Reti sociali ed innovazione metodologica

Verso una nuova epistemologia delle scienze sociali

 

di Paolo Coluccia

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

 

Definire la natura sociologica e l’importanza

 politica delle relazioni sociali di accesso

è un lavoro ancora tutto da svolgere.

(Jeremy RIFKIN)

 

       1. «Si racconta la storia di un’isola in Qualche Luogo, in cui gli abitanti desideravano fortemente andare altrove... Il problema, tuttavia, era che l’arte e la scienza del nuoto e della navigazione non erano mai state sviluppate - o forse erano state perdute già da qualche tempo... E di tanto in tanto giungeva presso di essi qualche studioso. Allora si verificava un dialogo come quello che segue:

-           Voglio imparare a nuotare.

-           Che condizione poni per ottenere ciò?

-           Nessuna. Desidero solamente portare con me la mia tonnellata di cavolo.

-           Quale cavolo?

-           Il cibo di cui avrò bisogno dall’altra parte o dovunque andrò a stare.

-           Ma ci sono altri cibi dall’altra parte.

-           Non capisco cosa vuoi dire. Non sono sicuro. Devo portare il mio cavolo.

-           Ma con tanto peso addosso, una tonnellata di cavolo, non potrai nuotare.

-           Allora è inutile che impari a nuotare. Tu lo chiami un peso. Io lo chiamo il mio nutrimento essenziale.

-           Supponiamo, come in un’allegoria, di non parlare di cavoli ma di idee acquisite o presunzioni o certezze?

-           Mmmm... Vado a portare i miei cavoli dove c’è qualcuno che comprende le mie necessità».

Termina così il bel libro di Humberto Maturana e Francisco Varela L’albero della conoscenza (1999).

       Quante volte non ci è capitato, in forma diversa – seria o bizzarra –, di sentire risposte di questo genere sul tema dell’innovazione epistemologica e metodologica, ad ogni livello e nelle più svariate occasioni! Avventurarsi in mare aperto, sciogliere gli ormeggi, andare alla deriva, annullare ogni paradigma, ogni fondamento di certezza, di presunzione di sapienza, di conoscenza acquisita è sempre stato un atteggiamento visto con sospetto. Ci è difficile abbandonare la sicurezza per l'ignoto, la consuetudine per l’incertezza, la sapienza così faticosamente accumulata per l'innovazione.

Meglio  evitare!

       Abbiamo bisogno di portarci ovunque la nostra brava tonnellata di cavolo sulla schiena.

 

2. Contrariamente a quello che si pensa, alla costituzione di una rete si arriva per risultato, non per progetto. E spesso si arriva anche per caso (che guarda caso è proprio l’anagramma di caos). Perciò, come costituire o costruire una rete? È praticamente impossibile!

Se la rete non è un progetto, cioè un procedimento con cui si cerca di redigere e di prevedere ogni parte del processo, e quindi prevedere in anticipo ciò che si vuole fare, possiamo lanciare l’ipotesi che la rete sia un sistema. Un sistema, infatti, può rispondere autonomamente ai cambiamenti che si producono nell’ambiente. Pertanto, un sistema non è definiti, né definitivo, né preannunciato. Spesso, appena emerso, può naturalmente autoregolarsi nel corso di tutta l’evoluzione e per la sua durata.

Il sistema è dunque un insieme complesso (tante parti diverse, collegate e in relazione). Al contrario, un progetto è un susseguirsi di fasi, ordinate nello spazio e nel tempo, dipendenti gerarchicamente, ma soprattutto previste in anticipo.

A questo punto, possiamo azzardare una definizione idealtipica di rete: la rete è un gruppo di entità differenti che interagiscono liberamente, cioè per scelta o non scelta, che produce innovazioni e non semplice accumulo di informazioni ed è infinita, indefinita e autopoietica, come un sistema.

Internet è l’esempio tipico di una rete, prodotto complesso delle intelligenze umane, da cui è possibile attingere liberamente e che si può autonomamente implementare, arricchire, elaborare.

 

3. Per essere più chiaro, in riferimento alle reti sociali, cercherò di raccontare un’esperienza reale che risale agli anni 1997-1998.

Era da poco nato nella mia comunità un sistema di scambio locale basato sulla libera interazione di un gruppo di individui che intendevano praticare lo scambio di beni, servizi e saperi senza l’intermediazione del denaro, per studiarne gli effetti in una società monetizzata e per riscoprire il valore del legame sociale.

