Recensione del libro di Roberta Iannone, Società dis-connesse. La sfida del Digital
Divide, Armando ed., Roma 2007, pagine 123, euro
12,00.
A cura di Paolo Coluccia
Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un forte incremento delle ICT (Information and Communication Technology), tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Molti i risultati raggiunti, spesso traguardi insperati ed inimmaginabili, in quasi tutti i campi del sapere, anche se altrettanti sono stati (e lo sono tuttora) i problemi riguardanti la divisione sociale, tra chi ha saputo usare i nuovi dispositivi e chi non ha avuto la possibilità di utilizzarli. Tanti i motivi che stanno alla base dell’alfabetizzazione di massa delle reti informatiche e telematiche, nonché dell’animazione delle comunità virtuali in rete. Sul versante della promozione sociale si è tentato in vari modi d’implementare corsi ed interventi di sostegno integrati e strategici, soprattutto rivolti a politiche della formazione professionale, della conciliazione vita-lavoro, familiare, per le pari opportunità, nell’ambito dello sviluppo e della partecipazione, in una società dell’informazione che si manifesta sempre più complessa, anche per l’aumento dell’utilizzo dei più moderni sistemi di conoscenza del tipo multimediale, al fine di ridurre le diseguaglianze sociali (digital divide) causate dalle disparità sociali e dalle nuove forme di esclusione sociale nei contesti lavorativi, sociali e culturali.
«Che cos’è, quindi, il digital divide [d.d. in seguito], e, soprattutto, che ‘cosa significa’ o ‘può significare’?». Questa è la prima domanda che si pone Roberta Iannone, dottore di ricerca in ‘Sociologia della cultura e dei processi politici’ presso l’Università La Sapienza di Roma, nel suo libro. Una domanda, però, che ne presuppone immediatamente un’altra: «Che cosa c’è prima e cosa oltre il d.d.?». Da qui la riflessione che il d.d. sia uno strumento conoscitivo per capire l’attuale società in generale. Infatti: «La convinzione è che in questo gioco tra inclusione ed esclusione, digitale e sociale, che fa capo ad ogni attore, può annidarsi la contraddizione delle società occidentali, contemporaneamente cucite dalle reti e slegate dall’individualismo». Da questa constatazione emerge, secondo l’Autrice, una terza domanda, in senso sociologico e culturale, che è la seguente: «Che rapporto c’è, dunque, tra inaccessibilità digitale ed emarginazione sociale?». Dopo aver tentato nella prima e nella seconda parte di fornire una risposta conoscitiva, sia rispetto al tema (il d.d.) sia rispetto al contesto (lo scenario sociale), cioè rispetto alle possibilità e ai presupposti di connessione, nella terza parte del libro l’Autrice s’interroga sulle implicazioni sociologiche legate al d.d. In realtà, il d.d. appare contemporaneamente come «un problema», «un falso problema» e «un problema urgentissimo» a cui dare risposte. Il riferimento non è tanto la quantità numerica ovvero la dimensione materiale e tecnologica dell’accesso ai media, quanto i livelli qualitativi e relazionali legati «alla dimensione dell’uso».
Cercando di andare più in profondità, nel primo capitolo è trattato come le ICT abbiano «rivoluzionato le modalità di condivisione del sapere», delineando così «un profondo mutamento di paradigma a livello globale» e accelerando i processi di globalizzazione, soprattutto di tipo economico. Internet, come rete e circuito informativo intercontinentale, ha rivoluzionato le categorie spazio-temporali, non solo in senso virtuale, ma anche nella realtà geo-politica e sociale. Infatti, «la rivoluzione tecnologica è andata conseguentemente modificando la natura stessa dei rapporti tra gli stati nazionali, le genti, le culture, e lo stesso corpo sociale, nel suo complesso». Due gli autori presi in esame in questa fase: P. Lévy (autore de L’intelligenza collettiva) e J. Rifkin (autore de L’era dell’accesso), riferimenti, il primo, delle implicazioni sociali, il secondo, del paradigma della frattura sociale. Tra i «tecnoutopisti» (che immaginano scenari non discriminanti) e i «tecnodispotici» (che vedono scenari opposti), traspare la posizione critica intermedia di D.J. Gunkel (autore di Riflessioni. Per una critica del divario digitale), il quale ritiene che comunque, prima o poi si apriranno nuovi scenari in cui convivranno sia difficoltà d’accesso sia nuove prospettive e opportunità di connessione, ovvero sarà possibile «dar vita ad un nuovo progetto di civilizzazione», pur tra situazioni di criticità. Dice Iannone: “Da questa prospettiva, l’accesso e l’uso efficace delle reti e degli strumenti della nuova economia globale, nonché le innovazioni da essi introdotte, potrebbero svolgere un ruolo-chiave per ridurre la povertà, aumentare l’inclusione sociale e creare migliori condizioni di vita per tutti”. Naturalmente, «l’infrastruttura» portante del futuro delle ICT dovrebbe essere fondata sul «capitale umano».
