Sahar Khalifa: l’utopia di un mondo senza frontiere

di Lucia C. Antonazzo

luannet@libero.it

 

 

     Breve nota bio-bibliografica della scrittrice

              

     Nelle opere di Sahar Khalifa, scrittrice molto sensibile alle problematiche sociali, troviamo parecchi elementi che chiariscono in modo particolare la sua personalità. La  Khalifa è attenta soprattutto alla condizione femminile in una società patriarcale come quella araba, in cui le condizioni di vita diventano più dure per le donne, soggette ad una doppia occupazione, ad una doppia oppressione: quella da parte dell’occupante israeliano in quanto palestinese e quella da parte dell’uomo palestinese, in quanto donna.

     S. Khalifa nacque a Nablus, in Cisgiordania, nel 1941. La famiglia scelse per lei l’uomo che avrebbe dovuto sposare, e che sposò a 18 anni. Le fu promesso che avrebbe potuto continuare a studiare, frequentare l’università, ma, in seguito, tutte le sue speranze furono deluse. Nei tredici anni di matrimonio si rifugiò nella lettura, studiando da autodidatta. Lesse Simone de Beauvoir, Sartre, Kafka, Dostoevskij, Mahfuz, quest’ultimo premio Nobel per la letteratura. Dopo il divorzio, riuscì ad avere l’affidamento delle due figlie, tornò a Bir Zeit e si scrisse all’università, dove coltivò l’interesse per la scrittura, interesse già presente negli ultimi anni di matrimonio. Aveva infatti scritto Lam naud giawari lakum (Non saremo più le vostre serve). Nel frattempo, si trovò un lavoro, che le permise di mantenere le sue figlie.

     Dopo un anno dall’arrivo a Bir Zeit, cominciò a lavorare ad al Subbar (Terra di fichi d’India). In seguito, pubblicò Ibad al shams (I girasoli) e poi scrisse Mudhakkirat imraa ghair waqiiyya (Memorie di una donna non realista) che verrà pubblicato in Italia con il titolo La svergognata. Al 1990 risale Bab al Saha (La porta della piazza) e al 1997 Al Mirath (L’eredità).

     Sahar scrisse anche delle poesie, ma è nel romanzo che riesce a trasmettere idee e sensazioni. Il romanzo è il mezzo per trasmettere una forma di lotta, un impegno, un modo per partecipare alla lotta palestinese.

     Studiò anche nell’Università del North Carolina ed in questo periodo progettò la creazione di un Centro di studi femminili nel suo Paese. Negli Stati Uniti entrò in contatto con i movimenti femministi locali, contatti che mise a frutto al suo ritorno in Cisgiordania, dove creò un “Centro di studi sulle donne”. Vi sono 2 sedi del Centro, una a Nablus e l’altra a Gaza. Il Centro si propone di formare giovani che conoscano meglio se stesse e la società.

 

     Nella mia relazione esaminerò 3 romanzi di Sahar Khalifa: Terra di fichi d’India, La svergognata e La porta della piazza.

     In questi romanzi si trovano molti particolari che rendono l’Autrice unica nel suo particolare modo di scrivere. Ritroviamo tutta la tristezza e la consapevolezza per la difficoltà del cambiamento, o per la difficoltà nel cercare il cambiamento, alcune volte.

 

     Terra di fichi d’India.

 

     In Terra di fichi d’India due cugini, Adel e Usama, si incontrano dopo essere rimasti lontani per anni. Adel è rimasto in Palestina e sa bene cosa significhi sentirsi prigioniero in patria, ma sa anche come gli israeliani siano organizzati nell’offrire lavoro e denari. Usama torna da un viaggio in paesi stranieri e nel tempo il suo amore per la patria è cresciuto sempre più e disprezza chiunque non la pensi come lui e si opponga al suo modo di volere la liberazione della propria terra. In questi due modi di essere, di concepire la propria vita e la propria lotta, si affacciano il fanatismo e la moderazione, si rivela la necessità di fare scelte difficili perché tali scelte non coinvolgono solo se stessi, ma anche la propria famiglia. Spesso i due cugini non riescono a capirsi, a stabilire una comunicazione, perché li separa un muro particolare, qualcosa che nasce dal loro vissuto privato, dalle loro esperienze di vita.

