Il lavoro tra rischi opportunità

 

di Paolo Coluccia

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Testo di base per il convegno sul tema del lavoro alla II Fiera provinciale dell'economia solidale e del consumo consapevole "L'isola che c'è"

Villa Guardia (CO), 17-18 settembre 2005

 

 

 

Uno dei problemi più scottanti della società occidentale è la disoccupazione, che rimane elevata e persistente, malgrado i fiumi di denaro spesi negli ultimi decenni e ad ogni livello istituzionale per arginarne gli effetti negativi. Una spiegazione spesso fornita è che la disoccupazione, in larga misura, sia un fenomeno collegato al fatto che a partire dagli anni ’90 la crescita degli occupati è stata inferiore a quello della forza lavoro disponibile. Un fatto strutturale, dunque, ma che non può essere la spiegazione, ma una probabile, e forse molto semplice, spiegazione tra le tante spiegazioni possibili. L’approccio al problema è controverso e speso non si ha il coraggio di affrontarlo con serietà e con alcuni distinguo essenziali, a partire dagli stessi dati quantitativi che i governi divulgano nei loro notiziari statistici. Malgrado gli sforzi di Eurostat, l’organismo statistico europeo, si è ancora lontani da una posizione uniforme nel conteggiare i dati della disoccupazione, anche perché la percezione dello status di disoccupato varia da cultura a cultura, da regione a regione e persino nella stessa nazione. Occorrerebbe, altresì, studiare a fondo il problema e le sue derivazioni socio-economiche e strutturali, soprattutto in riferimento alle politiche monetarie errate, basate sostanzialmente su teorie economiche azzardate, che ormai rasentano l’assurdo,  prospettano attese razionali improbabili e che puntualmente sono smentite dai fatti, determinando nel sistema sociale autentici disastri sociali, economici e culturali.
 

Uno degli slogan che appare ripetutamente nelle riunioni e nei documenti europei negli ultimi anni è il seguente: adattabilità, imprenditorialità, occupabilità. Sul primo e secondo termine nulla da dire: l’essere umano si è sempre adattato, a livello biologico, geografico e sociale (un po’ meno a livello culturale) e l’impresa, ovvero la capacità di una persona d’intraprendere un’attività o un percorso produttivo autonomo o relazionato, risale a capacità a dir poco  acquisite a partire dal paleolitico superiore e sviluppate nell’era risalente al neolitico (10-15 mila anni fa). Ma sul concetto d’occubabilità faccio fatica a capire dove si voglia parare e mi sento di esprimere seri dubbi: di cosa mai si tratta?
 

In ambiente più nazional-popolare qualcun altro fa eco con un altro slogan: inglese, informatica, impresa (le famose tre – I – ). Sostanzialente, anche in questo caso non si dice nulla di particolarmente originale, visto che la società dell’informazione (peraltro da alcuni vista in maniera completamente errata quando che possa essere la panacea o la soluzione di ogni male economico), l’imprenditorialità e l’inglese, la lingua più parlata sul pianeta, ormai sono patrimonio di gran parte dell’umanità (anche se in Italia soffriamo di squilibri autenticamente nostrani, legati alle assurde teorie pedagogiche dei dicasteri dell’istruzione pre e post bellici).
 

Ma, a parte gli slogan, dov’è che si parla veramente di lavoro? Qualche critico, ammonendo con il dito indice puntato, grida a chiare lettere che si tratta di un perverso progetto generale, impostato per costruire precarietà nella società civile. Ma immediatamente un coro di voci intelligenti si appresta dire: ‘No, no! Si deve piuttosto parlare di flessibilità!’. E qui, un’altro termine ambiguo per molti ed affascinante per alcuni fa capolino nella discussione dei nostri giorni. Ma, dal mio canto, torno a chiedermi: dov’è che si parla seriamente di lavoro e, oltretutto, che fine ha fatto il lavoro? Il lavoro non ha più un volto: è atipico, a progetto, in affitto, occasionale, intermittente, ripartito, parziale; spesso è nero, sommerso, minorile... Tante le strategie pensate per l’emersione del lavoro dall’illegalità, ma spesso si ha l’impressione che lo spazio informale stia prendendo il sopravvento nel nostro sistema sociale ed economico.
 

