Tempo, ozio e gioco

nella prospettiva utopica della liberazione del lavoro

 

Dalla lettura del libro:

Arrigo Colombo, Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali

In particolare il capitolo: La liberazione del lavoro

Dedalo, Bari 1978

 

A cura di Paolo Coluccia (paconet@libero.it)

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

1. L’utopia è un progetto della storia, della società-storia, della società-persona che si fa cosciente dei suoi diritti, della sua libertà costituita, che l’afferma, la rivendica, si protende a realizzarla, con l’impegno e la speranza. L’utopia è l’interpretazione del progetto storico di liberazione e di giustizia dell’umanità, lungo il suo processo utopico. Non si tratta di una rivisitazione del fantastico o dell’irreale (si direbbe in tal caso utopistico), ma del processo utopico-costruttivo di liberazione dell’umanità, della costruzione di una società giusta, che poi diventi società fraterna. Questo nei termini generali, che proprio la dimensione filosofica generalizzante traccia come continua e feconda ricerca di senso. Dimensione e destino del filosofo, come di ogni scienza, di ogni ricerca, di ogni sapere umano. In particolare qui si analizza il lavoro, che da sempre ha incalzato il destino dell’umanità, le sue sofferenze, il suo sfruttamento, nella lotta di classe, nella tragedia esistenziale di masse emergenti e sempre più ampiamente coinvolte nella società industriale, e la sua liberazione.

In primo luogo, diamo uno sguardo alla società industriale o della tecno-logia, ovvero “il lavoro fisico che si trasferisce nella macchina attraverso il logos, una ragione-calcolo che si cala nella macchina generandola ed informandola; e insieme un lavoro fisico che resta nell’uomo informandosi di quel logos e lavoro di macchina, ordinandosi in quel sistema macchina... sino a che la techne non si sia interamente trasferita nella macchina autonoma, liberando l’uomo per un logos, un lavoro mentale che in parte sarà ancora di macchina, cioè di progetto controllo sviluppo della macchina; in parte sarà un logos d’uomo in quanto non si rapporta alla macchina e al suo processo produttivo, ma a processi immediatamente umani” (p. 43).

Poi la società postindustriale, che emerge come società del logos. La technologia è transitoria in quanto processo di traslazione. C’è una certa ambiguità nel termine post. Spesso non ha senso, o si usa a sproposito, ma può essere accettato per il concetto di “postindustriale”, in quanto è possibile prefigurare un’epoca “preindustriale” e una “industriale”: quindi una “postindustriale” come la nostra, viste le specifiche peculiarità e differenze. Ma è inopportuno per indicare, ad esempio, una qualsivoglia “postmodernità”, che non si capisce bene cosa possa significare nei confronti della “modernità”, dato che ne è lo sviluppo, l’evoluzione.

 

2. Nel sistema industriale-meccanico il lavoro si colloca essenzialmente come “momento accessorio e transitorio (...) un’operazione esecutiva e ripetitiva,  di routine” (p. 87). Non c’è libertà dell’uomo nel lavoro, ma esecuzione, spesso sottomissione ai tempi della macchina, della catena di montaggio. Automatismo, lavoro in serie, alienazione: la libertà sta fuori! La macchina libera dallo sforzo, dalla fatica, assume una parte di lavoro, ma non coinvolge più di quanto non necessiti per funzionare. Nella società postindustriale avviene un’ascesa della scienza, del logos. “Il logos della prospettiva transtecnologica, come poiesi artistica potenzia ulteriormente l’immaginazione e porta alla libertà come espressione creativa della persona e delle sue potenzialità (...) Si prospetta un tipo d’uomo contrassegnato dalla libertà autentica, non formale, ma sostanziale. Il lavoro poi migra nei servizi, nella ricerca, nell’arte. Nei primi si espandono zone di formazione, d’informazione, di cultura; ma migra anche nell’area della scienza, nell’area del “mentale”, diversa dell’area del “manuale”, secondo la classica divisione. Resta da precisare in quale misura questo lavoro mentale sia scientifico e tecnologico e in quale misura invece non lo sia, in quanto area del rapporto personale, area dell’intuizione, immaginazione, emozione, affetto. In quale misura possa interferire nel prevalente ruolo della scienza” (p. 38).

