Ivan Illich

 

La creazione rituale dello spazio

 

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L’immaginazione non è, come la sua etimologia potrebbe suggerire, la facoltà di formarsi le proprie immagini della realtà. È piuttosto la capacità di formare delle immagini dell’invisibile; è la facoltà che «canta la realtà». La città classica è prima di tutto un canto rituale di questo tipo; la sua sorgente sono i sogni. Ogni cultura urbana sembra avere i propri procedimenti rituali attraverso cui questo sogno della «vita come un flusso nell’abitare» è riflesso nella rappresentazione sociale dello spazio abitabile. Un agglomerato di capanne e tende si trasforma in un insediamento o in una città solo quando il suo spazio è stato riconosciuto cerimonialmente e realmente come qualcosa di diverso da un’estensione rurale, quando è opposto «al di fuori», quando i sentieri che attraversano il suo spazio vengono riconosciuti come strade.

 

Nella tradizione classica, la fondazione di una città comincia con la chiamata divina del suo fondatore, generalmente in sogno. ‘eroe della civiltà Eracle, appare a Miscelo in sogno e gli ordina di fondare una colonia in assoluto contrasto con la volontà dei suoi vicini ed alle leggi della sua città achea. Quando viene deciso che il suo progetto venga messo ai voti, il dio deve arrivare al punto di barare e scambiare i ciottoli neri dei «no» con quelli bianchi dei «sì». La maggior parte dei fondatori sono guidati da un segno, in uno stato come di sogno, al posto dove sorgerà la nuova città. Talvolta una preda ferita, uno strano uccello, una nuvola o un fulmine lo conducono al luogo prescelto dagli dei. Enea segue la scrofa fino al luogo in cui essa partorisce i suoi piccoli e dove Alba Longa sorgerà. La Pizia, parlando i stato di trance, prevede il destino di un insediamento. Essa manda Miscelo a Crotone per preparare un posto a Pitagora e destina il mercante Archia a diventare ricco in Siracusa ed a morire li per mano dell’amante. Il sogno di fondazione è sempre gravido di destino, per quanto in modo oscuro.

 

Comunque né la chiamata divina di un fondatore, né un comando dell’oracolo di Delfo e neppure l’effettiva colonizzazione di un posto sono sufficienti perché una località si trasformi in una città. C’è bisogno dell’intervento di un veggente riconosciuto, di un augure che crei lo spazio del posto rivelato dal fondatore. Questa creazione sociale dello spazio è chiamata in-augurazione. L’augure è particolarmente dotato: può vedere corpi celesti invisibili ai comuni mortali. Vede il tempio della città in cielo. Tempio è un termine che fa parte del vocabolario tecnico del suo mestiere. Il templum è una figura poligonale che aleggia sulla città fondata dal fondatore e visibile solo per l’augure che celebra l’inaugurazione. Il volo d’uccelli, un susseguirsi di nuvole, il fegato di un animale sacrificato possono aiutare l’augure nella contemplatio, l’atto con cui egli proietta la figura vista in cielo sul paesaggio scelto dal dio. In questa con-templatio, il templum celeste assume la sua configurazione terrena.

 

Ma la con-templatio non è sufficiente. Il contorno del templum non si può adagiare sulla terra senza venire debitamente con-siderato, allineato con le stelle (sidus). La con-sideratio segue la con-templatio. La con-sideratio allinea il cardo (gli assi) del tempio con la «stella» della città. Il cardo originalmente era un «cardine» dall’esplicito, concreto simbolismo maschile-femminile.

 

L’in-augurazione viene conclusa dando un nome a quelle parti della città che costituiranno la destra e la sinistra, il davanti e il dietro, fornendo un contenuto agli spazi così intravisti nella visione, e determinando (de-signatio) il posto per un mundus, o bocca degli inferi, che si apre vicino al focus, la porta focale (fuoco) per l’altro mondo, da cui le Erinni possano emergere. Comunque nessuno dei gesti o segni dell’augure lascia sul terreno alcuna traccia visibile. Sono fissati in riproduzioni di fegati o di ruote, alcune delle quali sono giunte fino a noi. Le azioni dell’augure costituiscono un incantesimo dello spazio tramite l’opposizione e l’unione di destra e sinistra, che deve ancora essere resa tangibile. Lo stesso fondatore deve celebrare l’unione tra questo templum disimmetrico ed il paesaggio.