Pertanto, cosa s’intende per lavoro nelle nostre società opulente e materialmente sviluppate? Sarebbe d’obbligo un approfondito sguardo storico, anche se non si può fare compiutamente in questa sede. Possiamo solo accennare nelle linee generali. L’idea del lavoro nasce nel passaggio dal paleolitico al neolitico, quando l’uomo comincia a trasformare le sue abitudini di cacciatore e raccoglitore vagante sulla terra ad allevatore e coltivatore che si stabilisce in un determinato luogo dell’ambiente terrestre. Conseguenza diretta e immediata è la divisione sociale del lavoro, come ripartizione di genere dei compiti e delle specializzazioni, in senso antropologico e culturale. Quando le prime società cominciano a strutturarsi e a diventare più complesse, sorge il problema relativo alla comparsa delle classi sociali. Qui, le classi dominanti sono spesso estranee al lavoro. Dice, infatti, Le Golf che fino a tutto il Medioevo l’1% della popolazione oziava o faceva la guerra, un altro 1% pregava, il restante 98% lavorava, soprattutto nei campi. Dagli schiavi (spesso prigionieri di guerra) dell’antichità ai servi della gleba medievali la costante sociale per l’umanità è il lavoro, inteso come fatica quotidiana per l’autosostentamento e per il mantenimento agiato delle classi dominanti per la loro situazione di supremazia e comando. Quando ammiriamo ville e sontuosi palazzi, immensi castelli e monumentali chiese, oltre a farci affascinare dalla grandezza artistica che esprimono, non dovremmo mai dimenticare che sono il frutto della fatica e del sacrificio di intere popolazioni asservite o remunerate con miseri compensi. Con la rivoluzione industriale in una piccola parte di mondo (l’Occidente) le cose cambiano radicalmente, anche se nella sostanza si passa da rapporti di sudditanza e servitù a rapporti di lavoro di tipo subordinato spesso paragonabili alla schiavitù, soprattutto nelle fabbriche, che occupavano anche tante donne e bambini. Seguiranno tre secoli di produzione molto intensa e complessa, spesso in stretta relazione con lo sviluppo tecnologico e con le scoperte scientifiche. Nasce una nuova classe sociale, il proletariato operaio, che al nuovo tipo di subordinazione accompagna il salario, un diritto economico che permette all’operaio di comprare gli stessi oggetti che produce, con la possibilità di sopravvivere in modo molto diverso da prima. Il filosofo ed economista francese Yann-Moulier Boutang ha scritto interessante (e monumentale) libro dal titolo: Dalla schiavitù al lavoro salariato (Manifestolibri, 2002). Questo studio sul lavoro, il suo controllo e il suo sfruttamento riflette sulla condizione del lavoratore come storia del controllo della sua libertà, la sua autonomia e la sua subordinazione, ragionando in chiave completamente nuova sul mercato, sullo stato moderno e sulle politiche pubbliche rivolte ai poveri o ai migranti, dove questi ultimi rappresentano l’emblematica ricerca di un mondo migliore che si manifesta come prigione e luogo di sfruttamento.
 