“Il progetto storico-utopico non preannunzia la realtà futura, quello che realmente accadrà, ma le istanze che il protendersi della storia pone all’umanità per il suo adempimento. Istanze che sono presenti e premono nella dinamica della società, nella coscienza e nella lotta; che tendono a tradursi in realtà attraverso la trasformazione e l’eversione” (p. 51). Felicità e benessere. Progresso etico, civile, materiale. La persona umana, che crea e ricrea la cosa liberandosi, in un processo di creatività-libertà, realizza la sua autonoma e autentica soddisfazione: uscire dai bisogni primari, e poi autoformazione creativa della persona libera. Liberazione del lavoro, non dal lavoro.

Prende così forma un modello di società con una corretta visione del progresso, dove lo sviluppo, essendo una dimensione quantitativa, spesso è contrario al progresso. L’accelerazione sviluppistica del famoso trentennio aureo nel dopoguerra europeo è un mero esempio quantitativo, causato da una crescita esponenziale di produzione e consumo, di profitto, d’avidità, di mancanza di regole, con conseguente sfruttamento della natura e di uomini, spreco di materie prime preziose, spreco di beni. Oggi tutto questo è chiaro ed evidente e presuppone una gestione più razionale e solidale della sfera economica in generale, dall’inizio alla fine del processo economico. Solidale proprio “perché gestione dei beni della comunità da parte della comunità stessa, dei suoi nuclei di coesistenza e di cooperazione, quartieri ed imprese; perché cogestione. Né può essere razionale se non è solidale, se non risponde al suo principio ch’è la comunità, alla ragione sociale e coesiva del principio”. Ma anche e soprattutto “gestione autenticamente ‘politica’, cioè comunitaria, del fatto economico per la soddisfazione del bisogno” (p. 577), per la soddisfazione-appagamento-benessere-felicità materiale-prosperità dell’essere umano.

 

3. Liberazione del lavoro, dunque, un progetto utopico, un’intenzione fondamentale, che la modernità, suo malgrado, accelera mediante il progresso tecnico e scientifico, poiché la macchina assume gran parte del lavoro fisico, della fatica umana, eterna condanna dell’umanità. In cambio la macchina espelle braccia dalle fabbriche e chi rimane si carica della “esecutività ripetitività ritmo di macchina” (p. 129), di quella macchina mezzo di produzione che appartiene al capitale, che ne abusa per tornaconto e profitto, che reinveste per nuovi utili, i quali producono altri profitti, ricchezze, ma anche sfruttamento, alienazione, disuguaglianze. La tecnica non è neutrale. Non si può dire se sia buona o cattiva: difficile avere posizioni manichee nei suoi confronti. Ma di certo non è neutrale e le conseguenze non sono certo prevedibili in assoluto. Spesso all’operaio sono rimaste le briciole, la soggezione e l’alienazione, anche mentale. Da qui, nuove illibertà, nuove dipendenze, nuovo asservimento. Però la tecnologia è anche intelligenza, techne-logos, “logicizzazione del lavoro”, una “crescita della ragione” (p. 129), negli ultimi decenni con una crescita esponenziale. Purtroppo, la liberazione del lavoro procede di pari passo con molteplici forme d’alienazione dell’individuo, sull’essere umano nel suo lavoro, nella sua professione come potenzialità, nella sua sottomissione alla macchina, alla materia, ai manufatti, nel suo fisico per l’abbrutimento, per l’intossicazione, per l’infezione del corpo, nella sua esistenza quasi interamente assorbita dal lavoro: “Il semplice essere e vivere, il convivere, l’amore, la famiglia, l’amicizia, la militanza politica, la cultura e l’arte, lo sport, il gioco, le attività elettive” (p. 135). Tutto questo è negato a chi lavora per un orario spropositato, a chi è assorbito interamente dal lavoro. “Il lavoro tende ad assorbire l’esistenza in termini di tempo” (p. 135): in fabbrica (orario-tempo di lavoro) e per raggiungere lo stesso luogo di lavoro (orario-tempo di preparazione e percorrenza per raggiungere il luogo di lavoro). Illich ha parlato di “lavoro ombra”, beffardo, sottile, non retribuito, che s’insinua come un cancro nell’esistenza, che provoca nuova alienazione e ulteriore dipendenza, dai mezzi pubblici, per esempio. C’è bisogno di una riduzione, in termini oggettivi, del tempo di lavoro: “La giornata lavorativa di otto ore non consente tempo di libertà ma solo dei residui che non sono in grado di liberarsi, che stanno sotto la connotazione e la pressione del lavoro” (p. 136). È un processo che parte dai tempi della barbarie lavorativa delle 18-16 ore giornaliere della prima rivoluzione industriale. Ridurre l’orario di lavoro è un progetto utopico, che risale al pensiero utopico di T. More.

