Donne, famiglia e diritti civili nella Turchia moderna
di Lucia C. Antonazzo
La Turchia è una giovane nazione nata nel 1923. Il suo fondatore, Mustafa Kemal Atatürk, volle distruggere tutti i ponti che la legavano al passato, in particolar modo all’Impero ottomano. Inoltre, volle eliminare da ogni manifestazione della società tutto ciò che aveva a che fare con la lingua araba.
Per la prima volta nella storia, si passò da uno stato islamico ad uno stato laico. In questo quadro, si inserirono le riforme che riguardarono le donne in particolare e il concetto di famiglia in generale.
1. L’emancipazione femminile fu una
priorità kemalista. Le donne ottennero diritti politici, che talvolta precedettero
quelli delle democrazie classiche, ma cambiò anche il loro modo di esistere
socialmente. La poligamia fu abolita, cambiò il diritto di successione,la
testimonianza davanti ai tribunali, l’educazione, l’esercizio di un mestiere.
Nel 1932 fu eletta la prima donna giudice e
si adeguò la Costituzione al nuovo Codice, con il risultato che le donne avrebbero
avuto gli stessi diritti di elettorato attivo una volta compiuti i diciotto
anni, come gli uomini; il diritto di essere elette all’Assemblea fu sancito nel
1934.
La donna perse la sua tradizionale inferiorità: si abbandonò il velo e la presenza femminile nelle scuole, nelle università e negli uffici divenne una realtà concreta.
Ci si trova di fronte ad un processo accelerato di trasformazione promosso dall’alto, che non va di pari passo con il cambiamento della mentalità, ancora tradizionale.
Questa mentalità era ancora legata al concetto tradizionale di famiglia, ossia alla struttura di famiglia musulmana, in cui vi sono dei ruoli ben definiti. L’uomo assume l’onere del mantenimento e delle relazioni con il mondo esterno, la donna assume l’onere della cura e dell’organizzazione della casa. La legge islamica considera il matrimonio un semplice contratto privato tra le parti. Per contrarre un matrimonio è sufficiente la presenza di due testimoni maschi (uno di essi può essere sostituito da due donne)[1] e il versamento di una dote, accordata tra le parti, che deve rispettare la condizione economica di provenienza della donna. Una donna può accettare di sposarsi con una dote inferiore a quella dovuta, in cambio, per esempio, della garanzia che l’uomo non contragga un successivo matrimonio. Un musulmano può sposare un’ebrea o una cristiana, ma ciò non è permesso alla donna musulmana[2]. Il matrimonio, secondo la legge islamica, è un’istituzione che privilegia la sfera della riproduzione, non quella dell’amore. Ad un uomo non è richiesto di amare la propria moglie, ma di trattarla con giustizia. Il mantenimento dei figli è esclusivo dovere dell’uomo. La famiglia musulmana ha una struttura monolitica e patriarcale. Essa, pur dominata dall’uomo, costituisce un sotto-universo femminile, con le proprie gerarchie e regole. Nella famiglia turca la figura femminile, soprattutto quella anziana, esercita, se pure in modo sottile e non esplicito, una grande influenza sulla sua controparte maschile.
La patrilinearità musulmana pone l’enfasi sulla discendenza maschile, sia lineare (padre, nonno, bisnonno) sia laterale (fratelli, cugini). La struttura familiare islamica rafforza l’uomo, responsabile dell’ordinato funzionamento della ümmet,con mezzi istituzionalizzati di dominio sulla donna e di controllo sulla sua sessualità. Se uno dei mezzi di questo dominio è fornito dalla segregazione delle donne nella vita domestica, intervengono anche altri usi, più sottili e carichi di violenza psicologica, come la poligamia e il concubinaggio delle schiave. All’interno della vita familiare è permessa all’uomo non solo la soddisfazione, «ma la totale saturazione del suo desiderio»[3]. Se le sue condizioni economiche glielo permettono, è permesso all’uomo di avere fino a quattro mogli e un numero imprecisato di schiave-concubine. La legge, però, regola questa istituzione: innanzitutto, né la poligamia, né l’uso delle schiave, sono incoraggiati, ma solo consentiti. Inoltre si opera una differenza tra lo status della moglie e quello della schiava: le mogli hanno diritto ad un equo numero di notti coniugali con il marito, mentre le schiave non godono di diritti propri.
