Intervista ad Alberto Magnaghi,
a cura di Karl-Ludwig Schibel
Possiamo dire che il suolo vive dei cicli naturali che si sono
evoluti in lunghe fasi della storia del pianeta mentre il territorio in Europa è
il risultato di un processo storico co-produttivo tra uomo e natura?
Mi sembra chiarissimo. Possiamo fare questa distinzione se parliamo di suolo
come prodotto di cicli naturali di milioni di anni, principalmente come
copertura forestale della terra e di zone umide. Tuttavia, se parliamo del suolo
degli ultimi 10.000 anni, se non stiamo parlando delle foreste amazzoniche, dei
ghiacciai o dei crateri dei vulcani, sicuramente parliamo di suolo che è stato o
edificato (città, infrastrutture, riviere fluviali o marine) o trasformato in
paesaggio agro-forestale; paesaggi che, essendo prodotti di una trasformazione
co-evolutiva fra insediamento umano e ambiente, rappresentano un neo-ecosistema
che chiamiamo territorio (natura trasformata in questo lungo processo
co-evolutivo). In Europa in particolare quando parliamo della carenza, della
distruzione, della crisi del suolo non possiamo che parlare di crisi del
territorio, ovvero delle relazioni virtuose fra insediamento umano e ambiente
che la nostra civiltà delle ma cchine ha interrotto, provocando profondi
squilibri di questi neo-ecosistemi e, dunque, dell’ambiente dell’uomo; non
della natura originaria che è già stata radicalmente trasformata in questi
10.000 anni.
Quindi dici che questo rapporto co-evolutivo tra uomo e territorio è
stato interrotto con conseguenze negative, a volte catastrofiche. Diresti anche
che nel presente c’è una differenza qualitativa di questo rapporto rispetto al
passato? Inoltre quali sono le cause e quali i sintomi?
La differenza qualitativa con le civilizzazioni storiche sta nella negazione
concettuale (giusnaturalista) della terra come produttrice di valore. Nella
civiltà industriale e nel pensiero economico moderno, la produzione di valore è
stata identificata nel rapporto uomo-macchinario o uomo-tecnologie e conoscenze,
escludendo la terra e la natura dal processo di valorizzazione. In questo
paradigma, il suolo è diventato un supporto tecnico inanimato delle attività
economiche, uno spazio astratto, isotropo, su cui appoggiare processi produttivi
e riproduttivi che non hanno più nessuna relazione con il sistema vivente
sottostante. E questo è all’origine di un insediamento umano che si è
progressivamente liberato degli equilibri con la natura, ma anche dei
neo-ecosistemi prodotti dalle precedenti civilizzazioni, attraverso i rapporti
co-evolutivi tra insediamento e ambiente.
I sintomi di questa autonomizzazione dal territorio della civiltà delle macchine
sono stati evidenti. Molte città sono cresciute, in poco più di 60 anni, 15/20
volte rispetto a quanto è stata la crescita in 10/15 secoli nella storia delle
precedenti civilizzazioni. Questo ha determinato una rottura ecologica del
rapporto temporale e spaziale della crescita che non ha precedenti. Questo
perché, rotte le proporzioni delle relazioni con l’ambiente, non ci sono stati
più confini ed è sorta quella che durante una triennale di Milano è stata
definita una città infinita, cioè sconfinata. Qui avviene un passaggio
qualitativo dove un processo di urbanizzazione senza limiti pervade e distrugge
i sistemi agroforestali (con abnorme consumo di suolo agricolo) insieme a un
concetto di città, la quale si trasforma in uno spazio di urbanizzazione
seriale, privo di spazio pubblico. Questo è uno dei sint omi di una rottura di
relazioni che nella storia, dalla polis greca al municipio romano fino alla
città medievale, non si è mai data. Altri sintomi sono l’avvento dell’agroindustria
che ha cancellato gli equilibri ambientali dell’agricoltura storica, cioè quella
relazione ben nota della sinergia tra città e campagna per cui si forma un ciclo
chiuso di produzione e consumo che non genera rifiuti. Al contrario
nell’urbanizzazione contemporanea si crea una separazione totale fra la
produzione di rifiuti urbani tossici (non usabili in agricoltura) e produzione,
con l’agroindustria di rifiuti animali non più usabili nella concimazione e che
devono essere poi trattati per lo smaltimento. Un altro sintomo di questo salto
qualitativo nel rapporto tra civilizzazione e ambiente è dato per esempio dai
fiumi che – se storicamente sono sempre stati produttori di territorialità, (morfotipi
urbani, trame agr! arie, irrigazione, attività energetiche, produttive, ecc)
formando i cosiddetti paesaggi fluviali – hanno rovesciato il loro segno storico
riducendosi a rischio idraulico e inquinologico. Ecco, questi sintomi si sono
rivelati concause del disastro ecologico che ne è seguito.