 

4. Le conseguenze di tutto questo sono manifeste e devastanti. L’etica borghese del lavoro comporta disaffezione, rifiuto, mancanza di coscienza del dovere sociale. Ma è un rifiuto del lavoro alienato, dell’alienazione prodotta dal capitale (settore privato che estranea l’operaio dal processo produttivo, lo sottomette e lo sfrutta) e dal burocraticismo pubblico (che elimina l’impiegato dai processi decisionali, lo usa e lo depaupera della sua creatività). Entrambi, operaio e impiegato, sono semplici esecutori di mansioni e di ordini. Qui sta il vasto “retroterra della disaffezione”, a cui si aggiunge l’assenteismo, la pigrizia e il senso d’inutilità. Ma da qui anche la visione distorta del lavoro, come semplice mezzo di soddisfazione dei bisogni primari. Mentre il lavoro deve essere inteso come un dovere, non una costrizione; un servizio che determina la costruzione della realtà sociale nel suo insieme e insieme con tutte le altre persone che agiscono nella società. Non un semplice fattore economico, dunque, ma un valore sociale, un dovere morale, un fatto etico-sociale. Quale allora il destino del lavoro? Quale visione avere del lavoro, andando oltre la semplice accezione occupazionale? Quale il suo senso, in una società postindustriale che ha fondato sull’intelligenza un percorso di liberazione del lavoro? “Il destino del lavoro s’illumina e s’adempie com’epifania, rivelazione all’umanità del suo senso e posto nell’essere d’uomo, nel coessere-cooperare, essere nel lavoro” (p. 210). Il percorso è complesso, il processo è difficile, e le difficoltà sempre in agguato pongono limiti a visioni aperte e di liberazione del lavoro. Ma il processo è in corso, da secoli, e non può interrompersi.

 