Da qualche decennio, pur tra le grandiose trasformazioni sociali, le tante conquiste dei diritti delle migliori condizioni di lavoro, ci troviamo di fronte ad una situazione globale economica molto complicata ed evanescente ad un tempo, e, soprattutto, di fronte a questo problema di difficile soluzione, quello della disoccupazione, ovvero l’impossibilità per una parte della popolazione di poter lavorare. Anche se molto spesso a parole, il perseguimento in sedi istituzionali di programmi per la piena occupazione diventa una chimera, un’illusione spacciata per cosa reale. In verità, sembra che il modello capitalistico, forte dello sviluppo tecnologico, informatico e scientifico, uscito vincitore dal crollo del modello sovietico della pianificazione economica, sia intenzionato a farla finita una volta per tutte con il lavoro, almeno inteso in senso classico. L’enfasi della dignità del lavoro fatta propria da molte carte costituzionali delle società occidentali segna il passo. Il diritto al lavoro, legato al principio della cittadinanza attiva, sembra un miraggio per molti. Una futile retorica intromette nei sistemi produttivi termini ambigui, come innovazione (quale prodotto innovativo può esserci se già il giorno dopo è diventato obsoleto e sostituito?), competitività (è sostenibile un sistema che vede tutti contro tutti nella logica generale di perdenti/perdenti?) e flessibilità (qual’è il senso giusto che si vuole ricavare da questo termine?). Rimane un solo fatto certo: si fa fatica a trovare lavoro, soprattutto stabilizzato in un arco di tempo decente per dare un senso alla propria vita, mettere su famiglia e vivere una vecchiaia serena, a mantenere quello che si ha o a pensare un nuovo modello occupazionale che limiti i rischi e le difficoltà.  Il rischio delle nostre società sviluppate non è quello della fame, ma sembra essere quello della disoccupazione, che a volte si pensa possa essere mitigata da un’occupazione temporanea, precaria, atipica, sulle cui significazione gli eufemismi si sprecano.
 

Negli ultimi anni in Europa e in Italia si è assistito ad un’affannosa corsa per normalizzare (nel senso di normare) ciò che normale non è e che non può mai essere ridotto a norma: un “mercato del lavoro” che diventi sempre più flessibile. Inorridisco alla parola “mercato” associata a “lavoro”, quasi che quest’ultimo non interessi persone, donne e giovani, uomini e adolescenti, sempre più spesso anche anziani, un qualcosa che possa essere “mediato” da un sistema mercantile, come una “merce”, quando invece è un “servizio”, che ciascuno ha il diritto-dovere di rendere a se stesso e all’impresa che lo occupa, per la propria famiglia e per la stessa società.
 

Verso la fine degli anni ’90 si è cercato di far transitare il sistema economico e produttivo da uno statuto “dei lavoratori” (rif. Legge 300/70), che sanciva la dignità dei lavoratori e la loro valenza sociale ed economica, ad una statuizione, spesso ossessiva e confusa, “dei lavori” (rif. Legge 196/97-Pacchetto Treu e Legge 30/2003-Legge Biagi)[1]. Forse rigido e su perenni posizioni di trincea il primo, nato alla fine del fumoso e nostrano boom economico degli anni ‘60, confusa e per certi aspetti demenziale la seconda, in un momento storico come quello attuale, quando forse occorrerebbe cominciare a prendere il coraggio tra le mani e cominciare a pensare a nuovi paradigmi produttivi e previdenziali completamente diversi da quelli che ci hanno preceduto nelle controverse fasi della modernizzazione economica basata sulle teorie classiche di matrice utilitaristica. Purtroppo, sembra che tutti siano ancora strenuamente ancorati a processi rivolti alla produttività, alla competitività, alla crescita e allo sfruttamento indiscriminato delle risorse, supportati da una forma demenziale di teoria neoliberista, che si afferma quando conviene, mentre invece quando le cose si ritorcono contro (vedi il caso delle esportazioni cinesi) si tende ad invocare l’intervento pubblico e la protezione economica dell’impresa da parte dello stato (a livello nazionale o europeo). Lungo questa folle corsa rivolta alla crescita infinita del PIL (Prodotto Interno Lordo), all’occupazione di nuovi mercati e alla produzione di nuovi beni di consumo volubili e spesso inutili, i risultati, spesso perversi e cinici, che si ottengono sono quelli legati ai livelli occupazionali (infatti, un’impresa vede aumentare le sue quotazioni in borsa quando annuncia tagli cospicui di posti di lavoro) e allo sfruttamento delle risorse, con conseguente depauperamento dell’ambiente e della natura. A seguire, le instabilità finanziarie legate alla speculazione dei mercati monetari e le bolle speculative della compravendita di titoli ed azioni legati alla capitalizzazione di aziende fino a qualche anno fa inesistenti o insignificanti determinano uno stato perenne d’incertezza economica e una paralisi significativa di ogni intenzione imprenditoriale seria ed efficace. Un ulteriore problema di non minore importanza è il processo di polarizzazione estrema delle attività lavorative (da una parte, fortune sbalorditive e impensabili nei secoli passati, spesso frutto di manovre finanziarie losche e malavitose, e, dall’altra, la miseria assoluta di milioni di persone che racimolano qualche spicciolo con lavori massacranti ed infami per poter sopravvivere e spesso privati di ogni diritto, libertà e dignità), che si accentua in modo esponenziale quando la forza-lavoro si differenzia per provenienza geografica extra-occidentale e per genere, in particolare nelle economie metropolitane. Si afferma il triste modello basato sul detto “produci, consuma, crepa” molto abilmente descritto da Saskia Sassen nelle sue ricerche sociologiche.
 