Però sostieni che tra i comportamenti umani distruttivi c’è anche
l’assenza dell’intervento umano, l’incuria del territorio. Perché si tratta di
un fenomeno negativo invece di un aumento della naturalità?
Dico questo perché i neo-ecosistemi che caratterizzano il nostro suolo sono
prodotto di millenni di trasformazioni e di nuovi equilibri fra insediamento
umano e ambiente, i quali tengono conto delle trasformazioni antropiche
intervenute. Dunque l’abbandono produce degrado di questi equilibri, con gravi
danni per l’ambiente dell’uomo. Porto l’esempio dell’abbandono della montagna
che – con la crescita di boscaglia (che apparentemente indica un aumento di
naturalità) al posto dei terrazzamenti coltivati, del pascolo e del bosco – è
noto che costituisce la principale causa dei dissesti idrogeologici a valle
(frane, smottamenti e alluvioni). Inoltre anche da un punto di vista ecologico
molti studiosi insistono che c’è più biodiversità nel binomio foresta
coltivata/pascolo piuttosto che in una boscaglia uniforme da abbandono. Non a
caso i nostri progetti di “bioregione”, che nasc ono per la ricostituzione di un
rapporto equilibrato tra insediamento umano e ambiente, puntano proprio sul
ripopolamento della montagna come essenziale per la costituzione di nuovi
equilibri ecologici.
“Il territorio bene comune” è il titolo del libro da te curato e frutto
dei lavori del Congresso fondativo della Società dei Territorialisti/e. Come
cambia la prospettiva se il territorio viene considerato non una merce o una
risorsa ma invece un “bene comune”? Mi sembra che la narrativa del suolo come
“bene comune” contiene una rivendicazione, sia giuridica che di potere, che
richiede una giustificazione.
Direi sì giuridica, ma soprattutto nel modo di governo e di gestione, poiché nel
tempo il territorio non è più stato considerato un elemento della valorizzazione
del capitale – se non come rendita economica – e questo ha portato a una sua
tendenziale privatizzazione, anche da parte dello stato e degli enti pubblici
territoriali, i quali hanno puntato a venderlo (per esempio gli usi civici, i
beni demaniali, edifici, terreni rurali). Il territorio è un prodotto di
relazioni evolutive di millenni e quindi un prodotto sociale che io definisco
“un’opera d’arte di saperi e sapienze di lunga durata collettiva”. Questo è già
sufficiente a richiedere delle forme di tutela collettive allo stesso modo in
cui si tende a preservare le opere d’arte.
Ma ciò che tenderei ad evidenziare nell’utilizzare il paradigma del territorio
come bene comune è il fatto che la civiltà umana, per come si è costruita, non
sarebbe più in grado di vivere in una foresta primigenia o in una palude (tranne
che per qualche tribù indigena della foresta amazzonica) poiché millenni di
civilizzazione hanno fatto sì che la costruzione dell’oikos, cioè della casa
dell’uomo, fosse il territorio. Dunque riprodurre la qualità del territorio
(distrutto esso stesso dalla crisi indotta nel rapporto uomo/ambiente),
significa trasformare la tipologia degli insediamenti, dei fiumi, delle coste,
dei paesaggi agroforestali e delle infrastrutture per ricreare le condizioni
materiali e culturali della vita dell’uomo sulla terra. Considerare il
territorio un bene collettivo è l’unico modo di impostare politiche, patti e
accordi sociali che consen tano di riprodurre l’oikos, la casa in cui viviamo, e
intendere la città come “casa estesa” (come la definiva Leon Battista Alberti).