Comunque, nell’İstanbul del tardo XIX secolo appena il 2% circa degli uomini sposati risultava poligamo, generalmente con due mogli e con la netta tendenza a farle vivere in sedi separate. Anche se gli studi sulla storia demografica delle società musulmane sono ancora in una fase embrionale, alcuni dati finora emersi indicano che nel confronto con le altre aree del Medio Oriente la struttura familiare nell’area centrale dell’Impero ottomano tendeva ad assumere dimensioni relativamente ristrette e, pertanto, si nota una netta tendenza verso famiglie di tipo nucleare. Anche se gli studiosi segnalano profonde differenze tra le famiglie passando da una regione ad un’altra, dalle città alle zone rurali, da una classe sociale all’altra, nel contesto turco-ottomano la famiglia multipla risulta essere un fenomeno riservato all’élite che, sia nelle zone rurali sia in quelle urbane, viveva in grandi case, che ospitavano più di una generazione. Secondo i dati che risultano dall’unica ricerca socio-demografica compiuta a İstanbul negli anni tra il 1884 e il 1906, le famiglie estese costituiscono il 16% del totale.
Il matrimonio è concepito come un’unione tra famiglie. La scelta della sposa è affidata alla madre del futuro marito, ma la decisione ultima spetta al patriarca. Nella famiglia elitaria ottomana estesa a tre generazioni vi è una forte gerarchia femminile, costituita in base allo status e all’età. Il gradino più basso di questa gerarchia è occupato dalle schiave-concubine. Queste sono seguite dalle mogli, la cui importanza è relativa all’ordine temporale dei loro matrimoni e al sesso della loro prole. Di norma, in una famiglia patriarcale turca, la nuora entra molto giovane ed è subordinata non solo all’autorità dei maschi, ma anche a quella delle donne più anziane, specialmente della suocera. Diventare madre, soprattutto di un figlio maschio, costituirà la sua garanzia per la vecchiaia e la possibilità di raggiungere una posizione di potere nei confronti della generazione successiva. La dipendenza del potere domestico femminile dalla lealtà del figlio maschio, fa sì che la madre si configuri come uno dei principali ostacoli alla realizzazione di un’unione matrimoniale in grado di soddisfare adeguatamente i bisogni emotivi di una coppia di sposi. La madre, infatti, farà di tutto per assicurarsi la complicità del figlio e per impedire che egli stabilisca un rapporto di complicità all’interno della coppia coniugale.
2. Passare da questo tipo di famiglia tradizionale ad un nuovo tipo di famiglia moderna, non fu cosa facile. Realizzare un rapporto uomo-donna che corrispondesse alle idee dei riformatori ottomani era abbastanza complicato, poiché richiedeva una profonda rivoluzione sociale e culturale, per la quale essi stessi non erano pronti. Così si creava un circolo vizioso: la figura femminile, che per incarnare le nuove aspirazioni doveva affrancarsi dai condizionamenti delle strutture patriarcali, suscitava terrori atavici. Bisognava ridefinire l’autorità maschile e nello stesso tempo definire le contraddizioni interne a tale processo. Gli intellettuali del periodo delle Riforme, pur aspirando a realizzare un matrimonio paritario, pur scegliendo direttamente mogli istruite e facendosi guidare dall’amore, «finirono per proporre la continuità delle relazioni tradizionali, in primo luogo del concubinaggio»[4]. La difesa dell’onore della famiglia continuò ad essere considerata il principale ruolo dell’uomo. Alle donne continuò ad essere richiesto di garantire, con il loro corpo nascosto, l’integrità sociale.