     I personaggi di Sahar Khalifa sono pieni di contraddizioni, ma l’Autrice sa cogliere tutti gli aspetti della loro umanità, sviscerando tutte le ragioni di ognuno di loro, anche di quello che può sembrare più inviso. Questo muro, questa “frontiera” invisibile che divide i due personaggi principali e, con essi, tutti gli altri nelle varie vicende, è tanto più forte quanto meno è visibile. Poiché sarebbe tutto più facile se ci fosse una separazione netta tra le persone che la pensano in modo diverso, tra quelli ritenuti buoni e quelli ritenuti cattivi. 

 

     Analisi del racconto     

 

     Usama ritorna nella sua patria e deve subito fare i conti con un soldato israeliano «Spogliarsi, spogliarsi, togliere tutto, tutto. Anche le scarpe»[1]. Segue l’interrogatorio, in cui Usama afferma di essere un impiegato che si era occupato di traduzioni nei Paesi da cui proveniva, in particolare di traduzioni di polizze di assicurazione. Ora era in ritorno da Amman. Tutto si svolge in un’atmosfera irreale, diversa da come se l’era immaginata nella sua fantasia: «Sotto ai suoi piedi e di fronte ai suoi occhi c’era il Paradiso. Ma lui era diventato prigioniero…»[2].

     Niente gli appare cambiato nella sua città, ritrova gli stessi odori, l’odore del seme d’oliva tritato del saponificio, il profumo del caffè e dei vassoi di dolci. Persino i canti gli sembrano gli stessi. La gente, però, gli appare diversa, non sembra misera, si vede che circolano i soldi. Pensa: «L’occupazione è sempre l’occupazione. La dignità è sempre offesa e ammalata. Ma qualcosa è cambiato. Le domestiche non sono più le domestiche e la scala sociale si è inclinata. La gente, tutta la gente, è sazia.»[3].

     Poi dice al cugino: «Che è successo al paese? Vi hanno resi pigri, vi hanno assimilati. E non vedo nei vostri occhi nessun segno di vergogna»[4]. E insiste: «Che cosa fanno i giovani come te per opporsi a quello che succede all’interno?» «Quello che avete fatto voi per opporvi a quello che succede all’esterno»[5].

     Convinto che Adel lavori in campagna, nella fattoria di famiglia, Usama va a trovarlo, ma incontra solo Abu Shahada, un vecchio che nemmeno lo riconosce. Egli gli rivela che il cugino e gli altri operai lavorano «lì», perché «lì è meglio»[6]. La terra non è mai stata dei salariati, i poveri non l’hanno mai posseduta, quindi non ha alcuna importanza averla posseduta o no. E poi: «Quando morivamo di fame nessuno ci chiedeva come stavamo, e ora, invece, ce lo chiedete, perché?»[7]. Usama non capisce, non capisce il perché si debba lavorare “lì”, si sente diverso, lontano anni luce dai suoi conterranei, come se lui solo possedesse la ricetta per cambiare il destino della Palestina. Non capisce perché il venditore di pane debba vendere pane che viene da «laggiù»[8].

     Era ritornato perché doveva far saltare in aria gli autobus che trasportavano i lavoratori palestinesi e in questa azione molti operai che aveva conosciuto sarebbero morti. Ciò gli causava un dolore enorme, ma la causa era più importante. Pensò al cugino Adel, che secondo lui era nato per avere una posizione di comando, ma era difficile portarlo sulle sue idee. Adel avrebbe detto che «il quadro ha più di una dimensione»[9]. Questa doppia dimensione la possiamo vedere nella vicenda di Zuhdi, operaio in Israele che, dopo aver litigato con l’ebreo Shlomo, lo colpisce con un cacciavite. Shlomo avava detto “sporchi arabi” in ebraico, perché c’era stato un atto terroristico in cui c’erano state delle vittime. Zuhdi è portato in prigione, ma rimane isolato dal gruppo degli altri carcerati, nessuno gli rivolge la parola, l’atmosfera è opprimente. Si sente in isolamento, nessuno vuole parlare con lui perché è ritenuto un collaborazionista per il fatto di lavorare in Israele. Ecco che si chiede «Ma questi sono arabi come me? O piuttosto io sono arabo come loro? Lavorare in Israele non significa essere collaborazionisti. Perché non capiscono? Mi hanno tolto la licenza… Come mangio allora?»[10]. Gli fanno tante domande poiché sospettano che sia una spia. E lui: «Non abbiamo finito con l’interrogatorio? Interrogatorio con gli ebrei, interrogatorio con gli arabi!»[11]. L’identità araba di Zuhdi non lo preserva da questo tipo di situazione, e lui non riesce a comprenderne i reali motivi.

