Ivan Illich
Amicizia
Brano tratto dal volume:
Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro, QuodLibet, Macerata 2009
Negli ultimi quarant’anni mi è stata fatta in continuazione la domanda: dove ti collochi? Di solito, all’inizio di ogni grande ciclo di conferenze, io dicevo sempre al mio pubblico che mi ponevo all’interno della fede cristiana, affinché fossero consapevoli che i miei pregiudizi potessero differire dai loro; ma, d’altro canto, ho sempre confidato nel fatto che le persone che frequentavano seriamente un semestre, o più semestri del mio insegnamento, alla fine sarebbero diventati ospiti alla mia tavola e avrebbero scoperto da sé il mio modo di lavorare. Vorrei ora, alla fine della mia vita, abbozzare una mappa di quella che penso sia stata la mia collocazione.
Devo innanzitutto rilevare come i cambiamenti compiutisi nell’università, specialmente negli ultimi cento anni, abbiano reso questa istituzione quasi un nemico per il metodo collegiale che io ho cercato di coltivare. Sì, io mi sono guadagnato da vivere con l’università, mungendo sobriamente quella vacca sacra e costruendomi un nido con i compensi che ne ho ricevuto. Non ho mai accettato un incarico universitario stabile, ma solo un semestre per volta, in istituti diversi o nello stesso – ho insegnato sette o otto anni all’università di Brema e dodici alla Pennsylvania State University. Questo ha procurato a me e ai miei amici il necessario per una tavola ospitale. Un bravo tributarista ha trovato il modo di rendere credibile all’Ufficio delle Imposte che un certo numero di casse di vino, ordinario ma accettabile, sono il mio principale strumento didattico e possono quindi essere detratte dalle tasse.
Il modello a cui mi sono ispirato è il Simposio di Platone. L’idea platonica di philia, dell’amore come strada per accedere alla conoscenza, ha costituito una sfida, perché, di decennio in decennio, ho dovuto interpretarla in modi sempre nuovi. Ma una convinzione è rimasta costante: l’amicizia non potrà mai significare per me la stessa cosa che significava per Platone. Nella città greca la virtù era intesa come un comportamento appropriato, adeguato: era l’ethos, l’etica, confacente ad un certo ethnos, una popolazione, e questa virtù era il fondamento dell’amicizia, ciò che la rendeva possibile. L’amicizia era il fiorire della virtù civica e il suo coronamento. Era soltanto in quanto ateniesi virtuosi che gli ospiti del Simposio – sym-posion (il bere insieme) – di Platone potevano amarsi. Non è stato questo il mio destino di ebreo errante e pellegrino cristiano: non mi è stato possibile ricercare l’amicizia come qualcosa che sorgesse da un luogo e dalle pratiche ad esso pertinenti. È stata invece l’etica sviluppatasi intorno alla mia cerchia di amici a nascere come risultato della nostra ricerca di amicizia e della pratica che ne facevamo. È un’inversione radicale del significato di philia: per me l’amicizia è stata la sorgente, la condizione e il contesto perché potessero avvenire il coinvolgimento e l’affinità di pensiero; per Platone potevano essere soltanto il risultato di pratiche confacenti al cittadino.