Il comportamento degli associati si basava sulla libertà di decisione di partecipare all’azione del gruppo e sull’obbligo autonomamente adottato di dare o di rendere prestazioni non retribuite in denaro agli altri aderenti che ne facessero richiesta.

Il sistema generava automaticamente l’informazione (ciascuno degli aderenti ne creava per sua parte) che immediatamente, per trasferimento in tempo reale, diventava comune. L’informazione era comune quando, a monte di essa ogni aderente dava e riceveva, liberamente e volentieri, una prestazione ed il gruppo, nel suo insieme, ne era a conoscenza.

Una contabilità minuziosa a partita doppia, costituita da unità di conto fittizie rapportate per il loro valore al tempo, ne assicurava la trasparenza.

Si cercò di implementare nella medesima comunità locale, sempre secondo gli stessi schemi concettuali, una rete di secondo livello, basata in un primo momento soltanto sul trasferimento dell’informazione. Si avanzò, pertanto, la proposta di una rete per lo sviluppo locale ad istituzioni, organizzazioni, gruppi ed imprese della comunità locale.

Seguirono alla proposta un paio di incontri nella sala di rappresentanza del municipio. Malgrado l’impegno espositivo profuso, non si riuscì ad esprimere e a far comprendere i fondamenti concettuali della costituzione di una rete, in cui l’informazione di tutti gli organismi (e soltanto l’informazione!) fosse resa comune.

Le imprese disertarono. Le associazioni di volontariato, sportive e culturali non andarono più in là di una semplice richiesta di contributo economico al comune. L’amministrazione comunale fece uno sforzo per capire, ma non andò oltre lo sforzo stesso di elargire qualche somma di denaro. Ne scaturì un consistente problema semantico: si parlavano purtroppo lingue diverse.

Far comprendere l’importanza e la convenzione di mettere in piedi un tavolo di parità (che non significava uguaglianza) costruito sui principio dell’interazione e della relazione sociale fu in quell’occasione molto difficile, se non addirittura impossibile.

Mi rendo conto che lo è ancora oggi, specialmente se gli organismi che intendono costituire una rete agiscono in un terso livello, che va oltre la sfera della comunità locale. Ma i princìpi e i concetti fondamentali non cambiano, se alla rete partecipano tre o più persone in un territorio limitato o vari organismi in una comunità o individui, organismi e soggetti sociali in un ambiente più ampio. L’ambiente, infatti, è un concetto astratto che può essere visto in modo ristretto o ampiamente dilatato (locale/globale), dove si confrontano identità, interessi, logiche ed azioni diverse. Ma nella sostanza non cambia.

 

4. Per ritornare al concetto di rete, l’interrogativo primario che ci si pone è il seguente: chi può aderire ad una rete?In linea teorica ogni organismo che intende agire nella comunità locale con le modalità d’intervento che gli sono più consone. I modi d’intervento sono differenti secondo l’organizzazione che per statuto li presuppone. Ogni organismo, pertanto, seleziona comportamenti ed azioni che ne definiscono la natura e la sfera di competenza.

In una comunità agiscono i servizi pubblici (che possono essere statali, cioè prodotti dallo stato e dagli enti pubblici, e non statali, prodotti da organizzazioni di vario genere che ne acquisiscono in determinate occasioni la funzione e la specificità), le organizzazioni legate al mercato, le famiglie, i gruppi formali o informali, le associazioni mutualistiche, culturali, sociali, no profit ecc.

 Ogni organismo che sceglie di aderire ad una rete porta la sua identità. Chi interagisce in una rete, non desidera disperdere o veder reprimere la sua identità. Ne è geloso. Questo vale anche per la altrui identità. Così è fatto salvo il pluralismo.

Se l’impegno di ogni organismo che aderisce alla rete è libero, nello stesso tempo è anche obbligato. L’impegno di ciascun organismo nella rete proviene da un atto di adesione (libero) e da una partecipazione (obbligata) rivolta alla costituzione dell’informazione comune, che può essere o meno utilizzata all’interno o all’esterno della rete.