     Questo romanzo ci descrive la difficile vita di che vive sulla propria pelle la condizione di essere profugo della propria patria e di che è costretto a scelte difficili, di chi cerca di mantenere la sua dignità.

     Nel romanzo appare l’uomo, al di là di ogni ideologia e di ogni bandiera, con tutte le sue contraddizioni.

 

 

     La svergognata 

     Questo romanzo, pubblicato a Beirut nel 1986 con il titolo Mudhakkirat imrah ghair waqi’iyah (Memorie di una donna non realista), è centrato su un personaggio, ‛Afàf, che lotta per il proprio diritto alla libertà. Le sue vicende personali si intrecciano con quelle del suo Paese occupato dall’esercito israeliano. In questo romanzo è identificabile la matrice autobiografica, che si intreccia con un tema molto caro all’Autrice: la condizione subalterna delle donne, prigioniere del modo di pensare e di vivere tradizionali. L’impossibilità di contrastare il destino di un ruolo che la donna deve interpretare nella sua vita, nonostante i progressi che si verificano nella società.

     È una donna che passa da una tutela ad un’altra, da quella del padre a quella del marito. La Khalifa denuncia il fatto che, nonostante tutti i cambiamenti avvenuti, nonostante molte donne si siano impegnate nella lotta per la Palestina, la condizione femminile non è mutata. Questo è un giudizio severissimo e polemico nei confronti della società che non è riuscita ad interpretare al meglio la partecipazione delle donne  palestinesi alla lotta nazionale e a farne tesoro. Nonostante tutto, però, nel libro si ritrova il pensiero individuale che ogni donna compie guardandosi dentro per cercare di essere se stessa e di non farsi condizionare di quell’immagine di sé che fin dalla nascita ha assimilato dall’ambiente, dalla famiglia,dalla società, dalla tradizione soprattutto.

 

     Analisi del racconto

 

     «Ero la figlia dell’ispettore. Tale rimasi fino a quando non mi sposai e divenni la moglie del commerciante»[12]. Questa frase sembra scritta per tutte le donne, con qualche rara eccezione. Sicuramente fino a pochissimi anni fa la donna era figlia di qualcuno, moglie di qualcuno, madre di qualcuno. Era l’uomo quello più conosciuto nella società, a cui fare riferimento, sempre.

     La protagonista del racconto, già da bambina dimostrava di essere diversa dalle altre, di assumere a volte comportamenti ritenuti maschili, esasperati al punto da non riuscire ad avere una propria identità definita. Quello che all’inizio era solo una reazione, alla fine divenne uno stato definitivo. Divenne una persona in bilico, né docile, né una vera ribelle. Era terrorizzata dala sua stessa paura e non sapeva più distinguere ciò che era giusto da ciò che era sbagliato.

     «Il mio amore per le piccole cose, per la mela, i colori, la gatta, è giusto o sbagliato? Lecito o illecito? […] E lavarsi la faccia con la pipì, come se fosse acqua di colonia, è giusto o sbagliato?»[13]. Nella società palestinese di quel periodo c’era l’usanza che le bambine si lavassero il volto con la pipì di un neonato maschio. Il maschio è giusto, è una benedizione, quando «nacque un maschio la casa si riempì di grida di gioia, di candele e di confetti delle occasioni di festa. Manciate di monete vennero gettate sulle teste dei passanti…»[14]. Tutti questi ricordi passati si intrecciano con la realtà presente della protagonista, lontana da casa. Ricorda la propria gioventù, la storia di una ragazza “svergognata” per il solo fatto di aver scritto una lettera d’amore su cui la famiglia aveva messo le mani. Ecco che questa parola “svergognata” la terrorizzava, aveva sempre in mente che essere una svergognata poteva voler dire essere uccisa, ecco che la protagonista faceva salti mortali per cancellare la sua femminilità, per sopprimere la femminilità dal suo volto, per evitare di essere oggetto di apprezzamenti. «Tutta la mia vita è trascorsa davanti a uno specchio. Il mio specchio, mio unico amico e custode dei miei segreti»[15]. Lo specchio qui è oggetto fisico, dove ‛Afàf vede se stessa, ma è anche il mezzo di un’introspezione, di un’analisi interiore. Attraverso lo specchio lei vede la sua vita, la analizza, la giudica e, infine, giudica se stessa e i suoi pensieri, fino a rasentare la follia, l’ossessività.