5. “In questa volontà e società di lavoro in cui l’uomo si libera, in cui costruisce la sua concreta storica libertà, in questa s’apre lo spazio dell’ozio. Non nella società dissoluta e parassitaria. Uno spazio autentico, storico; per l’ozio come forma di libertà accanto e nella libertà di lavoro” (p. 211). Nell’antichità era ozioso colui che dominava, colui che poteva permettersi di non lavorare, o perché c’era chi lavorava per lui (gli schiavi) o perché come uomo libero era cittadino e la sua unica attività era nella vita politica, nella discussione nell’agorá o nella vita contemplativa e nella riflessione (filosofia). Una legittimazione etica dell’ozio è congetturata chiaramente da Aristotele. Ma in generale non c’è contrapposizione tra lavoro ed ozio, in quanto anche nell’ozio si poteva scorgere una cospicua attività, una vita attiva, fatta di pensiero, elaborazione, studio. Poi il suo contrario si vedrà in epoca moderna, quando la dissoluzione dell’etica borghese porterà nella sua esagerazione e nel suo sfacelo al dilagare dell’ozio, inteso come semplice far niente, come non-lavoro. Chi per sua scelta (lo sfaccendato), chi per non sua scelta, come il disoccupato, il relitto del sistema di produzione, chi non sa cosa fare per tutta la giornata, oppure lo studente, che finiti gli studi, presa la laurea o il master, aspetta senza far nulla, oziando, senza neanche più pensare, che arrivi un posto di lavoro. E poi, la visione, la teorizzazione beat ed hippy dell’ozio, del vivere senza lavoro, che dissolve ogni minima propensione al lavoro, che si orienta a tutto ciò che è il suo opposto: stasi, lentezza, vizio, droga... In realtà, anche se inesorabilmente fa parte della mentalità generale e dell’immaginario collettivo, l’ozio non è (e non può essere) un’opposizione al lavoro, anzi, tutto il contrario, è una sua profonda “compenetrazione”, un’altra forma di vivere il tempo dell’esistenza in forma totale. “Liberarsi, contemperarsi, nell’ozio come nell’altra forma e tempo dell’esistenza: la forma dell’essere-coessere, rispetto alla forma dell’operare-cooperare” (p. 212).

L’ozio è distensione, riposo, momento di concentrazione, di rinvigorimento delle capacità e facoltà fisiche e mentali. Il far niente ha un suo fine, è impiego di una parte di tempo, che supporta e vivifica il tempo totale, fatto anche di tempo di lavoro, ma sostanzialmente è una parte del tempo di vita. “La forma dell’ozio come dis-tensione”, recupero di energia, per il vero vivere, per sentire il proprio corpo e la propria mente, per “godere di vivere”. In questo senso l’ozio è riposo, piena consapevolezza autonoma e autocostruttiva, che può anche essere contemperato con gli altri, con ulteriore godimento del legame sociale, nella condivisione, conversando: “Il convito cioè il mangiare e bere insieme conversando con l’agio e il godimento dello stare insieme, le forme della coesistenza familiare parentale amicale, tanto dissolte e consunte nell’individualismo, nell’abuso strumentale e profittuale dell’industrialismo borghese” (p. 213). È uno spazio dell’esistenza diverso, ma che della stessa fa parte, significativa e corroborante.

Un tempo dedicato, che è parte del tempo totale, del tempo della vita. Un comportamento consapevole, scelto, voluto, elaborato, finalizzato, autonomo e autorientato al perseguimento del proprio benessere e di quello degli altri, insieme con se stessi e insieme con gli altri. “Lo spazio d’esistenza vissuto in consapevolezza e gusto, in partecipazione”, contro la routine della fabbrica, l’alienazione sociale, la nullità dei rapporti condominiali dove nessuno conosce l’altro, l’annullamento nelle folle dilaganti in strade brulicanti, in centri commerciali, in stadi di calcio stracolmi all’inverosimile, in quartieri-dormitorio che non presuppongono relazioni sociali, né spazi sociali dove poter socializzare, dove ognuno è esiliato nel proprio garage-appartamento, come l’auto nel box-auto, in una casa che non è più abitazione, arte  e gusto dell’abitare, abito dell’ambito familiare.