Questa inversione cruciale mi obbliga a dire qualche parola sulla storia dell’amicizia. Per Platone e sarebbe lo stesso per qualunque testo classico dell’antichità – l’amicizia presuppone un ethnos, un “qui e ora” dato, al quale appartengo per nascita; presuppone determinati limiti entro i quali può essere praticata. Ad Atene, per esempio, essere un uomo libero avrebbe costituito una di queste condizioni delimitanti. Poi venne quel sommo provocatore e folle, quel Gesù storico dei Vangeli, con la sua storia del Samaritano (il palestinese) che è l’unico a comportarsi da amico nei confronti del Giudeo (l’ebreo) percosso. Gesù apre una nuova illimitata capacità di scegliere chi voglio per amico, e una corrispondente possibilità di lasciarmi scegliere da chiunque mi voglia. È qualcosa che viene spesso dimenticato da quelli che dipingono l’amicizia moderna soltanto come uno sviluppo ulteriore di ciò che Platone e Aristotele intendevano con questo termine. Gesù ha spezzato la cornice che delimitava le condizioni entro cui poteva darsi amicizia, e ciò ha portato, nella storia dell’Occidente, alla creazione all’interno della Chiesa di nuove modalità di vita, volontarie e autonomamente scelte, entro cui praticare l’amicizia. Il monachesimo era certamente una di queste, forse la modalità principale con cui gruppi di “altri” liberamente scelti si mettevano insieme e creavano le condizioni nelle quali potesse fiorire uno spirito di comunità. In ciò che ne discende si trovano diverse strade verso l’amicizia. Due esempi contemporanei, che ho ammirato, sono le comunità del mio amico Giuseppe Rossetti in Italia e le comunità dei Lavoratori Cattolici fondate negli Stati Uniti da Dorothy Day.
Ho considerato mio compito verificare in che modo la vita dell’intelletto, la disciplinata e metodica ricerca comune di una visione chiara – si potrebbe dire filosofia, nel senso di amare la verità – possa essere vissuta così da diventare occasione per suscitare philia. (Consentitemi di usare la parola philia, per evitare le buffe implicazioni che “amicizia” assume nelle diverse lingue moderne). Volevo capire se fosse possibile creare legami umani di reale, profondo coinvolgimento in occasione e con i mezzi della ricerca condivisa; e volevo anche spiegare come la ricerca della verità possa essere perseguita in modo ineguagliabile intorno a una tavola da pranzo, davanti ad un bicchiere di vino, e non in una sala conferenze. Se l’espressione “ricerca della verità” fa sorridere la gente e fa pensare che io appartenga a un qualche Vecchio Mondo, ebbene sì, vi appartengo.
Quando ero più giovane e mi veniva offerta la possibilità di tenere conferenze, l’accesso al foro pubblico, io l’accettavo, ma sempre con l’idea di poter poi riunire in situazioni più conviviali quelli che mi prendevano sul serio. Perciò, quando, dopo una conferenza, le persone mi avvicinavano e chiedevano: possiamo venire, noi tre, a trovarla?, io potevo dire: sì, ma perché non venite quando ci sono anche quegli altri due, che mi piacerebbe farvi incontrare? E l’occasione pubblica poteva così essere usata per mettere insieme le persone.
In questo modo si può favorire la crescita di un gruppo aperto di persone mosse dalla fedeltà reciproca in quanto persone, e decise a mantenere questa fedeltà anche se l’altro diventa un pesante fardello. Ma perché si possa perseguire la verità entro l’orizzonte di un “noi” che è davvero un “io” plurale, un “noi” che è arbitrario, unico, che emerge lentamente, che non può essere in alcun modo classificato, è necessario innanzitutto lasciar cadere un certo numero di convenzioni accademiche – estremamente vischiose e tenaci – prodotte dall’università, fra cui l’organizzazione della conoscenza in discipline specialistiche ed esclusive. L’esperienza mi ha insegnato che molte delle persone che incontro e che vogliono rischiare lo stile di ricerca appena descritto, hanno già vissuto in misura considerevole quella che chiamano socializzazione all’interno di un ambiente universitario e accademico. Per loro l’autolimitazione disciplinare può essere già diventata un modo di rifiutare il dialogo su ciò che veramente si sa e su ciò che veramente interessa delle persone al di fuori di quella disciplina – e questo pregiudizio deve essere abbandonato.