Un nuovo modello di identità maschile fatica a nascere, costretto com’è a confrontarsi con l’eterno altro da sé. In tutte le riflessioni e in tutte le rappresentazioni simboliche di genere il punto di vista rimane unico: quello dell’uomo che non riesce a confrontarsi con la donna. Gli uomini, in qualità di scrittori, riformatori o padri, mariti e amanti, scrutano i problemi non nella propria coscienza, non nelle proprie reazioni, ma nel loro altro, nelle donne. E le donne, fatto oggetto di riflessione o di rappresentazione, racchiudono non se stesse e la loro vita reale, bensì le paure e le aspirazioni maschili.
Nel 1917 fu promulgata un’importante legge sulla famiglia (Hukuk-u Aile kararnamesi). La legge era un completamento del Mecelle, il Codice civile ottomano, ed era un primo tentativo, compiuto da uno stato musulmano, d’intervenire nella sfera privata[5].
La legge, essendo indirizzata alla realtà multinazionale e multireligiosa ottomana, conteneva ancora norme della Şeriat, ma anche tanti elementi presi dalla giurisdizione ebraica e da quella cattolica, nonché dal diritto europeo. La maggiore novità era l’obbligo di registrazione del matrimonio di fronte all’autorità amministrativa. La richiesta del matrimonio doveva avvenire un certo numero di giorni prima della cerimonia e se vi fosse stato impedimento o costrizione, il matrimonio sarebbe stato annullato. L’uomo doveva avere almeno diciotto anni e la donna diciassette. In caso contrario, serviva un permesso speciale del giudice. La legge voleva colpire la pratica dei matrimoni combinati e li sottraeva alla legge della Şeriat, delle chiese e delle altre autorità religiose.
La motivazione della legge si fondava sulla necessità d’intervenire negli affari di famiglia per garantire i diritti delle donne. La legge, infatti, pur lasciando la situazione un po’ a favore dell’uomo, introduceva dei miglioramenti per la donna: al posto del ripudio, metteva la possibilità, per entrambi, di richiedere lo scioglimento dell’unione di fronte all’autorità giudiziaria. La legge prevedeva un arbitraggio, composto da due persone, una per la donna e una per l’uomo.
Per quanto riguarda la poligamia, la legge conteneva solo la possibilità, per la donna, di richiedere al marito, nel contratto matrimoniale, di non prendere una seconda moglie. Già questa clausola fu accolta come uno scandalo dalla comunità musulmana. Questa legge, comunque, fu in vigore solo due anni.
3. Si dovette aspettare il 1926, quando Atatürk scelse il Codice civile svizzero (in vigore in Svizzera dal 1912), per far sì che la famiglia uscisse nuovamente dalla giurisdizione religiosa. Il nuovo Codice ripudiava gli strumenti di violenza fisica e sessuale detenuti dall’uomo nel vecchio tipo di famiglia. La poligamia era abolita e obbligava l’uomo ad accontentarsi di una sola moglie, anche perché la schiavitù era stata in precedenza abolita. Poneva limiti di età e vietava il matrimonio tra parenti stretti. In caso di divorzio, le parti dovevano aspettare trecento giorni prima di risposarsi e il giudice poteva obbligare la parte più forte economicamente a versare un assegno alla parte più debole. All’uomo rimaneva il diritto di decidere il luogo della residenza familiare, la potestà sui figli ed, inoltre, aveva il diritto di dare o meno il permesso alla moglie d’intraprendere un’attività lavorativa.
Secondo Kemal Atatürk, la famiglia è il nucleo più importante della società e la donna trova la sua più piena realizzazione nella maternità. Nel regime repubblicano era creato e rafforzato il culto della sfera domestica: per un esponente della classe media, passare il tempo libero in casa, insieme ai membri della famiglia, senza distinzione e barriere fisiche tra l’ambiente maschile e quello femminile, era segno di modernità.