Questo comporta inevitabilmente che si faccia un passo indietro e che si cessi
di considerare l’oggetto territorio come merce di scambio e quindi come
esclusiva risorsa economica.
Ma se il suolo è diventato in Europa proprietà privata in un processo
storico spesso violento (gli “enclosures”, le recinzioni in Inghilterra). Com’è
pensabile di poter andare un passo oltre la proprietà privata verso terreni che
diventino “bene comune”? Non c’è anche un discorso di potere?
E’ una questione di potere, ma soprattutto di nuove forme cooperative di
gestione dei beni comuni territoriali. Oggi esistono molte forme di
mobilitazione sociale che tendono a riconoscere di nuovo beni collettivi sul
territorio, non soltanto con proprietà comuni ma, anche attraverso forme
particolari di associazione tra produttori o tra proprietari (penso agli usi
civici del pascolo per esempio). L’importante è che i beni territoriali siano
riconosciuti come beni d’interesse comune, cosa che purtroppo non avviene più e
che porta alla sua distruzione da parte dei consumatori e dalle azioni
individuali dei cittadini.
Quali sono gli strumenti per trasformare pezzi di terra in bene
comune? Tu sei coinvolto in tutta l’Italia in processi di pianificazione. Con
quali obiettivi, quali sono i meriti? Dove trovi le resistenze al tuo approccio?
Si tratta di un processo difficile. Basta pensare al referendum popolare
sull’acqua che è stato richiesto a gran voce dai cittadini dichiarandola un bene
comune per poi ritornare indietro ad assumere di nuovo forme privatistiche. C’è
quindi una gran difficoltà a concepire sia giuridicamente che dal punto di vista
collettivo una trasformazione in questo senso. Nella Regione Toscana il
Presidente Rossi ha proposto la creazione di Società di gestione che vadano in
questa direzione, ma questo può accadere in forma di accordi bancari, di
azionariato popolare o in altre maniere. Il primo passo è il riconoscimento dei
beni comuni che stenta oggi ad avvenire nelle nostre istituzioni. Serve una
cultura del riconoscimento dei valori che potranno poi indurre una creatività
popolare utile a innescare questo meccanismo. La stessa cosa sta già accadendo
per quanto riguarda i beni culturali, l’occupazione del Teatro Valle a Roma è un
piccolo esempio di come si possano attivare nuove forme di gestione collettiva
aprendo anche un dibattito su questo. Il primo passo è stato il riconoscimento
di un bene comune.
Tu parli del “allontanamento delle società locali dalle reti globali
della finanza e della tecno-scienza verso l’auto-sostenibilità ambientale,
sociale, culturale”. La sostenibilità pura e semplice non basta? Qual è il
valore aggiunto dell’auto-sostenibilità?
Si tratta di un concetto introdotto dopo qualche anno da Rio e dal rapporto
Brundtland verificando come da quel periodo in poi l’aggettivo sostenibile è
stato appiccicato al proseguimento del modello vigente di sviluppo e di crescita
illimitata proponendosi di limitarne, correggerne gli eccessi e le criticità. Ma
su questo punto mi sembra che Serge Latouche abbia già sviluppato
definitivamente questa critica; quindi non insisto. Abbiamo introdotto qualche
anno fa e poi sviluppato in molti progetti questo concetto di auto-sostenibilità
che a mio diverge radicalmente dalla sostenibilità. Di auto-sostenibilità non
parliamo naturalmente a una scala precisa – una regione, una valle, una nazione
– il concetto può riguardare territorialmente diverse complessità. Significa
però mettere in gioco tutte le variabili del modello della crescita globale,
quella che richiede nel suo paradigma squilibri regiona li, dumping salariali e
ambientali, elevatissime impronte ecologiche, centralizzazione del comando
tecnico, finanziario e politico.