Vorrei dire qualcosa di più su alcune di queste deformazioni, che i miei amici ed io abbiamo cercato di superare negli ultimi quarantacinque anni. L’università è orientata verso riunioni specialistiche. Le persone che sanno qualcosa della storia delle idee all’interno di una tradizione tendono a pensare di poter progredire nella loro conoscenza solo entro la cerchia di persone che hanno la loro stessa formazione. Io ho cercato di sfidarle a mettere l’amicizia al di sopra di questo pregiudizio e a lasciare che l’amicizia li motivasse a formulare in un linguaggio comune le svolte e le intuizioni rese possibili grazie alla loro conoscenza tecnica. È una sfida che non si limita a chiedere loro di insegnare agli studenti dei primi livelli universitari – perché l’insegnamento universitario di primo livello può essere soltanto un’introduzione al loro metodo –, né a chiedere loro di ampliare i propri orizzonti per includervi altre professionalità. Si basa sulla convinzione che le cose davvero importanti devono essere suscettibili di condivisione con altri che io amo, prima di tutto, e con i quali poi sento il bisogno di parlare; e questa convinzione avrà un impatto significativo sul modo in cui valuto ed esprimo le mie intuizioni.
Dovrei anche dire che il convivium, o symposium – la condivisione di minestra, vino, o altri liquidi – richiede che alla tavola intorno a cui ci si riunisce debba esservi qualcuno a presiedere. E ci può essere qualcuno che presiede in qualità di ospite, ma soltanto quando c’è una soglia a dividere questa tavola dall’esterno. A rendermi estremamente chiara la scomparsa di soglie nel mondo è stata, non molti anni fa, una signora polacca che frequentava i miei corsi a Brema. Questa donna non era proprio ciò che si definirebbe un’intellettuale, ma aveva seguito regolarmente le mie lezioni per cinque anni. Una volta stavo parlando delle trasformazioni dell’idea di soglia nella storia, e particolarmente negli ultimi trent’anni; facevo notare in che modo i muri fossero diventati permeabili a molti tipi di irradiazioni, dalle e-mail e dai fax ai telefoni e ai segnali televisivi, e sostenevo che l’idea stessa di privacy era stata messa in discussione e che la differenza era marcata da una soglia confusa. “capisco ciò che dice, professor Illich”, mi disse nel suo forte accento polacco. “Vivo in Germania ormai da trentacinque anni. I tedeschi sono persone splendide, squisite. Non verrebbero mai a farti visita senza portare dei doni. Non faccio in tempo ad aprire la porta, che loro hanno già oltrepassato la soglia, e io sono in cucina a cercare un vaso dove mettere i fiori. Che si può fare, allora?”.
La tavola, dunque, o il tappeto su cui ci sediamo, devono essere distinti dallo spazio comunitario [commons], dalla strada al di fuori. Ma questo non significa che il convivium debba essere inteso come un’attività privata che si contrappone alla sfera pubblica. È piuttosto un’attività personale; è un modo per creare, mediante la condivisione, un interno distinto dall’interno; ed è tanto più difficile per il fatto che l’esterno quasi non esiste più come vero spazio comunitario, cioè come spazio fruibile dalla gente in modi diversi e sovrapposti.
Sono ormai molti anni che porto avanti questo tipo di ricerca, con le persone raccolte alle conferenze, e ho imparato che la capacità di presiedere, di condurre qualcuno oltre la soglia, non dovrebbe essere prerogativa di una persona soltanto, ma dovrebbe essere condivisa dagli amici. La possibilità di incontrarsi in casa di uno degli ospiti di Socrate si è indebolita nel nostro tempo; e per questa ragione la creazione di una soglia e l’esercizio del potere di portare qualcuno su quella soglia devono acquisire un significato completamente nuovo. Alcuni parlano di un nuovo monachesimo. Io lo rifiuto, così come rifiuto l’idea che sia possibile un ritorno al vero spirito dell’università. Ritengo di aver intrapreso un’altra strada, che porta a un luogo dove possono ritrovarsi i folli.
Sulla tavola c’è sempre una candela. Perché? Perché il testo che ha dato forma alla mia concezione è stato il De spirituali amicizia, un trattato sull’amicizia spirituale di Aelred di Rievaulx, l’abate scozzese del XII secolo il cui padre e il cui nonno erano stati abati di Rievaulx prima di lui. Il suo magnifico libretto sull’amicizia ha la forma di un dialogo con un fratello monaco, e inizia con queste parole: “Eccoci qui, tu e io, e – spero – anche un terzo, che è Cristo”. Se consideri con attenzione che cosa voglia dire, capisci che ci potrebbe essere proprio Cristo, nelle sembianze di Fratello Michael. In altre parole, la nostra conversazione dovrebbe svolgersi sempre con la certezza che qualcun altro busserà alla porta, e la candela è per lui o per lei; è un ricordo costante che la comunità non è mai chiusa.