L’inclusione dell’uomo nella vita casalinga, senza il superamento delle barriere mentali e psicologiche che rendevano permanente una forte distanza tra i sessi, introduceva la conflittualità uomo-donna in una sfera finora protetta. Per la donna la presenza dell’uomo costituiva un’intrusione a cui non era abituata e rendeva più debole il suo dominio domestico; per l’uomo, invece, ciò comportava molte incertezze, che andavano ad intaccare la sua identità. L’uomo moderno turco viveva con difficoltà questa situazione nella vita domestica e spesso manifestava un senso di noia e di costrizione.
La società si trovò così a dover fare i conti con le sue dinamiche interne. Fino a quel momento l’identità maschile e l’identità femminile avevano caratteristiche precise. I kemalisti proponevano come modello di mascolinità quello tipico delle classi medie francesi. L’imposizione di un modello avulso dalla realtà e del tutto a-storico produsse non pochi problemi nella definizione dei ruoli e degli spazi.
4. Atatürk incitava gli uomini a favorire
l’emancipazione femminile, ad impedire atteggiamenti di sottomissione da parte
delle donne, persino in occasione del passaggio di un uomo. Mustafa Kemal
sosteneva che la nazione, per garantire un rapido progresso, doveva mobilitare
tutte le sue forze e aveva bisogno del contributo delle donne, perché ogni
società è fatta in eguale misura da uomini e donne. Egli affermava: «È mai
possibile che, mentre la metà della popolazione è incatenata, l’altra metà
arrivi alle vette? Il progresso è possibile solo attraverso un comune sforzo;
solo così possiamo superare con successo i vari stadi dello sviluppo»[6].
Mustafa Kemal sosteneva che la nazione per garantirsi un rapido progresso aveva
bisogno di tutte le sue risorse e, quindi, anche del contributo delle donne,
perché «nessun organismo può camminare veloce con una gamba sola».
La realizzazione di una società moderna doveva passare attraverso l’inclusione della donna nella sfera pubblica. In questa direzione le condizioni della guerra avevano contribuito a enormi passi in avanti. La partecipazione delle donne alla guerra, se pur limitata, aveva eliminato una certa tensione tra i due sessi, poiché, nella difesa della patria, uomo e donna erano due combattenti alla pari. Ora bisognava allargare le basi di questa partecipazione e di adattare il tutto alla vita normale. Mustafa Kemal introdusse nuove situazioni che tendevano ad eliminare la segregazione di genere, cioè quella divisione netta degli spazi che fino ad allora era stata la regola. Si organizzarono lezioni di ginnastica nelle piazze della nuova capitale (Ankara), concerti di musica classica e rappresentazioni teatrali. Si sollecitarono occasioni mondane, balli e ricevimenti, in cui gli ufficiali dovevano presentarsi con le mogli.
Ogni iniziativa era presa per realizzare
idee di parità di genere. Atatürk aveva spinto la figlia adottiva Afetinan a
studiare le teorie sottese ai movimenti per i diritti delle donne nel mondo
occidentale e le modalità del voto femminile. Ma, la mattina in cui il
Parlamento doveva deliberare sul diritto di voto per le donne turche, la chiamava
a baciare la mano ad İsmet İnönü, primo ministro, per ringraziare, in
nome di tutte le figlie, la bonaria concessione paterna. Il patriarcato
resisteva sotto altre forme: in questo caso sotto l’autorevolezza paterna. Le
figlie si emancipavano sotto lo sguardo vigile dell’autorità paterna e sotto la
protezione di Mustafa Kemal, il padre di tutti i Turchi. I padri della nazione
mostravano la loro predilezione per le figlie femmine: Atatürk aveva adottato
molte bambine, che incoraggiava personalmente ad acquisire competenze
professionali allo scopo di usarle per innalzare il livello morale e materiale
della nazione.
5. Nel 1934 le donne turche – tra le prime
in Europa – ottennero tutti i formali diritti politici.