Il concetto di auto-sostenibilità è un paradigma che porta verso (non sto
parlando di autarchia globale di ogni regione) l’autosufficienza energetica
(quindi un territorio locale che diventa produttore di energie rinnovabili,
integrate senza distruggerlo perché autogovernato); la sovranità alimentare; la
chiusura locale dei cicli locali dell’acqua, dei rifiuti, del cibo, del rapporto
tra produzione e consumo; la peculiarità dei sistemi produttivi fondati
sull’identità dei patrimoni locali. Quindi si tratta di un movimento verso la
differenziazione degli stili di produzione e di vita. Ma soprattutto nel
concetto di auto-sostenibilità, della capacità di ogni regione di riprodurre la
vita, cosa che oggi è sottratta completamente a ogni territorio, in questo
percorso vedo un forte movimento di riduzione dell’impronta ecologica a livello
globale e quindi a produrre di conseguenza scambi tra le regioni del mondo, di
tipo solidale e non di sfruttamento e di squilibrio.
Qualche anno fa, come Rete Nuovo Municipio abbiamo chiamato questo percorso
“Federalismo Municipale Solidale”. Per me il valore aggiunto del paradigma
dell’auto-sostenibilità che si richiama alla storica self-reliance è di
costruire modelli di sviluppo intesi come sviluppo della società locale (e non
dell’economia globale); sviluppo che sta alla base del recupero della capacità
di un luogo, di una regione di auto-riprodursi, e quindi di possedere i mezzi di
riproduzione della vita. Quindi questo sviluppo della società locale, della sua
coscienza di luogo”, dei suoi beni comuni patrimoniali per ricostruire economie
locali autosostenibili, è il punto centrale di questa proposta.
Quando si parla degli attori che potrebbero promuovere la conversione
ecologica e territorialista, Wilfried Bommert ha espresso un cauto ottimismo sul
ruolo della società civile. Tu sembri molto più ottimista parlando di “una fitta
rete di associazioni, cooperative, strutture del terzo settore e di economie
solidali, valorizzate dai governi locali” come protagonisti di un’inversione di
tendenza. Da dove nasce il tuo ottimismo sull’affermazione culturale del
territorio come bene comune? Qualche esempio?
Anche Bommert mi sembra abbastanza ottimista, perché lui, quando sostiene la
crisi delle risorse che sostengono l’agricoltura globale come il petrolio e i
fosfati che produrrà processi che io chiamo processi di “retro-innovazione”,
verso un’agricoltura locale, sia nella produzione che nel consumo, e che quindi
comporteranno nuove misure del valore della terra rispetto alle misure di
mercato – ecco, anche lui parla, come me, di nuove forme di “distacco dalla
globalizzazione verso una localizzazione sostenuta in primo luogo dalla società
civile”. Quindi lui vede nell’esaurirsi di queste risorse una via obbligata di
ricostituzione di comunità locali in grado di riprodurre risorse che
sostituiranno quelle in via di estinzione. La differenza tra il suo discorso e
il mio è semplicemente che mentre lui vede questo processo in un futuro – anche
vicino – io sottolineo che vedo le energie pe r operare questa profonda
inversione di tendenza non in un futuro lontano ma già attive sul territorio sia
nei movimenti che nei comportamenti sociali e culturali. Il deficit, semmai, è
negli orizzonti della politica, dei partiti che parlano oggi all’unisono di
crescita economica riferendosi al modello precedente che proprio è quello che ha
provocato la crisi strutturale. C’è quindi un encefalogramma piatto nelle
istituzioni, mentre vedo una sproporzione positiva in tutti i fermenti della
società civile.
Qualche esempio: faccio riferimento a molte interviste prima di avviare processi
partecipativi mirati su piani urbanistici, paesaggistici e progetti locali. Noto
un cambiamento radicale in queste interviste dove al primo posto c’è una
rivalutazione dell’agricoltura di qualità, del paesaggio, “Basta con le
villette”, con l’edificazione suburbana, l’esigenza di spazi collettivi.
