KENYA 2008

 

Da Eden a Hades in dieci giorni. O no?

 

di Silvano Borruso

 

Preambolo

 

600 morti e 60 miliardi di scellini di danni.[1] Tutto in dieci giorni. E tutto (o così sembra) per un trucco nei conteggi di elezioni ‘democratiche’. Ci si dispera, in Occidente, leggendo roba del genere.

Però le immagini televisive, per quanto agghiaccianti, non danno che una pallidissima parvenza della realtà. Che ben nascosta sotto una coltre di disinformazione che dura da secoli, rivela la sua vera faccia solo a chi vi si è confrontato ripetutamente, nella storia di tutte le nazioni di qualsiasi periodo: la Questione Fondiaria, ancora irrisolta in pieno Terzo Millennio.

 

 

Tutto il mondo è paese?

 

Quel cappotto rabberciato da mendicante[2] al quale assomiglia una carta politica d’Africa divide il continente in una cinquantina di quello che il pensiero debole chiama ‘nazioni’. E poi si apprende, a scuola, che in ogni ‘nazione’ africana vivono centinaia di ‘tribù’ che le Grandi Potenze europee ‘pacificarono’ dopo il Congresso di Berlino (1885) e che dall’indipendenza in poi (1956-2008) non fanno che scannarsi a vicenda.

La realtà, però, è un’altra. Definendo come ‘nazione’ una popolazione omogenea in usi e costumi,  ne esistono in Africa un migliaio o giù di lì. Alcune raggiungono cifre rispettabili: i 30 milioni di Igbo in Nigeria, per esempio, sono più numerosi di scandinavi, danesi e belgi messi insieme. Ma li si continua a chiamare ‘tribù’, dimenticandosi che a coniare quel termine fu Servio Tullio sesto re di Roma, il quale divise l’Urbe in quattro distretti tributari (dai quali il termine). Come e quando codesto termine sia stato appioppato alle nazioni africane lo ignoro.

Per cui se i membri di due suddette nazioni, dopo decenni di convivenza pacifica e perfino di matrimoni vicendevoli, esplodono in una orgia di distruzione e di sangue, ci deve essere qualcosa di più profondo della differenza etnica, e così infatti è.

 

 

Il ‘Titolo’ di Proprietà

 

Diamo la parola ad Adam Smith, ‘padre’ dell’economia moderna:

 

Non appena la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata, i terratenenti, come tutti, amano mietere dove non hanno seminato, ed esigono una rendita anche per i prodotti naturali del suolo. Il legname delle foreste, l’erba dei prati, e tutti quei frutti della terra che quando questa era in comune costavano al lavoratore solo la fatica di raccoglierli, adesso hanno un prezzo. Costui deve pagare per il permesso di raccoglierli; deve consegnare al terratenente una porzione di quello che raccoglie o produce.[3]

 

Il paragrafo di Smith espone un bubbone sociale che stava già esplodendo ai suoi tempi dopo aver covato un’infezione per circa due secoli: l’espulsione degli orgogliosi ’yeomen’ inglesi dalle terre che avevano coltivato per secoli, e che l’ingordigia di Enrico VIII aveva venduto ai nuovi ricchi in cambio di ‘titoli di proprietà’. Gli espulsi sulle prime si erano rifugiati nei demani della Corona, ma alla fine del 18° secolo anche questi erano stati recintati dai grandi terratenenti. Sarebbero morti di fame se la Rivoluzione Industriale non fosse intervenuta con i suoi salari da fame, ma sempre salari, che permisero loro di sopravvivere.

I nullatenenti discendenti delle vittime di quella ingiustizia d’origine andarono ad espropriare nazioni africane perchè, come i nullatenenti spagnoli di due secoli prima che avevano espropriato le nazioni indigene sudamericane, erano popoli militarmente forti. Italiani e irlandesi, militarmente deboli, andarono a cercare fortuna nell’America settentrionale. Ma la spinta surrettizia fu la stessa per i quattro popoli: i nuovi terratenenti, con i loro ‘titoli di proprietà’ sostenuti dal potere politico/militare, avevano costretto i nullatenenti o a fare la fame o a emigrare. Dietro ad ogni ‘titolo’ emesso dall’autorità politica, sia essa inglese, spagnola o piemontese, vi fu un atto di violenza.