Dopo aver trattato di passaggio nel secondo capitolo la prospettiva storico-empirica, l’Autrice si sofferma a trattare nel terzo capitolo il d.d. in relazione al problema della coesione sociale. Il lato oscuro delle nuove tecnologie sta nel fatto che «lasciano molte contraddizioni irrisolte e iniquità insolute», quasi un cono d’ombra che avvolge gli esclusi. Infatti, a nuove e numerose possibilità ed opportunità, corrispondono purtroppo «nuove asimmetrie». Molteplici sono le tipologie d’esclusione: fisiche, finanziarie, cognitive, progettuali, contenutistiche, produttive, istituzionali, politiche ecc. Il d.d. peraltro ha molte sfaccettature territoriali e culturali, sia di tipo planetario o nazionale, sia di tipo sociale, culturale, di genere o generazionale. La società degli esclusi, quindi, non è univoca, ma stratificata: «La società degli esclusi e il divario digitale che oggi la genera appaiono, insomma, come il più grande nodo critico nella storia dell’umanità».
Ma non bisogna disperare: questo può anche essere visto come «un falso problema», perché le nuove tecnologie intanto si espandono e l’adattamento culturale sarà inevitabile, anche se non è possibile precisarne i tempi. C’è da segnalare un aspetto a dir poco sconcertante: la dimensione ideologica del d.d., ovvero l’abuso di questa categoria concettuale in senso strumentale, cioè al solo fine di realizzare un profitto, sulla falsariga di altri concetti di moda, come la responsabilità sociale delle imprese, il capitale sociale ecc. Sarà la dimensione relazionale a giocare un ruolo più interessante, in vista della funzionalità e del perseguimento degli obbiettivi (acquisizione delle informazioni). Si apre qui però il tema-problema della condivisione delle informazioni, ovvero, più in generale, della condivisione del sapere, che al momento genera ancora una forte situazione di conflittualità. La rete mescola tutti, osserva Iannone, ma proprio per questo essa non divide, né unisce gli individui, e per questo non genera integrazione.
Traspare infine una leggera vena di pessimismo, supportata da considerazioni autorevoli (come quelle espresse da S. Rodotà, per lungo tempo a capo dell’autorità sulla privacy), a causa del fatto che spesso la raccolta delle informazioni portano ad incentivare comportamenti conformi, soprattutto orientati al consumo. Il vero paradosso, ritiene l’Autrice, sta nel fatto che non è che gli individui abbiano bisogno delle nuove tecnologie che si producono e che non sempre possono utilizzare, ma che siano soprattutto le nuove tecnologie ad aver bisogno degli individui e delle loro informazioni, preferibilmente degli orientamenti sul consumo. Si può dire, allora, che le innovazioni tecnologiche sono un prodotto delle classi dominanti o emergenti, le quali cercano rispettivamente di consolidare o di sovvertire i rapporti di forza nella società? Gli strumenti digitali nascono come i loro antenati e, soprattutto, per raggiungere livelli sempre più alti d’efficienza. Chi li crea, li promuove e li impone, anche attraverso il cosiddetto superamento del d.d., attraverso cioè un’estensione quanto più generalizzata ed indistinta che possa scaturire dal loro utilizzo ed accesso. Pertanto, il problema qui intravisto, non è tanto nella sorveglianza, bensì nella classificazione dei connessi. Ma come classificare allora gli esclusi? Questa è una domanda senza risposta, che il libro, dotato alla fine di una buona bibliografia, lascia ancora aperta, per la cui risposta, certamente, l’Autrice non potrà sottrarsi ad una nuova ricerca e ad ulteriori importanti riflessioni.