In una rete pertanto si riconosce il pluralismo e si istituzionalizza il conflitto. Ma vi è totale assenza di autorità. Ognuno si relaziona e, eventualmente, interagisce con gli altri in modo paritario. La relazione tra gli organismi che vi partecipano è possibile, ma non obbligata. Il legame tra di essi non è di tipo affettivo né di tipo formalizzato, ma è soltanto possibile e relativo.

Il problema sta nel trovare una forma di interazione che concepisca l’informazione come bene comune, che rispetti le diverse identità e che sia lontana da logiche verticistiche e burocratiche e basata sulla libertà.

L’innovazione della rete sta nell’apportare legittimazioni incrociate delle diverse problematiche poste da ogni organismo. L’innovazione non è la somma delle varie identità né la supremazia di una sulle altre. Essa è il prodotto di una combinazione delle stesse, che non è nessuna di esse presa singolarmente, né la loro semplice somma, né la mera elencazione.

Quindi il prodotto è imprevedibile. Solo così il risultato è considerato un’innovazione.

Tra tante divergenze di interessi, di convinzioni, di strategie e di logiche, lo sforzo dell’informazione comune può portare alla possibilità di combinare tecniche, risorse, saperi e solidarietà con altrettante forme di tecniche, risorse, saperi e solidarietà, per il raggiungimento di un risultato imprevedibile e complesso, che può ancora a sua volta ricombinarsi con altri risultati e così di seguito...

 

5. Abbiamo parlato di reti di vario livello. Denominatore comune di ogni livello è comunque il linguaggio. Nella vita umana nulla può esistere al di fuori del linguaggio. Maturana sostiene che ogni cultura è una rete di conversazioni. L’identità dei membri di una cultura cambia e si modifica se le organizzazioni o gli individui che partecipano alla rete modificano le conversazioni che in essa avvengono. Il medium alla base della relazione dunque è il linguaggio. Mediante il linguaggio ogni individuo ed ogni organismo conversa con gli altri; mediante il linguaggio trasferisce al mondo le emozioni, i programmi e le risorse.

Le nostre emozioni, così come quelle degli altri, spesso si modificano in virtù delle nostre parole e le nostre parole, a loro volta, si modificano come risultato del cambiamento delle nostre emozioni. Quindi noi stessi siamo il prodotto di una complessità costituita da relazioni di parti e se la nostra vita coincide, consciamente o inconsciamente, con le nostre relazioni con gli altri, il nostro modo di vivere e la nostra condizione umana, sociale e politica, si costruisce nella trama delle relazioni con gli altri e con il mondo che costruiamo insieme con gli altri quotidianamente mediante la conversazione.

Il progetto della modernizzazione ha avversato e distrutto (e lo fa anche oggi, dove non è compiuto) la spontaneità delle relazioni, mediante la razionalizzazione esasperata di ogni istituzione ed organizzazione, per giungere al risultato estremo dell’individualizzazione della società. Inoltre ha obbligato gli individui a pensare che in ogni organizzazione e istituzione sociale debba esserci obbligatoriamente un capo, un presidente, un governatore, un vescovo ecc. Ma non si è andati più in là di strutture sociali come uno stato, una nazione, una chiesa (nei gradi alti), come pure (nei gradi più bassi) è avvenuto che tale struttura si sia manifestata nella famiglia, nell’ufficio burocratico, nell’impresa, nella scuola, in una associazione culturale o di volontariato.

Quanti contrasti non sono scaturiti da questa impostazione verticistica generale! Oggi, da circa mezzo secolo, non siamo più nell’era della modernità, ma in quella che possiamo tranquillamente definire della complessità. E la questione va vista diversamente.

I confini di ogni genere si sono dilatati, l’orizzonte presuppone che oltre alla sua linea ideale ce ne sia un’altra, un’altra ancora e così via all’infinito. La realtà è quella che appare a ciascuno di noi e che singolarmente percepiamo. Non esiste una realtà oggettiva, uguale per tutti, esistono tante altre possibili realtà, quante casualmente ed effettivamente possono realizzarsi nel tempo, nello spazio e nella nostra coscienza (un mix complesso, secondo Varela, di corpo, cervello, mondo).

Siamo consapevoli che la realtà è il regno del possibile. Caso, caos, possibile, complesso: questi sono i nuovi paradigmi a disposizione dell’uomo post-moderno. Proprio per questo, antropologia, psicologia, sociologia e politica sono in crisi, mancano di un’epistemologia. L’economia millanta credito: ma spesso si morde la coda! L’essere umano è  di fronte ad un Multiverso (per usare un termine caro a Maturana), che è tutto il contrario di un Universo.