 

 

Alla radice

 

Tutte le antiche culture, dovunque si guardi, avevano senza eccezione sviluppato un sistema fondiario di occupazione in comune. Un tale sistema, detto ‘demaniale’, era in corso anche nel Regno Duosiciliano fino al 1860.

Vi è una ragione naturale, e quindi di senso comune, per una tale istituzione: la terra (a) non è manufatta, e (b) è immortale. Ne segue che una proprietà terriera è comunale per diritto naturale, giacchè la comunità è anch’essa immortale come la terra su cui risiede. La proprietà terriera individuale è un costrutto giuridico. Dota di privilegio ingiusto un mortale, autorizzandolo a chiamare ‘suo’ qualcosa per cui non ha lavorato e che un giorno dovrà lasciare volente o nolente.

È vero che un tale privilegio può esser temperato da extra doveri assunti dal terratenente. Così fu durante i sette secoli di feudalesimo. I terratenenti ecclesiastici si accollavano i servizi sociali e quelli secolari i servizi di amministrazione e di difesa. Più modernamente, si potrebbe far pagare al terratenente un canone di occupazione per la superficie occupata, lasciandogli tutti i proventi da lavoro.

Sarebbe come estendere il sistema di parcheggio di una città, dove si paga un tot giornaliero per il privilegio di parcheggiare un’auto, in esclusiva e per un tempo convenuto. Se la legge autorizzasse il primo occupante a vendere il ‘titolo’ di occupazione al suo successore, e così via, il municipio perderebbe gli introiti da parcheggio.

Se la stessa legge che consente ad un municipio di riscuotere un canone di occupazione per un auto parcheggiata temporaneamente, venisse estesa a edifici ‘parcheggiati’ permanentemente, nella stessa misura di tot unità monetarie per metro quadrato per giornata, il sovrappiù di entrate municipali andrebbe a impinguare l’erario statale. Quella somma potrebbe coprire la gran maggioranza, se non la totalità, della spesa pubblica. Lo Stato non avrebbe bisogno di impiegare un esercito di funzionari, anche armati, con poteri draconiani di confisca dei frutti del lavoro, e l’economia verrebbe liberata dalla pastoie che le impediscono di decollare.

Ma con il ‘titolo’ di proprietà succede esattamente l’opposto. Quando un ‘padrone’ lo vende ad un altro, la porzione corrispondente alla superficie nuda, che in giustizia dovrebbe andare alla comunità, gli va in tasca. Questa situazione, che in una Europa addormentata sotto una coltre burocratica da due buoni secoli non viene percepita, in Africa ha effetti esiziali come vedremo poco più sotto.

Per provare che dietro a ciascun ‘titolo’ concesso a un individuo (e quindi innaturale) vi sia un atto di violenza, dalla conquista militare fino all’omicidio, è sufficiente leggere un caso qualsiasi, dovunque nel mondo. Eccone uno del 1999 dalla Lousiana.

Il richiedente di un prestito presso la National Housing Authority (FHA) aveva offerto il suo ‘titolo’ di proprietà come garanzia. Tre mesi di cerca avevano consentito al suo avvocato di farlo risalire al 1803. Ma la Authority non fu soddisfatta, e richiese che il titolo venisse rintracciato ‘alle origini’.