     Il fatto di non amare suo marito, non le impedisce di essere gelosa. Lui cerca di sedurre le altre in sua presenza, senza alcun ritegno. Dopo due anni di matrimonio, saputo di essere diventata sterile in seguito ad un aborto, che lei stessa si è procurato, rimane a lungo paralizzata nel cervello. Convinta di essere ormai “mutilata”, di non valere niente come donna, perché privata del ruolo principale che la società le impone, piomba in una solitudine estrema. La realtà, la sua realtà, peggiora, anche se per certi versi è più veritiera, poiché non finge più, non ne ha bisogno. Dopo anni di matrimonio in cui non c’è più amore, né intimità, lei prega il marito di lasciarla andare, di autorizzarla a lasciare «quell’esilio, in quanto legalmente responsabile delle mie azioni»[16]. Lui non cede e lei cerca di convincersi che, per una donna, non c’è posto se non a casa sua. La sua rassegnazione e la sua sottomissione aumentano, anzi ‛Afàf ringrazia Dio per le piccole cose e cerca di stare tranquilla. Ma alterna periodi di intensa attività ed allegria forzata, a periodi passati a letto, immersa nell’oscurità e nella depressione. Con la consapevolezza, come molte volte aveva sentito dire, che, comunque, si è nella propria casa. Dopo il divorzio, dove si può andare? A questo punto si pone la stessa domanda di tante altre donne nelle sue condizioni: «E tu, ‛Afàf, una volta divorziata, dove vivrai? Sotto i piedi delle mogli dei tuoi fratelli?»[17].

     Non c’è futuro, non c’è presente, solo il passato si affaccia continuamente a condizionare ogni gesto, ogni pensiero. Finalmente ottiene il permesso di andare a visitare sua madre, ad una condizione: che contemporaneamente lui faccia un viaggio in Europa. «Il giorno dopo però mi venne in mente che non ero mai salita da sola su un aeroplano. Che non avevo mai fatto tutti quei chilometri da sola. Che non avevo mai svolto nessuna pratica da sola. Che non mi ero mai presentata al controllo dei passaporti da sola. E, peggio ancora, che non avevo un passaporto. Avevo sempre viaggiato accompagnata. In quanto donna, la donna di un tale. E questo tale era il padrone del passaporto e contemporaneamente il padrone del nostro matrimonio. Prima del matrimonio ero iscritta sul passaporto di mio padre. Un nome fra gli altri. Mi prese un’inquietudine terribile. Avevo una paura viscerale. E mi vergognavo in modo scandaloso della mia paura»[18].

     Questo è un punto molto importante del romanzo e della questione della donna in generale. Queste parole vanno alla radice del problema. La paura di gestirsi, la paura di sbagliare, e contemporaneamente la vergogna della propria paura.

     ‛Afàf arriva ad Amman, incontra per caso l’antico amore e si vedono con una certa frequenza, complice il fatto che il ponte che collega la Giordania con la Cisgiordania è chiuso, come spesso gli Israeliani fanno per impedirne il passaggio. Nutre antiche speranze, pensa al divorzio, ma quando si accorge che lui ha una doppia morale, che distingue tra affetto e amore, che ritiene la famiglia la cosa più importante, persino se non c’è amore, piomba nello sconforto. Come è possibile che ci sia questo tipo di ipocrisia, come si può, ella pensa, tenere legata una donna a sé, con la scusa di proteggerla, rendendola infelice, e non lasciarla libera di conoscere il mondo? In questa situazione, sente la sua vita vicina a quella della moglie dell’uomo che lei ha ritrovato. Non sa esattamente se vive il suo stesso dramma, ma i problemi di fondo rimangono gli stessi.