 

6. Quali, dunque, i nuovi rapporti interindividuali, quali interazioni tra soggetti sociali, culture, istituzioni, organismi, nazioni e popoli? Se si rinuncia a visioni paternalistiche o a posizioni individualistiche estemporanee, non rimane che il riferimento al principio della reciprocità, ovvero della relazione tra equivalenti autodeterminati, tra pari. Con un mio libro intitolato La cultura della reciprocità. I sistemi di scambio locale non monetari (2002) ho voluto dare un piccolo contributo a questo concetto.

L’uomo del neolitico scelse progressivamente di passare dall’azione individualistica di raccoglitore e di cacciatore alla condizione relazionale complessa rappresentata dal vivere in gruppo, dedicandosi alla coltivazione e all’allevamento, per non estinguersi. È la prima forma di rete, di dialogo, di relazione umana che nasce. Le reti, i forum, i colloqui, i dialoghi, ma soprattutto i sistemi sociali e i sottosistemi che in essi si auto-referenziano poieticamente emergono dalla reciprocità, dallo scambio sociale, dall’interazione.

Ma volgiamo per un attimo l’attenzione al significato intrinseco della parola emergenza! Oggi, dopo il periodo affascinante, accattivante, unificante e omogeneizzante, ma anche perverso e contraddittorio, della modernità, ogni essere umano ha riacquistato la possibilità e la responsabilità di dire e di fare. Dicono, infatti, Maturana e Varela: «Ogni cosa detta è detta da qualcuno». Ciò vuol dire: «C’è responsabilità nel dire, della quale deve farsi carico chi dice, e una responsabilità dell’accettare ciò che viene detto, della quale deve farsi carico il mondo intero».

Da questa varietà multi-relazionale, di ogni dire e di ogni fare, scaturisce inevitabilmente un multiverso complesso e caotico di identità, concezioni, idee, culture. Questa è la rete (latente), la quale, come ho già avuto modo di dire, non si costruisce, ma emerge in modo ‘autopoietico’, che qualcuno confonde grossolanamente conspontaneo’.

 

7. Stiamo assistendo ad un cambiamento di paradigma straordinario nelle scienze umane e sociali, ancora in forte ritardo rispetto alle scienze fisiche e naturali, un cambio di prospettiva, un nuovo modo di intendere le aggregazioni, le relazioni sociali, economiche, culturali, lo spazio, il tempo, la misura, i luoghi, il territorio, il lavoro, la produzione, la politica, la storia, la pace e la guerra.

È una visione del mondo che ruota a 360°. Come ha detto Patrick Viveret: «Siamo di fronte ad un cambiamento d’era, d’aria, d’area». In lingua francese il gioco di parole è più facile: d’ère, d’air, d’aire. Vivere questo triplice mutamento significa concepire, assaporare, gustare l’epoca indefinita ed infinita della complessità.

Unica necessità inviolabile, per poterci sopravvivere, sarà la possibilità di accesso, di connessione, d’interazione. Come dice Rifkin, sarà indispensabile essere connessi a tutto e in ogni momento, ad ogni dire e ad ogni fare, non essere esclusi ed emarginati. Questo sarà possibile con un nuovo orientamento epistemologico, di tipo cognitivista-computazionale e connessionista.

Come ha spiegato il Varela, «il connessionismo, in particolare, ha reso possibile un’idea rivoluzionaria, quella delle tradizioni e dei ponti fra livelli esplicativi, più nota come filosofia dell’emergenza: la maniera in cui regole locali possono dare origine a proprietà o a oggetti globali in una casualità reciproca».

 

8. Occorre, pertanto, intuire e capire che il paradigma propositivo della rete non è il progetto, ma il sistema. Quest’ultimo si auto-organizza si sviluppa, in una parola, emerge. Non è semplice comprendere il concetto di emergenza.

È possibile identificare l’emergenza con il butterfly effect, per dirla con Lorenz, cioè con un battito di farfalla in Brasile che può provocare (è naturalmente un paradosso metaforico) un tornado nel Texas. Può, però, anche non accadere, ma con Internet, la rete delle reti, si è andati anche oltre.

