi, l’osculum pacis fu evocato sotto il semplice nome di pax, e il gesto fu spesso edulcorato fino al punto da essere ridotto a un leggero contatto per significare la mesconalza spirituale delle viscere al fine di creare una atmosfera fraterna. Oggigiorno, la pax prima della comunione, ciò che si chiama il “bacio della pace”, è ancora parte integrante della messa nel rituale romano, slavo, greco e siriano, anche se si riduce a una stretta di mano di pura forma.

Come a Yokohama, non posso fare a meno di raccontare questa storia oggi qui a Brema. Perché l’idea stessa di ospitalità che si rivolge allo straniero, come quella di una comunità con l’incorporazione ulteriore che nasce da una libera assemblea, non si potrebbe comprendere senza il riferimento al bacio cristiano sulla bocca, che dà alla comunità locale un carattere “spirituale”. La comunità, nella nostra tradizione europea, non è il frutto di un atto di fondazione autorizzato, né un dono della natura o dei suoi dei, e nemmeno il risultato della gestione, della pianificazione e della progettazione, ma la conseguenza della COSPIRAZIONE. Il prototipo di questa è la liturgia dei primi cristiani nella quale, qualunque siano le loro origini, uomini e donne, Greci e Ebrei, schiavi e cittadini, generano fisicamente tutti insieme un qualcosa che li supera, uno spirito di amicizia.

Gli storici hanno spesso fatto valere che l’idea di contratto sociale, che domina il pensiero politico nell’Europa barocca, trova le sue origini nella maniera con cui i fondatori delle città medievali concepivano le civiltà urbane. La concentrazione sulla società medievale tardiva intesa come composta di corporazioni risultanti da un contratto sociale può spostare l’attenzione da ciò che queste prime corporazioni avevano il compito di proteggere, cioè la pace risultante da una conspiratio. Si può sorvolare sulla pretestuosa assurdità che consiste nel cercare di assicurare un’atmosfera così fugace e viva, così tenera e robusta, come la pax.

I commercianti e gli artigiani medievali che fissavano la loro residenza ai piedi di un castello signorile provavano il bisogno di mettere al sicuro la loro cospirazione. Non erano disposti a costruire sulla base di uno spirito eternamente delicato. Quanto tempo sarebbe durato? Per provvedere alla loro sicurezza generale, avevano fatto ricorso a uno strumento, la conjuratio, una promessa mutua confermata da un giuramento che prende Dio a testimone, e che aveva il compito di assicurare durata e stabilità all’atmosfera generata dalla conspiratio.

Il nostro universo politico occidentale contemporaneo si basa su un appello alla pace fatto sulle fondamenta di questa forma storica profondamente nuova che è la città medievale dell’Europa centrale. Le comunità urbane del XII secolo erano fondate su una conjuratio cospirativa, un trattato solenne con spirito. Questa forma specifica di fondazione creava una tensione intrinseca. L’urbanità europea si distingue dalle folle urbane che si trovano altrove per la sua tensione dinamica singolare tra l’atmosfera di conspiratio e il suo ordine legale e costituzionale. Idealmente, lo spirito è la fonte di vita della città, che fiorisce in una gerarchia, come una conchiglia o una cornice, al fine di proteggere il suo ordine.

Il legame fra un giuramento (conjuratio) e la conspiratio deve essere visto alla luce di mille anni di storia ecclesiastica, nella quale le due componenti non possono essere confuse l’una con l’altra. Fin tanto che la città trova la sua origine nella conspiratio, essa deve la sua esistenza sociale ad una pax alla quale tutti contribuiscono egualmente. Questa genesi è incomparabile con la nascita degli Ateniesi dalla matrice sotto l’Acropoli, incomparabile con la città concepita come il dono di un dio agli immigrati ionici, incomparabile con la comune discendenza da un antenato mitico.

Nel legame tra conspiratio e conjuratio si assemblano due concetti ugualmente unici ereditati dal I millennio della cristianità. Qui sento puzza di topo. Il mio naso mi dice che “c’è qualcosa di marcio” nello stato dell’Occidente. Durante il II millennio, l’uso di Dio come testimone per sacralizzare il contratto sociale crea la cornice nella quale è possibile abusare della pax come di un ideale che giustifica l’imposizione del nostro tipo di ordine al mondo intero.

Le altre fonti di questa teoria e di questa pratica sono numerose: una coscienza di sé meglio definita, come la illustra la dottrina di Abelardo; una nuova fiducia negli strumenti in quanto mezzi per arrivare a una fine, come testimoniato dalla proliferazione di mulini a vento e dallo sviluppo della produzione agricola tessile; una concezione inedita del matrimonio come rapporto contrattuale nel quale si impegnano liberamente due esseri umani, un uomo e una donna.

 

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(Brano tratto dal saggio: Ivan Illich, La cultura della cospirazione; sta in La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 324-330)