 

6. Una simile compenetrazione di lavoro-ozio-esistenza allarga “le forme della coesistenza sociale, che si allargano e si approfondiscono in un impegno che non è solo elettivo ma si sviluppa dal coessere e dalla sua essenziale condizione: così l’impegno religioso nella chiesa locale, l’impegno politico, le associazioni. O anche, al di qua dell’impegno, l’incontro nelle forme della cultura e dell’arte” (p. 213-214). L’ozio sarà uno dei punti finali più importanti della liberazione del lavoro; si rammenti: del lavoro, non dal lavoro, che non potrà più essere vissuto come costrizione condanna umiliazione (come per il dis-in-occupato), in quanto “l’ozio si colloca essenzialmente nelle forme elementari dell’essere-coessere, del vivere-convivere” (p. 214), del condividere e del solidarizzare. L’ozio diventa perciò un ulteriore grado di libertà del lavoro e del tempo di vita conquistata, non dall’obbligo di lavorare, ma della libertà di lavorare, che è compito, vincolo, dovere sociale, parte del tempo di vita.

L’ideologia borghese pone però un sottile agguato: il tempo libero, come ulteriore elemento ideologico, che diventa esso stesso un’ideologia, quindi una falsa coscienza. L’ideologia del tempo libero delinea un altro tempo “non libero”, accanto o dopo l’altro tempo non libero di lavoro che è l’impiego, l’occupazione. Il tempo libero “non libero” è sfruttato e strumentalizzato. Il capitale si appropria repentinamente di ciò che ha illusoriamente fatto finta di cedere come momento di libertà, ne compenetra i contenuti, lo rende ideologia. Il tempo libero è una forma mistificante d’illibertà, una sottile, forse la più sottile in epoca moderna, forma d’ideologia, che esprime “un tempo ricettacolo che il lavoro aveva finora provvidenzialmente colmato; che poi s’è fatto in parte vuoto e pericolosamente disponibile” (p. 216). Una porzione di tempo residuo, a cui si collegano altri tempi: i tempi di lavoro, i tempi ombra, i tempi oziosi non ricreativi, i tempi di stasi biologica (il sonno).

Questo nuovo tempo disponibile, sopraggiunto nella tarda società moderna, non è una libertà del lavoro, né una potenzialità della persona, ma è un’assenza dal lavoro, un’impotenza. Una libertà dal lavoro che si dischiuderà come un baratro nel pensionamento, che condannerà al “vuoto, costrizione all’inerzia, inutilità” (p. 218). Nel modello di società borghese il tempo libero si caratterizza come ulteriore forma di soggezione, sfruttamento, alienazione, in quanto questa nuova disponibilità di tempo viene convogliata non tanto nelle forme di convivenza sociale, come la cultura, l’incontro, la solidarietà, ma nei bar, nei circoli ricreativi (dopolavoro), nei centri commerciali dove spesso si gira a vuoto tra scaffali e vetrine, negli stadi che contengono masse di anonimi scatenati. In questo modo il tempo libero diventa un “tempo di consumo e quindi di profitto” (p. 219).

 

7. Il tempo libero come ideologia è perciò diametralmente opposto all’ozio come crescita e cultura della persona umana. “La persona evolve e potenzia costantemente la propria facoltà critico-poietica, la capacità di poiesi, il comportamento creativo nell’esistenza come nella professione” (p. 225). L’ozio, nella persona umana, rimette in circuito il patrimonio culturale umano, assimilandolo in maniera critica e poietica. Questo è il punto chiave del “passaggio dall’individuo alla persona” (p. 222), che è un continuo “farsi”. “La persona si fa assumendo creativamente la società-storia, affermandovisi e intervenendo creativamente”. Una struttura fondamentale per la crescita personale è la scuola, la scuola per tutti, alla quale tutti sono liberi di accedere e messi in condizione di accedervi, perché si superi la discriminazione culturale (che poi sarà nel lavoro, nella società, nella politica).