Sulla nozione di emergenza s’indaga da pochi anni, a livello fisico, biologico, psichico e, molto di recente, anche sociale. I fenomeni di auto-organizzazione sono studiati da teorie che si definiscono della complessità, del caos, delle catastrofi. Dice Francisco Varela in una intervista rilasciata pochi mesi prima di morire: «Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un insieme di individui può diventare un gruppo sociale... Dunque, la nozione di emergenza è essenzialmente la nozione che ci siano in natura tutta una serie di processi, retti da regole locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate, danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica identità».

Il principio dell’identità, quindi, è di natura peculiare. Sostanzialmente l’identità è puramente relazionale, non ha una collocazione spazio-temporale, è come un pattern, privo di esistenza sostanziale e materiale, è una specie di interfaccia di collegamento con il mondo, mediante il quale si ha l’impressione di essere o meno conosciuti. «È un problema assolutamente essenziale, perché ciò che c’è di geniale nella nozione di emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a una attività cognitiva, dall’altro, come in tutti i processi di emergenza naturale, una volta che ha avuto luogo l’emergenza di una nuova identità, quell’identità ha degli effetti, ha delle ricadute (causalità discendente) sulle componenti locali».

 

9. Tutto questo è molto più evidente nella dinamica del mondo naturale. Ma incuriosisce ed in un certo senso affascina studiare e ad osservare fenomeni di emergenza in ambito sociale. «Sono fenomeni complessi: la maggior parte dei fenomeni emergenti sono detti non lineari, perché funzionano appunto su basi che non permettono la previsione, sono di tipo caotico». Il Ministero della Difesa degli Stati Uniti in piena guerra fredda non poteva assolutamente prevedere che il sistema di collegamento di due o più computer, messo su per ovviare ad interruzioni comunicative tra due soggetti su una linea comunicativa diretta, avrebbe fatto emergere il complesso sistema di comunicazione planetaria che è la rete Internet.

Dunque: il concetto di emergenza contiene una definizione difficile, pone un problema difficile. Le nuove epistemologie e le nuove metodologie indicano il sistema della rete capace di affrontare questo problema difficile, proprio quello rappresentato in termini allegorici dalla tonnellata di cavolo che ci obbligano, e spesso ci obblighiamo, a trasportare sulle nostre spalle di uomini post-moderni, ancora troppo moderni.

 

10. In sintesi, identificare, interiorizzare ed interpretare le varie informazioni provenienti dai vari organismi, significa adottare un’innovazione, fare rete, che non significa soltanto socializzare le informazioni, bensì combinare con il risultato di nuovi prodotti le informazioni che sono state socializzate con la comunicazione, mediante il linguaggio.

Certamente, senza la libera devoluzione della propria informazione da parte di individui ed organismi non si ha né lo stadio della socializzazione né quello della combinazione innovativa.

La rete, da questo punto di vista, non può essere vista come un semplice servizio per altri, quasi un contenitore di idee cui attingere, perché chi se ne serve in questo modo non innova, ma semplicemente cerca la sua utilità, soddisfa i suoi interessi.

Questo è nella logica del nuovo capitalismo, che viene definito informazionale (descritto da Viveret), figlio di quell’altra forma di capitalismo che nell’era industriale si appropriò dei processi di produzione, e che oggi cerca di appropriarsi delle informazioni, per cederle, mediante l’accesso e la connessione, a basso prezzo (almeno per ora).

È recente la bella notizia che i grandi padroni dei nodi dell’accesso a Internet chiederanno somme non certo irrisorie per i loro servizi (motori di ricerca, pagine web, e-mail ecc.), che fino ad ora hanno elargito gratuitamente a piene mani e sfruttato abilmente con il circuito pubblicitario e l’esclusività nel dominio. Siamo, però, ancora ad uno stadio di gestione rozza dell’informazione da parte dei «nuovi guardiani dell’accesso» (Rifkin, 2000) che vigilano sui nodi. I nodi sono i baluardi, le torri di questo nuovo capitalismo. In questi contenitori virtuali fluttua una gran massa di informazioni, che vengono normalizzate e rese disponibili ad un utente indefinito, ma reale, che in un modo o nell’altro paga. «Come nei rapporti di proprietà, anche le relazioni di accesso sono fatte per creare distinzioni: nel regime di proprietà, la distinzione è fra avere e non avere; nel regime dell'accesso, la differenza è fra chi è connesso e chi non lo è» (Rifkin, 2000).

