RECENSIONE a

La società degli individui, Quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee, Franco Angeli, Milano, n. 26 (pp. 176) e n. 27 (pp. 192), anno 2006/2/3.

A cura di Lucia C. Antonazzo e Paolo Coluccia

 

La società degli individui, rivista dal titolo assai ambiguo  - cosa si vuole intendere con società degli individui? - promossa da un nutrito gruppo di studiosi di discipline storiche, filosofiche e sociali in seno al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma, dedica il n. 26 e il n. 27 al tema dell’Utopia. Le ragioni di questa rivista tematica sono espresse nella pagina WEB www.unipr.it/arpa/dipfilos/testi/individui.htm, che contiene anche l’Archivio dei numeri precedenti con molti abstract di saggi linkati, dove si dice sostanzialmente che «i comportamenti individualistici che caratterizzano le società moderne, e le relative teorie, suscitano reazioni contraddittorie, di consenso e di rifiuto. La filosofia sociale dell’Ottocento ha liquidato l’individualismo come ideologia di copertura della prassi ‘egoistica’ della società borghese. In questo secolo è subentrato un atteggiamento analiticamente più attento ai nessi tra individualismo e processi di modernizzazione e al rilievo etico della stessa ‘scelta’ di essere se stessi». Ma tali ragioni a nostro avviso non giustificano un titolo che resta emblematico.

Nell’introduzione al primo volume, Ferruccio Andolfi, che ne è il direttore, tenta di chiarire la scelta del tema e «prima ancora l’esigenza». Segue un dibattito tra Bloch e Adorno dal titolo Manca qualcosa (un dialogo radiofonico del 1964). Per Adorno gli uomini sanno che la loro vita potrebbe essere altrimenti, e che ciò è possibile. Essi sanno che non solo potrebbero vivere senza fame e senza angoscia, ma anche liberi. Per Bloch, invece, se si dà un mondo in cui la fame e il bisogno immediato sono aboliti, alla fine vengono alla luce banalità ed esistenza senza prospettive. Quindi l’utopia si riferisce a ciò che manca. L’utopia si realizza nella speranza, che è l’opposto della scienza, ed include la categoria del rischio, perché la speranza può restare incompiuta. Il pensiero utopico è prassi trasformatrice, aggiunge Alessandro Bellan in appendice al dialogo suddetto. La difficoltà sta nel descrivere il presente in modo valido: è ciò che Bloch chiama «oscurità dell’attimo vissuto». La coscienza utopica si rivela nei tentativi umani di costruire una vita migliore perseguendo ideali di otium e di riposo.

Rainer Forst in Utopia e ironia scrive che l’utopia non è distante da noi nello spazio e nel tempo in quanto «semplice sogno», essa è sì lontana, ma si trova pur sempre nel mondo degli uomini, perché l’immagine della società perfetta vuole mostrare i rischi della società attuale, ma anche i rischi di altri mondi. L’ironia è l’atteggiamento di chi non è a casa propria né qui né lì. Mario Vegetti in Comunità giusta, politica dell’anima e dimensione dell’utopia in Platone ritiene che non si possa riflettere sull’idea di comunità politica senza interpellare Platone, che mette in luce le condizioni perché essa possa realizzarsi nella sua unità. Perciò devono essere comuni le donne, i figli e ogni avere; gli occhi, le orecchie, le mani, devono avere la sensazione di vedere insieme, udire insieme, agire insieme. Elena Irrera in Tra realtà e utopia esplora la natura della città ideale in Aristotele e l’affermazione che  buon cittadino e uomo buono potrebbero non essere la stessa cosa, fino ad arrivare a definire il buon governante. Nozioni sull’utopia deboli, queste appena espresse nel capoverso, che si rifanno a concezioni arcaiche, di disprezzo e a malintesi, che poco hanno a che fare con il dialogo iniziale.

Interessante invece l’esposizione del compianto Pietro Maria Toesca dal titolo Le utopie reali, dove il primo meccanismo dell’utopia reale consiste nel contestare l’abitudine che ci ha indotto a separare la cultura dalla vita, soprattutto dalla politica, nel pensare che la vita di ogni giorno consista nell’elementarità dei bisogni, mentre le faccende che riguardano l’economia o la politica consistano nella furbizia e nella spregiudicatezza. L’utopia è la convinzione che l’uomo sa e può comportarsi da uomo in ogni circostanza. Ma essa non si realizza in una città futura: si attua nel presente. Il bisogno di giustizia è il suo motore, per contrastare gli interessi prevaricatori di pochi uomini senza scrupoli che si impadroniscono dello spazio e del tempo. In questo mondo, rivendicare il diritto alla verità, alla giustizia e alla libertà assume la connotazione di utopia. Questo processo è strettamente legato all’ambiente: ecco perché proprio all’ecologia è connesso un rovesciamento di significati e di prospettive. Al di là di tutto rimane la speranza, che è il principio dell’utopia.