La scuola, come luogo di cultura, di fare società e non di mera istruzione-apprendimento, luogo d’impegno e di autoformazione, di regole condivise e di rapporti conviviali, è “indispensabile all’eguaglianza dell’essere persona (...) indispensabile alla società degli uguali e solidali” (p. 224). “Una scuola come comunità di ricerca e di vita”, dalle materne ai dottorati di ricerca, comune al mondo docente e a chi inizia i primi passi delle vie della conoscenza. “Una scuola che non si fa come apprendere ma com’elaborazione; che si sviluppa come ricerca (...) per una crescita omogenea”, che non privilegia, che non umilia i meno dotati, ma che arricchisce la comunità di coscienza e di ethos comunitario. “Una ricerca viva, non precostruita, ma che si fa insieme, il cui cammino non è noto prima; si fa di giorno in giorno, di settimana in settimana. Ricerca comune di una comunità di ricerca, un piano di parità, un rapporto di cooperazione” (pp. 11-12). Un modello di scuola che non va giù a tanti, che si rifiuta ipocritamente, soprattutto per indifferenza di molti, del potere-privilegio, per la contrarietà dei dirigenti-burocrati-decisori, ma anche di molti docenti, sempre più sclerotici e consolidati nella propria presunzione di sapienza (che è tutto il contrario della sana filosofia, che è sempre perenniter philosophare) e poi, ma non ultimi in ordine d’importanza, degli stessi studenti (e delle loro famiglie, alla ricerca del “pezzo di carta” che sistema nella società), per amara conseguenza, disinteresse, distrazione. Oggi una spregiudicata corsa ai crediti e una futile speranza di sanatoria (fra le tante) dei debiti, come bollini-premio del supermercato o delle pompe di benzina. Mentre la scuola non può che essere “uno spazio di ricerca-coricerca”, una “formazione permanente”, non nell’accezione di chi spesso ne parla senza sapere che cosa sia, tanto che spesso si confonde con l’aggiornamento professionale, il quale ha un obiettivo diverso e che è una parte del tempo di lavoro, il quale “nella sua dimensione è parte integrante del lavoro” (p. 225), ma autoformazione, coformazione, coscienza-conoscenza.

 

8. Nella prospettiva di un’ampiezza di tempo per un tempo pieno, colmo di lavoro, potrebbe scaturire una proposta di giornata lavorativa di 5-6 ore per tutti, con una settimana lavorativa di 4 giorni, non per nutrire lo slogan “lavorare meno per lavorare tutti”, anche, ma non soltanto per questo, ma per avere la possibilità di riempire, di colmare il tempo dell’esistenza con il lavoro dell’esistenza, in maniera completa e costruttiva, “un tempo di dimensione e di libera spontanea varia tensione produttiva, tensione distesa, cui presiede la spontaneità” (227). All’alienazione del “tempo vuoto, pericolosamente disponibile, (...) tempo libero e tempo di consumo”, avviluppato dall’ideologia dello sviluppo e dalla degenerazione produttivistica, e circuito dalla pubblicità dilagante, emerge in contrapposizione una concezione poietica, autoproduttiva “di un tempo colmo, traboccante del vivere elementare e del complesso operare della persona, della società persona”.

Qui è il prodursi della persona, che agisce, che costruisce società, concezione che è alla base di ogni attività produttiva e di ogni forma sociale, una società dell’essere-coessere, forma ed essenza della coesistenza sociale, che fonda e lievita il lavoro, la persona, la vita, la società. Dunque: “Un tempo non aleatorio ma necessario... Un tempo e ambito di cui l’uomo ha il dominio immediato” (227). In quest’ambito l’hobby diventa un rifugio, un dis-impegno, di quell’uomo che non ha coscienza e diritto d’impiego del suo tempo, che non sapendo cosa fare, come passare il tempo, s’inventa un hobby, che spesso è cosa frivola, superficiale, banale, casuale, mediocre, che si fa isolatamente, che non fonda coesistenza, che spesso fa cadere in un’ulteriore forma di sfruttamento ad opera del capitale, sempre in agguato... si pensi alle multinazionali del bricolage, sempre presenti nelle cattedrali dei consumi (secondo l’espressione del sociologo George Ritzer) rappresentate dai grandiosi centri commerciali. Ecco perché “questo tempo colmo e stracolmo, tempo ricco dell’uomo ricco, non può non esigersi ampio” (p. 227), per quell’uomo ricco di tempo e d’azione, all’opposto di chi si lamenta sempre di non avere mai tempo, che spreca il suo tempo di vita nelle forme più deprimenti e futili, spesso senza far niente.