L’incavolato avvocato rispose come segue:

 

Non sapevo che una persona istruita, in questo paese, particolarmente se avente a che fare con la proprietà fondiaria, non potesse sapere che la Lousiana venne comprata dagli Stati Uniti dalla Francia nel 1803, l’anno di origine del titolo sottoposto nella nostra richiesta. Per l’edificazione dei mal informati burocrati della FHA, il titolo di proprietà anteriore agli Stati Uniti venne ottenuto dalla Francia, che a suo tempo lo aveva acquisito per Diritto di Conquista dalla Spagna. La terra era venuta in possesso della Spagna per Diritto di Scoperta, ad opera di un capitano di mare chiamato Cristoforo Colombo, che godeva del privilegio di cercare una nuova rotta per l’India dall’allora monarca regnante Isabella. Come donna pia che era, e scrupolosa circa i titoli terrieri tanto quanto la FHA, la buona regina prese la precauzione di ottenere la benedizione papale prima di vendere i gioielli che le avrebbero permesso di finanziare la spedizione di Colombo. Come suppongo sappiate, il Papa è l’emissario di Gesù Cristo Figlio di Dio. Ed è opinione comune che Dio abbia creato il mondo. Per cui penso sia prudente presumere che abbia anche creato quella parte del mondo detta Louisiana. Ne sarebbe quindi il padrone originale. Spero proprio che lorsignori trovino soddisfacente la rivendica di codesto titolo di origine. Ci concedete o no questo maledetto prestito?

 

 

Il prestito venne concesso. Ora che c’entra la Louisiana con il Kenya? C’entra perchè il punto chiave è lo stesso.[4] Un titolo di proprietà vale né più né meno della capacità del possessore di difenderlo con la forza. Quando è lo Stato a farla da terratenente, la sua rivendica circa il territorio che chiama ‘nazionale’ dipende dal potere delle sue forze armate; ma quando il terratenente è un individuo, e per lo più disarmato come avviene in Kenya, la sicurezza della sua proprietà dipende dalla capacità e volontà delle forze dell’ordine di difenderne il titolo.

Gli eventi dei primi di gennaio 2008 in Kenya non sono che una coda sanguinolenta di uno stillicidio di morti e feriti che dura da più di 50 anni, prendendo fuoco violentemente di tanto in tanto. Si può cominciare con la rivolta Mau Mau degli anni Cinquanta: da allora, decine di migliaia di unità di capitale umano e milioni di ora-uomo sono state immolate sull’altare di un idolo chiamato ‘titolo di proprietà’.

La storia del nostro idolo è lunga. Venne intronizzato da Enrico VIII d’Inghilterra (1509-47), e importato in Kenya dai non tanto illuminati discendenti degli ex-yeomen ridotti a nullatenenti dalle devastazioni dello stesso idolo. Cosa sarebbe successo se i colonizzatori britannici avessero applicato in Kenya un sistema di proprietà terriera illuminato e pacifico invece di applicarne uno oscurantista e pertanto violento?

 

 

Una Soluzione

 

Speculiamo un po’. Invece di emettere titoli individuali a ciascuno dei coloni bianchi, come venne fatto, il governo coloniale avrebbe fissato dei confini per ciascuna nazione/comunità già esistente, garantendone la sicurezza con le sue forze dell’ordine. Ciò fatto, avrebbe emesso titoli di proprietà a ciascuna nazione/comunità come tale, in cambio di un tributo fisso come contropartita per la protezione armata e per l’amministrazione del territorio. Ogni colono bianco avrebbe pagato un canone di occupazione contrattato con la comunità, la quale gli avrebbe garantito tanta terra quanta ne avesse avuto bisogno, in termini contrattati caso per caso, per iscritto. Il contratto avrebbe avuto forza di legge davanti al governo coloniale.

Le quantità del tributo sarebbero state calcolate secondo la località e densità di popolazione. Non si sarebbero confiscati i frutti del lavoro di nessuno, con il risultato desiderabile che quanta più ricchezza fosse stata prodotta dentro i confini di una comunità, tanto meno il tributo fisso da pagare al governo avrebbe gravato su di essa. Per di più, una politica di salari bassi non sarebbe stata possibile, data la opzione dei nativi se lavorare in proprio o per il colono bianco.