Registriamo un cambiamento culturale che accompagna poi movimenti che vanno, a
mio parere, verso una considerazione del territorio come bene comune. Ho citato
prima il referendum sull’acqua, i comitati per la difesa del territorio e del
paesaggio – solo in Toscana abbiamo più di 150 comitati locali che in tutto il
territorio regionale si occupano di difendere valori patrimoniali, territoriali,
ambientali – oltre all’associazionismo istituzionale di Legambiente, WWF, Italia
nostra. Abbiamo un movimento diffuso su tutto il t erritorio nazionale che si
chiama “Stop al consumo di territorio”, con la campagna "salviamo il paesaggio”.
Recentemente anche WWF propone una campagna “Rivitalizziamo Italia”; si sviluppa
un associazionismo dei lavoratori della conoscenza – citavo prima il Teatro
Valle di Roma, abbiamo molti soggetti neo-rurali, un processo che produce
intorno alle grandi città nuovi patti città – campagna, anche a livello
istituzionale con i parchi agricoli multifunzionali. Abbiamo la crescita di
contratti di fiume che sono momenti partecipati che nascono da una nuova
coscienza e consapevolezza del bene collettivo che sono i sistemi fluviali.
Abbiamo una miriade di comitati urbani per la qualità della vita e per lo spazio
pubblico nelle periferie. Il fiorire, anche a livello istituzionale, dal basso,
di aggregati di Comuni, di reti di città – Transition Towns, Città virtuose,
Città solidali, la rete del Nuovo Municipio, Città Slow – tutti volti a nuovi
equilibri fra insediamenti e ambiente, a ricercare nuove rel azioni di
auto-sufficienza energetica, di cura del territorio, etc. In generale abbiamo
una crescita di processi partecipativi strutturati. Faccio l’esempio della
Toscana, dove siamo riusciti come associazioni e come Regione a costruire una
legge sulla partecipazione che al primo articolo recita che la “democrazia
partecipativa deve diventare la forma ordinaria di governo in tutti settori a
tutti livelli di amministrazione locale”. Non è ancora applicata pienamente ma
un’ottantina di comuni già stanno sperimentando processi partecipativi che vanno
nella direzione di riconsiderare il territorio come bene comune.
Quindi questa grande varietà di iniziative sta crescendo e tu costati
una marcata mancanza di sensibilità della politica?
Più cresce la coscienza di luogo, la consapevolezza del bene comune territorio e
la rivendicazione di esperienze sperimentali di auto-gestione di piccoli
aggregati sociali, di spazi pubblici della città che della campagna, in
proporzione inversa diminuisce la capacità del sistema politico di
rappresentare, di denotare, di portare alla luce della trasformazione
istituzionale questi processi, tranne alcuni esperienze locali di
amministratori, sia assessori, sia sindaci. Voglio ricordare Angelo Vassallo,
vice presidente di Città Slow, il quale è stato ucciso, come sappiamo, nel
settembre 2010 proprio per le sue politiche di conversione ecologica nel parco
del Cilento, nella sua piccola città di Pollica, impedendo tenacemente processi
speculativi e di consumo di suolo. Purtroppo abbiamo già i nostri eroi in questa
battaglia per il territorio bene comune.
*Alberto Magnaghi è Ordinario di Pianificazione Territoriale presso la
Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, dove dirige il Laboratorio
di Progettazione Ecologica degli Insediamenti (LAPEI) del Dipartimento di
Urbanistica. E’ Presidente del Corso di laurea magistrale in Pianificazione e
progettazione della città e del territorio.
Fondatore della “Scuola territorialista italiana”, è coordinatore nazionale di
Progetti di ricerca e Laboratori sperimentali per il Miur e per il CNR sui temi
dello ” sviluppo locale autosostenibile” e della “rappresentazione identitaria
del territorio” (1986-2010). Sugli stessi temi coordina diversi progetti e piani
a carattere strategico e integrato. Sperimenta in diversi ambiti territoriali
la costruzione di “Atlanti del patrimonio territoriale” e di istituiti di
partecipazione per la “produzione sociale” del Piano.