 

11. Investire denaro in informazioni rende altro denaro, soprattutto a chi ne gestisce l’accesso. La rete diventa così una ragnatela: chi il ragno, chi la mosca? È un grande problema da portare alla ribalta nella odierna discussione. Ma ancora: quale libertà, quale democrazia se l’accesso si basa sul possesso? Ha detto Patrick Viveret: «Se il capitalismo informazionale utilizza le potenzialità dell’informazione digitalizzata, d’altro canto sotto-utilizza gravemente la formidabile fecondità dell’intelligenza umana, per colpa della sua perpetuata logica di dominio e di strumentalizzazione degli esseri umani... L’intelligenza umana non funziona senza desideri, a cominciare dal desiderio della curiosità che mette in movimento la nostra volontà di capire e di conoscere ciò che, inizialmente, ci è ignoto».

 

12. Non tutti arrivano a comprendere allo stesso tempo l’importanza dell’innovazione metodologica come prodotto combinato delle varie risorse. Possiamo definire una scala di priorità d’accoglienza: i primi possono essere visti come pionieri/innovatori, poi gli illuminati, successivamente arriva la maggioranza, infine i ritardatari.

Da ciò è facile intuire che il problema dell’innovazione è politico.

Ogni individuo, gruppo o organismo, in quanto membro della comunità locale-globale, da spettatore passivo (attore della modernità razionalista) entra in un luogo comune, definito o indefinito, per potersi relazionare ed interagire, al di fuori di ogni logica di ruolo e di posizione (autore nella post-modernità post-razionalista). Lasciamo appositamente inalterata questa terminologia di uso comune. Non è ancora possibile dare una definizione specifica alla nostra epoca.

La metodologia della rete interviene a sostegno del ripristino dell’innovazione epistemologica, che può scaturire soltanto da processi di relazione sociale. Nella rete nulla è lasciato allo spontaneismo dei vari soggetti, perché ogni soggetto che volontariamente aderisce porta la sua informazione. Né si tratta di una comunità virtuale, in quanto ogni soggetto è un aderente reale della rete.

Non ci si può porre obiettivi comuni: questo può avvenire solo in un gruppo e in un’organizzazione che si pongono in anticipo uno scopo, che stilano un progetto. Gli obiettivi dei soggetti aderenti alla rete non devono essere obbligatoriamente condivisi dagli altri.

Quando gli obiettivi dei vari aderenti convivono, interagiscono o confliggono, siamo in un semplice rapporto di condivisione, di relazione, di conflitto. Tutte queste manifestazioni si esprimono con il linguaggio e con la conversazione. Linguaggio e conversazione veicolano l’informazione che, diventata comune, può provocare o meno la comunicazione (azione-comune).

La comunicazione è dunque un problema della volontà dell’individuo singolo, dei gruppi e della moltitudine. È un problema che si può o non si può risolvere. Ecco perché una rete non si costruisce, ma si implementa.

È un problema metodologico di grande portata, che investe la nostra immaginazione e la nostra esistenza in maniera atipica e inusuale, ma anche le nostre emozioni e i nostri sentimenti, le nostre intuizioni e le nostre certezze. Ed è soprattutto un grande problema politico.

«Nel campo delle scienze sociali, gli studiosi post-modernisti affermano che lo sforzo moderno di creare una visione unitaria del comportamento umano ha prodotto solo ideologie classiste, razziste, colonialiste. La sociologia post-moderna mette l’accento sul pluralismo e sull’ambivalenza e predica la tolleranza per le infinite possibili trame che concorrono a comporre l’esperienza umana. Non c’è un regime sociale ideale a cui aspirare, ma una molteplicità di esperimenti culturali, ciascuno egualmente valido. Si rifugge dall’idea di un ineluttabile progresso lineare verso un ideale utopico condiviso: il post-moderno celebra la diversità delle esperienze locali che, nel loro insieme, costituiscono un’ecologia dell’esistenza umana» (Rifkin, 2000).

Immaginiamo solo per un momento quanto grande sia la difficoltà di concepire una rete basata su questi fondamenti e concetti persino a livello famigliare! Eppure parliamo quotidianamente di relazioni tra padri e figli, tra marito e moglie, tra generazioni diverse! Non ci deve pertanto stupire la maggiore difficoltà di concepire una rete a livello comunitario e societario! Pensiamo un po’ come può essere infinitamente complicato a livello planetario. Eppure, i fatti drammatici degli ultimi tempi, come la disintegrazione delle torri gemelle di New York, ne sono il triste esempio.