Quale via d’uscita immaginare? Vincerà la tesi dei cantori (o sirene?) il de profundis del lavoro, come De Masi, Rifkin ed altri? Vincerà l’ipotesi di Luciano Gallino che vede avanzare una società dei quattro quinti che non lavora e che sta a guardare il restante quinto che ha ancora la dignità e il privilegio di lavorare? Sarà possibile pensare un cambio di paradigma che faccia transitare una società centralizzata, piramidale e competitiva verso una società reticolare, orizzontale e cooperativa basata sul bem-vivir, la vita buona, felice, inclusiva e pacifica, così ben descritta da André Euclides Mances? Oppure continuerà ad imperversare la lotta per accaparrare risorse, per competere e per consumare beni inutili? Si costruiranno reti d’economia solidale basate sulla produzione partecipata e sulla consapevolezza che non occorre sottomettersi al lavoro, sperando allo stesso tempo di liberarsi dallo stesso, ma di vivere liberi nel lavoro e nella coesione sociale? Interrogativi su interrogativi, tra rischi ed opportunità. È molto difficile dare una risposta esauriente.  Ma non possiamo illuderci che eludendo il problema si possa risolverlo.
 

Siamo in una nuova era, o meglio, come osserva Patrick Viveret in una conferenza, siamo di fronte ad un triplice cambiamento: «d’ère, d’air, d’aire». Sembra un curioso gioco di parole nella lingua francese, ma nella sostanza c’è un fondo di verità.

 

a)     Cambiamento d’era: trasformazione tecnologica, economica. Il transito dalla società

industriale alla società dell’intelligenza.

b)     Cambiamento d’aria: mutamento biologico, ecologico, culturale, psicologico. La

mutazione complessiva del vivente.

c)    Cambiamento d’area: variazione geopolitica. La riorganizzazione dello spazio pubblico

e privato.  

 

Unico punto in comune dei tre cambiamenti è che tutti e tre modificano contemporaneamente le relazioni degli uomini, delle donne, il rapporto con i loro corpi, con il tempo, con la realtà, con la vita. Le premesse di una dimensione spazio-temporale fondata sulla cultura della reciprocità e della solidarietà ancora persistono nella nostra società.
 

In uno studio effettuato nel 1999 dalla Cellula di Prospettive operante in seno alla Commissione europea s’intravedevano cinque possibili scenari per il 2010, tutti con reali situazioni di crisi, turbolenze sociali e impazzimento dei mercati. In uno di questi, denominato “I cento fiori”, dominato dal fallimento del sistema economico e politico e da un “equilibrio instabile” si scorgeva un nuovo modello di società, basato sulla libera iniziativa di singoli e di gruppi associati, spesso isolati o confinati nell’informalità e in nicchie, ma animati da una forte mentalità collaborativa e partecipativa.   