Si propone la lettura della prima parte dell’opera di Landauer La rivoluzione, seguita dal saggio di Andolfi Gustav Landauer: la rivoluzione e il suo oltre. Per Landauer la rivoluzione non può essere oggetto di una trattazione scientifica, anche se poi afferma che è costretto a trattarla in modo deduttivo e scientifico ed invita il lettore a controllare che tutto si svolga perfettamente, dato che non si può negare che «la maggior parte dei cosiddetti lavori che hanno la pretesa di essere scientifici, non solo dei nostri tempi, siano un intollerabile ammasso di materiali e sentimenti». Ci sono due condizioni: la topia e l’utopia. La topia è  la combinazione di elementi della convivenza in condizioni di relativa stabilità, l’utopia si raggiunge nel momento in cui si verifica un equilibrio precario, si modificano cioè le condizioni di stabilità e di sicurezza. L’utopia non appartiene all’ambito della convivenza, ma a quello della vita individuale. L’utopia è un complesso di aspirazioni individuali e di tendenze della volontà. C’è una concatenazione infinita di topia e di utopia. L’intervallo di tempo durante il quale la vecchia topia non c’è più ma non è ancora stabile la nuova topia, si chiama rivoluzione. L’utopia sovverte il dominio della convivenza, ma non vi appartiene. Il punto culminante del moto liberatorio è dato dalla Rivoluzione francese, eppure anch’essa non sfugge al destino delle rivoluzioni, «ciò che la Rivoluzione raggiunge è proprio la sua fine». Secondo Buber, suo amico sincero e devoto, il sistema  di Landauer ha una forma profetica, a differenza di altri sistemi che hanno una forma apocalittica. Pur da posizioni diverse (anarchico comunitario Landauer e filosofo sociale Buber), occupano un posto importantissimo nel socialismo utopico dell’inizio del secolo XX, entrambi intellettuali e pionieri alla ricerca di nuove forme sociali.

Il secondo volume, dopo la presentazione di rito, offre un saggio di Margaret Mead Verso più vivide utopie, in cui l’autrice nota che l’immaginazione dell’uomo è stata sempre più fertile nella formulazione di distopie, piuttosto che di utopie, infatti persino l’immagine dell’inferno ha colori molto più vividi e contorni più netti dell’immagine del paradiso. Il saggio successivo, Utopia, escatologia, speranza di Moltmann, si sofferma sul ricordo del passato e sulle aspettative per il futuro. Del passato ricordiamo di più gli eventi dolorosi, che non abbiamo accettato. Perciò, portiamo alla mente possibili esperienze future attraverso l’aspettativa. I nomi per queste aspettative sono sogno, visione, utopia, progetto. Queste idee non hanno ancora trovato il loro luogo (u-topos). Tre regole per utopisti, di Martin Seel, tende a recuperare un’idea di utopia realistica e priva di illusioni per un pensiero politico.

Gregor Fitzi propone Utopia in Mannheim e Buber. Un confronto, dove, al rifiuto di una categoria ritenuta stravagante, Mannheim e Buber delineano l’importanza che proprio la categoria storica dell’utopia è alla base dei movimenti storici che nella modernità si sono fatti portatori di tale progetto. Di Buber l’ultimo saggio, dal titolo Landauer e la rivoluzione, che riporta la testimonianza dell’amico nei confronti di quell’anarchico pacifista che che fu Landauer, il quale intese la rivoluzione come la possibilità di arginare i rischi propri di ogni rivoluzione, cioè di essere fagocitata dal meccanismo dei partiti e di autodistruggersi attraverso l’uso della violenza. Il volume riporta, infatti, la seconda parte del Saggio La rivoluzione, già anticipato nel primo volume.

In questi volumi dedicati all’utopia appaiono, nel primo un’interessante Intervista a Vita Fortunati del Centro di Ricerca sull’Utopia di Bologna, riguardante l’Utopia filosofico-letteraria e la fortuna degli studi sull’utopia in Italia e all’estero, e nel secondo un paio di saggi sul Rovescio dell’utopia e sul Controverso contributo di Karl Popper al tema dell’utopia (che Popper riteneva pericolosa perché poteva portare a forme di società chiuse e a totalitarismi). C’è sicuramente in queste due ultime posizioni confusione sui termini: si scambia infatti l’utopia con il suo contrario, che è la dis-topia. Manca in definitiva nella raccolta di saggi di entrambi i volumi un contributo contemporaneo sull’utopia storica, così come approfondita dal Centro Interdipardimentale di Ricerca sull’Utopia dell’Università di Lecce, voluto oltre vent’anni fa e ancora fortemente animato da Arrigo Colombo, che all’utopia come fattore intrinseco della storia (Mannheim) e come processo della storia (Bloch) inserisce, nella sua ricostruzione del processo storico-utopico, la categoria dell’impegno, con il quale i movimenti di popolo, e non singoli autori o individui, costruiscono una società di giustizia, orientata ad un rapporto fraterno, in una legge dell’amore già presente nell’annunzio evangelico. Sarà la certezza delle Carte dei popoli a sancirne l’irrevocabilità e il continuum storico.

Questa mancanza è parzialmente colmata, avendone acquisito conoscenza di recente, dalla recensione che Andolfi fa del primo volume della Rivista di Studi Utopici pubblicata nel 2006 a Lecce e promossa dal costituito Centro Interuniversitario di Studi Utopici, che raccoglie molti studiosi di varie università italiane (Cassino, Macerata, Lecce e Roma3). Questo ed altro ancora dimostrano che il panorama del pensiero utopico italiano è molto vasto, variegato e articolato, e i due volumi non ne completano sicuramente l’insieme, anzi, per certi versi si disperdono in posizioni utopistiche minoritarie o accessorie e trascurano quelle linee di pensiero più stimolanti che possono delineare per le giovani generazioni un percorso riflessivo più autentico e costruttivo, fondato sull’impegno e sulla progettualità. Quale linea di ricerca, allora, si è posta alla base della preparazione e predisposizione degli interventi nei due volumi tematici sull’utopia? L’incompletezza epistemologica e l’occasione perduta pertanto dovrebbero ingenerare un ulteriore approfondimento, magari con un confronto dialogico e serrato nel futuro.