 

Per questa cerimonia due buoi bianchi vengono attaccati ad un aratro di bronzo, la mucca all’interno, trascinando l’aratro in senso antiorario, incidendo così nel suolo le fondamenta del tempio. Il solco crea un cerchio sacro; come i muri che sorgeranno su di esso, è sotto la protezione degli dei. Varcare questo solco è un sacrilegio. Per mantenere questo cerchio aperto, chi ara solleva l’aratro quando raggiunge i punti dove sorgeranno le porte della città. Alza (portat) l’aratro per creare una porta, un ingresso. A differenza del solco e delle mura protette dagli immortali, l’ingresso e la porta saranno sottoposti alla legge civile. Dove c’è la porta, domi (lo spazio abitativo) e foras (tutto quello che sta oltre l’ingresso) si incontrano; la porta può essere spalancata o esser chiusa. Benveniste osserva che c’è una profonda asimmetria tra i due termini nelle lingue indo-germaniche; essi appartengono ad insiemi di parole senza un legame tra loro. Sono così distanti l’uno dall’altro quanto a significato che non possono neanche essere chiamati antitetici.

 

Domi si riferisce all’abitare-dentro, mentre foras si riferisce  qualsiasi altra cosa chiusa fuori.

 

Solo quando il fondatore ha tracciato con l’aratro il sulcus primigenitus (solco) intorno al perimetro della futura città, l’interno di questa può diventare spazio che può essere calpestato e solo in quel momento l’arcano celeste templum si fissa nel paesaggio.

 

Il tracciare il sulcus è per molti versi simile ad un matrimonio. Il solco è simbolico di una ierogamia, di un sacro connubio tra cielo e terra. Il sulcus primigenitus riveste questo significato in un modo particolare. Tracciando un solco intorno alla futura città, il fondatore rende definito lo spazio interno, esclude lo spazio esterno ponendo un limite ad esso e sposa i due spazi dove i muri in seguito sorgeranno.

 

Spazio interno ed «esterno»

«Occupare spazio» e «far spazio» sono intrecciati nell’arte dell’abitare. Abitare significa tirar fuori dalla matrice della città una roba di sogno, tessere dei fili con questa ed usarli per formare un ordito imbrigliato al templum della città e tessere l’azione in quest’ordito.

 

Persino i nostri pensieri devono essere tessuti in quest’ordito, se li vogliamo separare dal tessuto della vita. Non posso pensare in armonia con la mia immaginazione senza sottintendere un tale ordito di spazio immaginario. Non appena dico che sono «riuscito a conoscere qualcosa», ho già preso le distanze da quel qualcosa. L’ho «guardato», l’ho «esaminato», ho «immaginato» il «giusto lato» per «avvicinarmi ad esso», per «arrivare ad esso» ed infine l’ho «realizzato». Tutti questi verbi che mi consentono di descrivere il «processo» ed il «progresso» del mio pensiero sono naturalmente delle metafore spaziali e si riferiscono tutte allo spazio che è dentro di me.

 

Quando uso una di queste espressioni, sono consapevole del fatto che lo spazio che sento fra me e il mondo che sono riuscito a conoscere, non è «nello» stesso tipo di spazio «in» cui percepisco le cose intorno a me. Mi si viene a dire che «nella mia mente» è un’espressione sistematica fuorviante e che dovrei fare il più possibile a meno di essa. Non posso seguire un consiglio tanto ben intenzionato. L’intuito mi porta a percepire in me un di-dentro. A partire dal perimetro rituale tracciato (il solco, la pelle, il sociale) ogni epoca crea la propria complementarità dissimmetrica tra questi due lati. L’interno e l’esterno sono tessuti – uno in senso orario e l’altro in senso antiorario – dalla matrice di ogni cultura. Insistendo sullo «spazio» interno, difendo me stesso dalla geometrizzazione della mia intimità, dalla sua riduzione ad una formula nozionistica equivalente ad uno spazio esterno, che è stato ridotto a dimensioni cartesiane.

 

Una tale intrusione permetterebbe allo spazio «in-scindibile» di defraudarmi della mia intimità e quindi di abolirla, come Cartagine fu spianata da Scipione.

 

Rifiuto ugualmente di dare alla geometria un monopolio sulle cose che non fanno parte della mia intimità. Quasi tutte le culture hanno occhi che vedono «lì fuori» realtà che non possono rientrare nella continuità formale della matematica e della fisica. Né gli dei greci, né i fantasmi della cultura popolare, né gli spiriti elementari del fuoco, dell’acqua e dell’aria, che secondo Paracelo, nel suo trattato su ninfe, silfidi, pigmei e salamandre (Balzer) dimorano negli elementi, possono abitare in tale continuo cartesiano. La geometria non è un fuso che può dipanare il filo per la spola con cui tesse la mia immaginazione.

 

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Brano tratto dal libro di Ivan Illich H2O e le acque dell’oblio,

Macro Edizioni, Umbertide, 1988)