     Lascia Amman, ritrova sua madre, decide di cercarsi un lavoro, cosa che si presenta difficile. Ha la certezza che senza un impiego non vale nulla. Antichi ricordi si riaffacciano alla mente negli incontri di sua madre con le amiche di sempre, la vita passata si intreccia indissolubilmente con un presente incerto. Non riesce a ricostruirsi un’identità, a sapere esattamente cosa vuole essere, è come se fosse ancora bambina, quando disegnava le mele e si sentiva lei stessa una mela brillante, rossa e bella.

 

     La porta della piazza

 

     Nello scenario dell’Intifada palestinese, vicende e destini di donne s’intrecciano nella travagliata storia di un quartiere assunto a simbolo di tutta una terra occupata. Questo romanzo è scritto dalla Khalifa durante la lunghe giornate e serate in cui è relegata in casa a causa del coprifuoco, imposto per settimane intere.

     Nel dicembre del 1987 scoppia l’intifada, la più importante insurrezione popolare dall’inizio dell’occupazione israeliana del 1967. Interessa Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza. Questa rivolta assume forme molteplici e coinvolge molti settori della popolazione. È in questo momento che la Khalifa torna a Nablus e subito si accorge che migliaia di donne sono attive nei movimenti. Ma, nello stesso tempo, si rende conto che è solo una situazione del momento, perché quegli spazi di libertà che le donne stavano conquistando si sarebbero ristretti e non ci sarebbe stato quindi un rinnovamento della società per quanto riguarda gli uomini e le donne.

     Spesso le donne sono più visibili nel quartiere di cui tratta il romanzo, curano gli uomini feriti, si fanno carico dell’andamento della casa, ma, nonostante possano essere laureate e con un buon lavoro, sono sempre dominate dai membri maschili della loro famiglia.

 

     Analisi del racconto

 

     La signora Zakie, l’ostetrica (“Umm-ash-shebab” – la madre dei ragazzi), è il primo personaggio del racconto, introdotto quasi contemporaneamente a quello del nipote Husam, ricercato dalla polizia israeliana. Ogni tanto, il mattino, Husam si fa vivo e dorme fino a mezzogiorno nel letto di Zakie. Una volta si era presentato con un compagno ferito, che poi era morto. Toccò alla signora Zakie darne la notizia alla madre, che le ricordò che che quel ragazzo era anche figlio suo, dato che lo aveva fatto nascere. L’ostetrica si ricordò, e le tornò in mente di aver ricevuto una ricompensa per aver annunciato la nascita di un maschio.

     Samar, secondo personaggio femminile del romanzo. Bella, vivace, laureata, con un impiego. La sposa ideale per il nipote Husam, almeno così spera Zakie. Samar le suggerisce che bisogna stare attenti, perché ci sarebbe stata un’incursione. E Zakie: «Ormai non c’è più niente di cui aver paura»[19]. Samar sta somministrando un questionario all’ostetrica e le pone questa domanda: «Che cosa è cambiato nella vita delle donne durante l’Intifada?» «Per essere sincera, per la donna non è cambiato niente. Niente, salvo i suoi affanni e le sue tribolazioni. Quelle sì, che sono aumentate. Tanto da spezzarle il cuore»[20]. E ancora: «Questa è la nostra vita: uno struggersi continuo, tortura dopo tortura. Che Dio le aiuti, le donne»[21].

     Guardano la casa di Sakina, uccisa dagli shebab perché accusata di collaborare col nemico. Lì, in quella casa, abita la figlia di Sakina, Nuzha, prostituta, minacciata di morte dai giovani dell’Intifada.

     È un clima, quello di cui si parla, in cui non ci si riconosce fra fratello e sorella: persino tra questi, uno diventa partigiano, l’altra una collaboratrice»[22]. Il riferimento qui è chiaramente per Nuzha e il fratello. Nuzha vuole incontrare Husam perché vuole parlargli. Husam dice che ci ha già parlato insieme ad altri compagni, forse quelli che l’hanno picchiata per il motivo che Nuzha riceve nella sua casa gli israeliani, pensa Zakie.

     Non passa giorno senza qualche incursione dei soldati nelle loro case, e sono le donne che vanno incontro ai militari, sono le donne che vanno a dare man forte alle altre donne delle case prese di mira, mentre gli uomini se ne stanno nascosti per non essere catturati ed imprigionati.

