Roberta Iannone, L’equivoco della responsabilità sociale delle imprese, Rubettino, Soneria Mannelli 2006, pp. 110, euro 10,00.

A cura di Paolo Coluccia

 

Il rapporto tra economia e società ha disegnato una storia tormentata, e, soprattutto, è stato al centro della riflessione del pensiero moderno e della società industriale. Come legittimare, giustificare e risolvere la logica dell’impresa capitalistica basata sulla categoria del profitto? L’impresa tayloristica/fordista appare estranea ai giudizi di valore, ma la problematica dei valori e del patto sociale non possono essere trascurati a vantaggio del mero profitto. Uno stuolo considerevole di economisti ormai si ritrovano su un punto fondamentale: lealtà, integrità, fiducia e onestà sono principi che migliorano non solo la società ma anche la stessa economia. Se questi valori vengono a mancare in un certo territorio, sarà la stessa impresa, il suo management e la sua organizzazione a subire perdite d’efficienza e di produttività. Più che un divorzio tra etica ed economia, è auspicabile un rapporto etica-economia che da sempre è alla base della relazione società-economia. È importante perciò definire il valore sociale dell’impresa. Per questo oggi si richiede alle imprese «una nuova coscienza sulle conseguenze dirette e indirette che la loro gestione determina nell’ambito economico, ma anche sociale», osserva nell’Introduzione il sociologo Paolo De Nardis.

L’impresa deve dar conto alla comunità dell’impatto socio-ambientale delle sue azioni produttive. Da questo parte un rinnovato modo di concepire l’impresa. Ma – si chiede Roberta Iannone, sociologa e studiosa del rapporto tra economia, etica e società e dei processi economici e del lavoro, già autrice di un importante libro dal titolo Il capitale sociale. Origini, significati e funzioni (Milano, 2006) – può esistere una «responsabilità sociale delle imprese» che coniughi etica e profitto economico? Quali sono i fattori dell’esperienza sociale, economica e politica in grado di spiegarla? E sono sufficienti tali fattori per realizzare un agire responsabile o questo resta una dichiarazione di principio da parte delle imprese più strategicamente orientate? E soprattutto qual è la razionalità oltre il mutamento e con quali risultati effettivi? Sono domande importanti nel dibattito attuale, che delineano una necessità non più rinviabile. In primo luogo per l’urgenza di dare una risposta alle problematiche che l’impatto economico, sociale ed ambientale pone nelle comunità, in secondo luogo per evitare che, essendo la responsabilità sociale dell’impresa un obiettivo di difficile realizzazione, non diventi un’operazione di facciata, un maquillage nelle prassi concrete dell’imprenditorialità. Non basta infatti enfatizzare temi come legalità, etica nell’economia e responsabilità sociale. «È invece possibile e opportuno – osserva l’Autrice – costruire una piramide concettuale in cui il rispetto delle norme costituisca una precondizione generale obbligatoria per lo sviluppo sostenibile, mentre la condivisione volontaria di comportamenti etici (anche attraverso disciplinari promossi dalle Istituzioni locali) costituisca il passaggio successivo che meglio valorizzi: da un lato, la capacità del soggetto pubblico di promuovere politiche e servizi per l’etica nell’economia, e dall’altro la responsabilità sociale, lo spazio successivo d’intervento non obbligatorio attraverso cui l’impresa opera dando un contributo concreto alla coesione sociale (es.: integrazione lavorativa di persone svantaggiate), ambientale (es.: attenzione al risparmio energetico) e civica (es.: attenzione mirata al consumatore)».

Tre livelli d’integrazione flessibili e dinamici, dunque, con i quali l’impresa assume la capacità di creare non solo ricchezza economica, ma anche sociale. Il grado di attenzione dovrà essere alto, per evitare che la corsa ad acquisire mutamenti solo di facciata spinga la promozione della responsabilità d’impresa nel vicolo cieco della strumentalizzazione e di un uso improprio dell’aggettivo sociale. È risaputo che la Enron, rea di uno scandalo finanziario senza precedenti, sia anche stata premiata in passato per essersi contraddistinta come impresa responsabile. E in casa nostra, basta citare il caso Unipol, impresa da sempre vicina al mondo del sociale. «La responsabilità sociale di una impresa – osserva senza mezzi termini la Iannone – si valuta quindi in modo corretto come scelta dell’impresa di agire e crescere nella dimensione partecipata e nella condivisione di uno sviluppo dell’azienda che muove dallo sviluppo e dalla valorizzazione del territorio e della comunità-rete-filiera-distretto in cui si colloca».

Un nuovo paradigma socio-economico insegna che territori economicamente deboli del Paese sono oggi anche socialmente illegali, ingiusti e culturalmente introversi. Sarà perciò importante e auspicabile che l’agire economico non sia finalizzato esclusivamente al profitto, ma spinga nel complesso ad un miglioramento della società. Però, «cartina di tornasole per un uso corretto del termine sociale è da sempre la dimensione della partecipazione, nelle scelte, nella rete, nella condivisione di una economia che è anche visione del territorio. Nella dimensione solipsistica della Responsabilità sociale d’impresa non c’è, di contro, nulla di partecipativo e quindi la società costituisce solo uno sfondo: il fondale di una recita». Il mutamento pertanto sarà reale solo se la razionalità retrostante ridefinirà non tanto in maniera apparente il rapporto tra valore economico e valore sociale, ma in maniera effettiva, mediante un nuovo rapporto partecipativo e costruttivo del tessuto sociale ed economico della comunità in cui l’impresa opera.