 

13. In conclusione, si può dire che la rete può solo accogliere (si badi bene: accogliere e non distribuire) e rendere trasferibili le informazioni, che gli interconnessi possono prendere o rifiutare, in un senso orizzontale di rapporti non disciplinati e non orientati ad uno scopo. In questo modo le informazioni transitano, si incrociano, si influenzano e formano un reticolo interazionale e interculturale di ampio spessore propositivo e concettuale.

Nella rete non esistono prevaricazioni, filtri, posizioni dominanti, poteri stabiliti o precostituiti. La rete non ha gerarchie, non ha classe dirigente, non ha pubblico cui destinare le informazioni, non rende un servizio. La rete è solo un circuito spazio-temporale infinito ed indefinito dell’informazione.

Nessuno perde l’informazione quando   la rende comune. Su questo presupposto si sta costruendo in maniera emergente la società dell’informazione e della conoscenza.

Chi fa della conoscenza e dell’informazione la propria professione raramente rimane implicato in una rete, ovvero spesso e volentieri pone resistenza alla cultura della rete. Oppure cerca la via più redditizia del capitalismo informazionale, dello sfruttamento delle informazioni. In questo caso le relazioni sono ancora mercificate, si fondano ancora sullo scambio di denaro. Si dimentica spesso che «la comunità sociale (cioè la cultura) precede il commercio... Il mercato è un’istituzione secondaria, non primaria» (Rifkin, 2000). Qui entra in campo il principio del dono, così profondamente descritto da Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono. Come fare ad includere l’altro, l’escluso, il resto dell’umanità nel proprio immaginario? «L’era dell’accesso costringerà ciascuno di noi a porsi delle domande fondamentali su come rimodellare le relazioni fra gli esseri umani» (Rifkin, 2000). «Sorprendentemente, osserva Jacques T. Godbout, il campo dell’intelligenza artificiale e delle scienze cognitive può fornire un punto di partenza per elaborare un modello di circolazione mediante il dono». Animare una rete, implementare una rete, imparare a fare rete significa accogliere il principio del dono.

 

14. Reti sociali e flussi di informazione in esse circolanti obbligheranno gli individui ad aprirsi ad un’inedita visione della società, che poggia inequivocabilmente le sue fondamenta sulla conoscenza e sulla comunicazione.

Non soltanto gli individui, ma anche e soprattutto i governi (locali, regionali, nazionali ed oltre), le pubbliche amministrazioni, le istituzioni, le organizzazioni, le imprese dovranno aprirsi all’innovazione. A tutti l’onere di fondare pratiche democratiche, interculturali, di coesione sociale, d’accesso non discriminato alle informazioni. Solo così si darà atto alla formulazione e alla formazione di reti, per nulla burocratizzate, il più possibile orizzontali e senza vertici fondati sulle classiche manifestazioni di potere.

Tali reti possono garantire simultaneamente conoscenza e comprensione per l’umanità. Una domanda concreta di giustizia sociale, per ogni individuo e ad ogni livello può riscontrarsi nella effettiva ed economica possibilità di connessione a qualsiasi rete che detiene informazioni (Businaro, 2001) . Lo stato dovrebbe garantire questo diritto, ma è legittimo dubitare che la lungimiranza degli uomini politici che reggono le sorti degli stati sia rivolta alla tutela del diritto di accesso.

È perciò inevitabile e necessario un incremento di opzioni paradigmatiche nella società postmoderna. Il paradigma del dono può essere di soccorso. Infatti: «Il dono ci introduce in una rete universale», conclude Jacques T. Godbout, che, in fondo al suo libro più famoso scritto insieme con Alain Caillé, Lo spirito del dono, riporta questa allegoria buddista: “Una rete infinita estesa sull’universo, di cui i fili orizzontali attraversano lo spazio e i fili verticali il tempo. Ad ogni intersezione dei fili si trova un individuo, e ogni individuo è una perla di cristallo. La grande luce dell’Essere assoluto illumina e compenetra ogni perla, che riflette non solo la luce di tutte le altre perle della rete ma anche il riflesso di ciascuno dei riflessi dell’universo” (1993).