     Durante una battaglia, Husam viene ferito e si rifugia nel giardino della casa di Nuzha. La ragazza lo cura amorevolmente, ma è lui che comanda, che decide, sprezzante, convinto che lei sapesse di sua madre e quindi che sia colpevole nella stessa misura.

     Nuzha riceve la visita di Samar, con il questionario tra le mani per la sua ricerca sull’Intifada, sul ruolo della donna, sulle speranze per un cambiamento possibile. Samar le chiede lo stato civile e scopre che è divorziata: a 15 anni si era sposata con un uomo di 45. Samar le chiede se lo amava e Nuzha si meraviglia della domanda, dicendo: «Ma che domande mi fai, vecchia mia? Uno di quarantacinque anni, grande e grosso come un mulo, che va a sposare una ragazzina di quindici anni, può forse sapere che cosa è l’amore e capire che cosa significa amare?»[23]. Samar replica che non si può mai dire, infatti «Il profeta, quando ha sposato nostra signora ‛Aishah aveva 56 anni e lei solo 9 e l’ha amata come nessun’altra delle sue donne»[24].

     Nuzha continua a rispondere alle domande sulla sua vita e su come è diventata quella che tutti evitano, ma che molti frequentano di nascosto. Infatti le dice che non è vero che la sua casa è frequentata solo dagli israeliani, ma ci vanno tanti uomini del luogo, persone che tutti credono rispettabili.

     Nasce una sorta di amicizia tra le due donne, che si troveranno insieme alla signora Zakie nella stessa casa per nove giorni, a causa del coprifuoco. Quando Samar torna a casa, i suoi fratelli decretano: «Tu rimani a casa con tua madre o, se vuoi, vai all’Associazione. Se ci tieni, le tue ricerche falle pure, a condizione di non andare in giro. Né manifestazioni né altro. Siamo in cinque e ognuno di noi vale per dieci. Lottare e resistere tocca a noi. Tu facci il piacere di tenere la bocca chiusa e di startene ferma e tranquilla»[25].

     Samar ora si rende conto che la via che avrebbe portato alla fondazione dello stato palestinese era diversa dalla via che avrebbe risolto la questione della donna. La prospettiva era diversa, il cammino era lungo. Ora suo fratello maggiore la picchiava e lei provava una profonda vergogna. Quando i soldati l’avevano picchiata aveva resistito, ma essere picchiata da un fratello era una profonda umiliazione, specialmente vedere suo fratello minore, con cui aveva condiviso tante cose, che stava a guardare.

     È nel cercare di abbattere tutte le barriere fisiche, psicologiche e anche quelle dovute alla tradizione, che si può sperare di poter costruire una realtà nuova, diversa, migliore per tutti gli esseri umani. È un’utopia realizzabile, se ciascuno cerca di vedere l’Altro non come nemico, ma come un suo simile che, per varie vicende, si trova a rivestire un ruolo diverso, o avverso.

     E le barriere mentali  sono più difficili da abbattere, perché non sono visibili, spesso si nega la loro esistenza e a volte fa comodo far finta che non ci siano, perché in questo modo si evita di mettersi di fronte alle proprie responsabilità individuali come uomo e come donna.


 

[1] Sahar Khalifa, Terra di fichi d’India, traduzione dall’arabo di Claudia Costantini. Jouvence, Roma 1996, p. 17.

[2] Idem, p. 26.

[3] Idem, p. 33.

[4] Ibidem.

[5] Idem, p. 34.

[6] Idem, p. 48.

[7] Idem, p. 49.

[8] Idem, p. 72.

[9] Idem, p. 90.

[10] Idem, p. 127.

[11] Idem, p.133.

[12] Sahar Khalifa, La svergognata – Diario di una donna palestinese – traduzione italiana di Piera Radaelli, Giunti, Firenze 1989, 1991, p. 3.

[13] Idem, p. 19.

[14] Idem, pp. 19-20.

[15] Idem, p. 37.

[16] Idem, p. 52.

[17] Idem, p. 71.

[18] Idem, p. 82.

[19] Sahar Khalifa, La porta della piazza, Jouvence 1994, p. 18.

[20] Ibidem.

[21] Idem, p. 19.

[22] Idem, p. 22.

[23] Idem, p. 71.

[24] Ibidem.

[25] Idem, p. 112.