Ne sarebbe scaturito un circolo virtuoso. Coloni bianchi (allora) o neri (dal 1963) invece di essere percepiti come intrusi, e pertanto sfruttatori, sarebbero stati percepiti, e continuerebbero ad esser percepiti, come fonte di ricchezza e di entrate erariali, dirette per la comunità e indirette per lo Stato.

Non fu così. Quando le forze dell’ordine della Corona britannica non protessero più i titoli dei coloni bianchi, costoro dovettero andarsene, e con loro andò in malora gran parte del capitale creato in mezzo secolo di duro lavoro.

Ora siamo in condizioni di capire la storia degli ultimi 45 anni.

 

 

Indipendenza e oltre

 

Nell’Africa subsahariana solo i popoli Sotho, Swazi e Tswana sono diventati nazioni-Stato sensu stricto. I Somali sono anch’essi nazione, ma di Stato non ne vogliono sapere, il che è affar loro, non della cosiddetta ‘comunità internazionale’ che vuol dettare legge a destra e a manca, e per lo più a sproposito.

Il Kenya, Protettorato e Colonia Britannica multinazionale fino al 1963, è divenuto Stato da allora, ma è rimasto multinazionale, e qui sta il busillis: chi comanda?

Dai tempi più antichi, un’accozzaglia di nazioni sotto la stessa autorità politica si chiamava Impero. Ma oggi quella parola, orrore, è politicamente scorretta, per cui è anatema perfino suggerire che uno stato così verrebbe governato meglio da un Re Travicello di natura estranea ai sudditi-rane che da un Re Biscione d’acqua che li percepisce come manicaretti.

Il primo Presidente fu Jomo Kenyatta (1963-78) della nazione Kikuyu. Da uomo perspicace che era, si rendeva conto che una democrazia a base di partiti politici sarebbe stata rovinosa per una società multinazionale come il Kenya.[5] Aveva quindi optato per il partito unico, che benchè limitasse certe libertà politiche potè mantenere la pace fino alla sua morte.

Qui però vanno capiti i Kikuyu. Costoro sono un popolo di formiche operose che sanno come affrontare rischi ed accollarseli. Non esitano a emigrare in capo al mondo, dalla Scozia al Giappone, e fare fortuna. Forti di circa quattro milioni, sono andati uscendo fuori dai 13mila km2 della loro provincia per emigrare dentro il Kenya stesso, insediandosi a decine di migliaia, tanto nelle campagne quanto nelle città, dei territori di tutte le altre tribù (pardon, nazioni). E siccome lavorano, e sodo, hanno fatto tanta più fortuna quanto più si sono andati insediando tra nazioni-cicala, che per carità di patria è meglio non nominare.

Kenyatta, com’è logico, ne aveva favorito l’emigrazione, dando loro, indovina, il famigerato ‘titolo’ di proprietà su terre altrui. Si trattava di una bomba ad orologeria, dato l’attaccamento morboso di tutte le società africane alle loro terre ancestrali. Poteva durare solo fino a quando le forze dell’ordine fossero state in grado di difendere quei titoli.

L’amministrazione Moi (1978-2002), non-Kikuyu, riuscì a tenere il cane addormentato per dieci anni fino al 1988, sempre con il partito unico KANU (Kenya African National Union). Ma non aveva fatto i conti con i paladini della Democrazia, il cui pensiero unico, spregiante le realtà sociali, va imposto al mondo, anche a prezzo di guerre sanguinose come l’Europa ben sa.

Quell’anno 1988 l’ambasciatore USA in Kenya sferrò un calcio ben assestato al cane che dormiva, pressionando il governo ad accettare il sistema multipartitico, al di fuori del quale, si sa, non vi è che pianto e stridore di denti.

Siccome i partiti africani non hanno ‘programmi’, ‘manifesti’ e coriandoli del genere, gli elettori votano sempre a uno della loro nazione, il cui ‘programma’ fisso è: “Io voglio diventare Presidente”.