Ecco perché il discorso cade inesorabilmente sulla riduzione del tempo di lavoro, non per avere più tempo libero, ma per essere più ricchi di tempo di vita: “Nella liberazione e oltre la liberazione del lavoro la necessità di uno spazio ampio all’ozio, un tempo ampio per l’ampiezza, la potenzialità indefinita e molteplice, la totalità formata e formantesi della persona” (p. 228). Da qui l’importanza di porsi in cammino per redimere e salvare l’umanità dalla sua perenne condanna, che ha determinato quella “perdita enorme dell’umanità lungo i millenni di una cultura fatta da pochi” (p. 228). Pensate ad immaginare quale sarebbe stata la nostra cultura di oggi se quei pochi che si sono dedicati seriamente al progresso culturale negli ultimi 3000 anni fossero stati il doppio o il triplo. L’evidenza è nei fatti, nell’incremento esponenziale della cultura negli ultimi decenni. Peccato che tale incremento spesso sia usato male, o per profitto o per consumi, e così poco si faccia per liberare il lavoro.

 

9. Il processo della liberazione del lavoro si completa con il gioco (lavoro-ozio-gioco). Se è possibile diagnosticare una fine dell’occupazione, o una sua drastica riduzione ad operazioni essenziali, per il congiungersi di molteplici fattori tecnologici emergenti, sarà possibile parlare di fine del lavoro, perché nella linea dinamica e processuale lavoro-ozio-tempo di vita s’innesta un ulteriore elemento esistenziale che, a ben guardare, è origine e fine della linea stessa, e che è il gioco, il “lavoro del bambino” (lavoro sociale a tempo pieno) e il lavoro del nonno che gioca con i suoi nipoti (anche questo lavoro sociale pieno e vitale). Lungo il percorso, poi, anche l’uomo, nella sua piena compiutezza di un tempo di vita colmo di lavoro, può fondersi e confondersi in ogni sua espressione esistenziale e persino professionale con il gioco. Si pensa banalmente che il gioco sia il contrario del lavoro: ma quale miglior lavoro è quello che qualcuno fa ed interpreta come gioco? Chi è più felice di chi gioca lavorando o di chi lavora giocando? Il lavoro-gioco impegna molto più di ogni altra cosa. Il lavoro migliore riesce quando chi lavora sembra che stia giocando. “La prospettiva di liberazione del lavoro nel gioco non s’apre come vanificazione ma come adempimento” (p. 241), che è processo spontaneo, d’immanenza spontanea, creatività, liberazione, costruzione, prassi, dovere pratico. “Il lavoro permane un fatto di serietà ma insieme si libera come gioco, come immanenza e spontaneità: com’espansione della persona, spontaneità dell’espandersi, libera spontanea espansione di sé, il vincolo il compito assunto in libertà, originariamente deciso come proprio, essendo proprio, coincidendo con la propria espansione, potenziandola nella mansione sociale. Perciò inteso sentito vissuto nella spontaneità del gioco, nella soddisfazione, nel gusto e gioia, riposante nell’impegno stesso, nella fatica, un gioco serio ma più giocoso-gioioso del gioco. Che rende superfluo il gioco” (p. 247). Un gioco-lavoro-gioco, un prima-durante-poi, un continuum che passa per la scuola, un lavoro-gioco-scuola, lungo un processo che dura per la vita, tutta una vita, in una società liberata, libera del lavoro/occupazione, piena di un tempo di vita, di un tempo di lavoro, di gioco-lavoro-vita.

 

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