 

È ormai raro - si legge nello studio - trovare un comune o un quartiere che non abbia la propria valuta e una banca del tempo in cui scambiare lezioni private, attività culturali e ogni tipo di servizi alla persona (come ripetizioni, assistenza a bambini e anziani e collaborazioni familiari). Le associazioni locali, spesso gestite da donne, pensionati o neolaureati, si sono moltiplicate e di fatto trasformate in piccole imprese. Gran parte di queste opera in modo informale, senza preoccuparsi di registrarsi presso le autorità competenti o di pagare le imposte. Alcune, con l’aiuto delle autorità locali, svolgono un ruolo importante nell’erogazione di piccoli prestiti ai privati e alle imprese con problemi immediati di liquidità. Altre hanno istituito “casse comuni” per finanziare reti di sostegno economico e, se necessario, persino offrire borse di studio o di riqualificazione professionale. Le più avanzate possono anche erogare prestazioni sociali. Altrove sono nate nuove forme d’aggregazione sindacale per difendere i diritti dei cittadini in generale oltre a quelli dei lavoratori. La stragrande maggioranza di queste strutture locali è rimasta molto aperta al mondo esterno. Sfruttando tutte le possibilità dell’informatica (senza la quale molte di loro non sarebbero mai nate) hanno instaurato comunicazioni, partnership e scambi d’esperienze a livello internazionale non soltanto all’interno dell’ue ma anche con controparti nell’Europa orientale, nel Mediterraneo e in Africa.

 

Nessuno di noi si augura uno scenario della società europea nell’immediato futuro fondato sul paradigma dell’equilibrio instabile. Sarebbe una visione drammatica e per certi versi difficile e rischiosa per noi occidentali. Ma vi compare anche un  messaggio di speranza, di giustizia e d’intraprendenza, soprattutto dei giovani, dove ciascuno può fare la sua parte (stato, imprese, persone), senza paura e senza compromessi, con il fine di considerare il mondo e le persone sempre un fine dell’umanità e mai un mezzo legato al tornaconto della propria egoistica utilità economica. L’uso intelligente del tempo e delle risorse, la coesione sociale e l’associazionismo volontario, la condivisione e la convivialità sono principi sui quali l’ego e l’alter si fondono in un’osmosi che produce il noi, che dà un nuovo senso del vivere, nel quale si capisce fino in fondo che la vera ricchezza non è quella che proviene dal PIL materiale determinato dalla crescita e dalla contabilità nazionale lorda, ma dalle ore che ciascuno di noi dedica a se stesso, agli altri e alla propria comunità, e di conseguenza alla società intera. Certamente, non si potrà pretendere che tutto cambi dall’oggi al domani, ma, come osserva Serge Latouche, dobbiamo cominciare a decolonizzare il nostro immaginario economicistico basato sul consumismo più sfrenato, per toglierci dalla testa quel chiodo economico che rappresenta il vero limite per una vita buona, felice e serena, fatta di frugale prosperità e di pace interiore, e soprattutto di giustizia sociale ed economica per l’umanità. Per quest’ultimo aspetto, che investe in pieno il tema di una nuova visione dell’etica sociale e del lavoro, ci sorregge l’affermazione del Premio Nobel per l’economia Amarthya K. Sen che dice: «Alcuni dei più laceranti problemi dell’etica sociale sono, infatti, di natura profondamente economica»[2].

 

 



[1] Si noti che siamo a cavallo di due Governi derivanti da compagini politiche opposte.

[2] A. K. Sen, La libertà individuale come impegno individuale, in  AA.VV, La dimensione etica nella società contemporanea, Ed. Fondazione Agnelli, Torino 1989. Cfr. sempre dello stesso autore: La disuguaglianza, Il Mulino, Bologna 1992.