Ci deve dunque essere, prima di tutto, una soglia, e poi un riconoscimento che quella soglia definisce uno spazio che è personale, ma mai esclusivo. Un terzo requisito per coltivare l’atmosfera di cui ho parlato è la disponibilità ad accettare la disciplina senza avere fissato formalmente delle regole. I piatti devono essere lavati e, se a cena saltano fuori quindici persone in più del previsto, qualcuno deve provvedere a che la zuppa basti. La questione di come questo debba essere gestito, e da chi, è qualcosa che si deve definire senza il ricorso a regole, perché nel momento in cui stabilisci delle regole sei già sulla strada dell’istituzionalizzazione. Allo stesso modo, le convenzioni accademiche riguardanti, diciamo, la forma in cui si fa una citazione, devono essere seguite come qualcosa di non importante ma necessario. Questa è stata una grande difficoltà nei primi anni ’70, dopo la mal interpretata anarchia del 1968; ma oggi non è così difficile ovviarvi.
Quindi, per ripetere quanto già detto, la mia idea era che la ricerca della verità presupponga la crescita della philia; questa philia deve trovare un clima in cui crescere, e questo clima non può essere dato per scontato, come una crescita spontanea di virtù civica. Bisogna porre molta cura a che non sia esclusiva: sempre una candela pronta, una candela accesa. Dio sa chi arriva alla porta. Recentemente, un tale venne a bussare alla porta e chiese dei soldi, perché disse che aveva bisogno di un fabbro. Voleva venti dollari, e io dissi: diamoglieli! Ritornò un po’ un po’ più tardi e ci disse di non preoccuparci, ma che ancora non gli era stato possibile entrare nell’appartamento. Poi non tornò per due giorni. Alla fine arrivò proprio mentre ci stavamo mettendo a tavola per cena, e venne fuori che non solo aveva i venti dollari ma anche alcune idee interessanti sull’argomento di cui stavamo discutendo.
Lungo il percorso che ho descritto, ho avuto la fortuna di raccogliere degli amici con cui le conversazioni sono andate avanti per cinque decenni, ormai. Quando queste persone si sono incontrate, spesso si sono sviluppati tra loro intensi legami e talvolta si sono chiamate a rivedere in profondità le proprie idee. Con mia grande sorpresa, l’appartenenza ad una stessa faccia di età non è determinante, quando le persone sono attente a mettere in pratica ciò che ho descritto. Ho visto amicizie tra persone che potevano essere nipote e nonno diventare forti e feconde. All’università si parlerebbe, gerarchicamente, del “mio studente”. Qui a precedere la sostanza intellettuale della conversazione c’è una fedeltà, un coinvolgimento seriamente radicato.
Curiosamente, parlare della vita di qualcuno, di questi tempi, implica sempre una psicoanalisi, una ricerca di percorsi sotterranei inconsci. Io vorrei parlare di me nel mio tempo, sulla mia strada, senza invitare quest’impudenza. Molte persone hanno considerato il corso della vita una sorta di “cammino a piedi”, come nel mondo indù, oppure come un pellegrinaggio, ancora così importante per i musulmani; la strada che io ho percorso è stata quella dell’amicizia. Un monaco cristiano del Medioevo disse che vivere con altri in comunità è la più grossa penitenza che si possa affrontare, ma è questa la strada che io ho preso: cercare di mantenere la fedeltà e di sopportare reciprocamente l’impossibile modo d’essere altrui. Non puoi scrivere la biografia di un’amicizia: è troppo profondamente personale. Le amicizie corrono su strade separate che si incrociano, corrono parallele e tornano ad incrociarsi.
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