Per cui avvicinandosi le elezioni del 1992, Moi vide chiaro che a lasciare i Kikuyu indisturbati dov’erano, sarebbero stati una minaccia per il suo potere. E si diede da fare per organizzare quello che la stampa occidentale faceva passare come ‘scontri tribali’ ma che in realtà erano operazioni militari dirette a fare la pulizia etnica di Kikuyu da aree non-Kikuyu.

Ci riuscì per ben due volte: 1992 e 1997. Quanti cadaveri e quanto capitale distrutto ne siano stati il risultato lo si è ventilato qua e là, ma ancora mancano cifre rotonde.

Nel 2002 una coalizione di Kikuyu e altre nazioni stufe di un potere presidenziale che supera di gran lunga quello di un Luigi XIV qualsiasi, riuscirono a sconfiggere il potere KANU, presidente e accoliti, e ad installare un Kikuyu: Kibaki.

Costui aveva fatto tre promesse:

 

 

Altre promesse vennero mantenute, queste no. E gli elettori del 2007 hanno trombato 22 dei 27 ministri dell’amministrazione 2002-2007. Ma al momento dei conteggi, ecco il miracolo: Kibaki viene rieletto con una maggioranza di 20mila voti su circa sette milioni di votanti.

La bomba è esplosa non più di dieci minuti dall’annunzio dei risultati. Questa volta il paese è spaccato nettamente in due, e la pulizia etnica, del tutto irrazionale, ha cominciato a irrorarlo di fiumi di sangue e a decorarlo con tragici falò di proprietà distrutte.

Due settimane dopo si parla di 70 campi di rifugiati con 300mila senza tetto, 60 e più miliardi di capitale distrutto, e della perdita (speriamo temporanea) della pace sociale. Il che prova oltre a ogni dubbio due cose: 

 

 

Sarebbe possibile rifare il paese su ogni altra base che non sia l’assestamento definitivo della Questione Fondiaria? Sono disposto a ritrattare ogni frase di questo saggio se mi si dimostra che sì. Nel frattempo chiudo con la percezione del fenomeno da parte di un cosiddetto ‘esperto’ di oltre Atlantico:

 

Certi patrocinatori della pianificazione familiare vedono i presenti conflitti tribali in Kenya come indicazione del bisogno di sforzi maggiori per abilitare donne povere ad impedire gravidanze non desiderate, così da limitare le dimensioni delle loro famiglie.

Ai tempi del Presidente Truman la popolazione del Kenya era di sei milioni. Oggi è sei volte maggiore e aumenta rapidamente. Le donne del Kenya hanno oggi una media di 4,9 figli, più dei 4,7 dei tardi 1990 ma meno dei 7,5-8 degli anni Sessanta.
Il governo del Kenya trova difficile educare e trovare posti di lavoro per orde di giovani. Circa il 73% di kenyoti hanno meno di 30 anni. Fra due anni, il Kenya avrà una densità di popolazione di 70 per km2, contro i dieci del 1950. Benchè un quinto di costoro vivano oggi nelle città, c’è competizione per i terreni coltivabili. Le battaglie tribali peggiori hanno avuto luogo nelle zone rurali.

 

            Lascio al giudizio dei lettori le sovrastanti affermazioni di Mr David R. Francis del Christian Science Monitor del 14 gennaio 2008, ‘illuminanti’ per chissà quante menti americane. A doverlo sbugiardare punto per punto mi ci vorrebbe uno spazio uguale a quello speso, che non ho.

 

Silvano Borruso

silbor@strathmore.ac.ke

16 gennaio 2008


 

[1] Circa 540 milioni di euro.

[2] Sono debitore della felice espressione a Silvio Gesell (1862-1930).

[3] Adam Smith, The Wealth of Nations, Penguin 152-53, traduzione mia.

[4] Come lo sarebbe anche per l’Italia, i cui cittadini vengono tartassati da un fisco incontrollato proprio per avere trascurato la stessa questione per circa due secoli. Ma il discorso qui varrebbe un articolo a parte.

[5] Rosmini aveva detto la stessa cosa, e John Stuart Mill lo aveva ripetuto, 150 anni prima.