Durante la prima Repubblica, le donne
«achieved their highest level of representation in parliament»[7]. Nel
1937, durante le elezioni generali, a seguito del diritto di suffragio delle
donne conseguito nel 1934, furono elette deputate 18 donne, che rappresentavano
così il 4,5% dell’Assemblea Nazionale. Nello stesso periodo, alle donne
francesi non era stato ancora concesso il diritto di suffragio e le donne
inglesi, che avevano combattuto violentemente per i loro diritti politici, avevano
raggiunto soltanto una piccola rappresentanza in Parlamento, tra lo 0,1% e il
2,4% nel periodo 1934-1935[8]. Mai
più, però, fu raggiunto un numero così alto nelle elezioni successive.
In Turchia, oggi, esiste un gran fermento di idee e di movimenti femminili. Dalla nascita della Repubblica fino ai nostri giorni, tante e varie sono state le associazioni. Spesso, le idee portate avanti dalle donne sono state incanalate in un’ideologia di partito. Le donne, però, hanno voluto affrancarsi da un marchio politico e hanno deciso di lottare al di fuori di un canale prestabilito per far emergere problemi comuni a tutte. Una delle più grandi manifestazioni, a cui parteciparono oltre 3.000 donne, si tenne ad İstanbul nel 1987 per protestare contro la violenza fisica (spesso bastonate) sulle mogli. Per la prima volta le donne protestavano contro qualcosa che le riguardava direttamente e non contro la guerra, il fascismo o altro. Queste proteste continuarono con una campagna di condanna per le molestie sessuali nei confronti delle donne sul posto di lavoro, per strada e a casa. Nel 1989 ad Ankara si tenne il Primo Congresso Femminista, che stilò un documento, in cui si affermava che l’oppressione femminile è molteplice e che tutte le istituzioni sociali dominate dall’uomo – famiglia, scuola, stato e religione – hanno soggiogato il potere delle donne, i loro corpi e le loro identità.
Il femminismo, comunque, non è nato nel
secolo appena passato, bisogna dire che l’ultimo periodo dell’Impero ottomano
rivelava già un fermento eccezionale riguardo ai diritti delle donne. A causa
della trasformazione dell’alfabeto, con
la sostituzione delle lettere arabe con le lettere latine, le giovani
generazioni di oggi non hanno accesso a parti importanti della loro storia,
perché non sono in grado di leggere quella letteratura, ed è difficile per i
giovani immaginare quanto fossero impegnati e soprattutto coraggiosi quei
movimenti di donne e quante similarità ci fossero con i movimenti femministi di
oggi.
[1] PICCARDO Hamza Roberto, (a
cura di), IL Corano, Newton &
Compton Editori, Roma, 1996, p. 63, Sura II, 282: «Chiamate a testimoni due dei
vostri uomini o, in mancanza di due uomini, un uomo e due donne, tra coloro di
cui accettate la testimonianza in maniera che, se una sbagliasse, l’altra possa
rammentarle».
[2] PICCARDO Hamza Roberto (a
cura di), Il Corano, cit., p. 109,
Sura V, 5: «Oggi vi sono permesse le cose buone e vi è lecito anche il cibo di
coloro ai quali è stata data la Scrittura, e il vostro cibo è lecito a loro. Vi
sono inoltre lecite le donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu
data la Scrittura prima di voi, versando il dono nuziale – sposandole, non come
debosciati libertini!».
[3] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, Strutture patriarcali
nell’ Impero ottomano e nella Turchia moderna, Bruno Mondatori, Milano
2001, p. 35.
[4] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 97.
[5] La legge comparve nella
Gazzetta Ufficiale ottomana e, tradotta in francese, fu pubblicata ad
İstanbul. Al momento dell’approvazione di questa legge, lo Stato ottomano
era già in crisi: la legge sulla famiglia
incontrò la feroce opposizione delle autorità religiose in tutte le
comunità e, dopo essere rimasta in vigore per solo due anni, con gli interventi della Gran Bretagna e
della Grecia, che occupavano İstanbul,
fu abrogata nel 1919. Così
l’istituzione matrimoniale turca rientrò nella giurisdizione musulmana e fu
regolata, fino al 1926, dai dettami religiosi.
[6] M. S. İMECE (a cura
di), Atatürk’ün şapka devriminde
kastamonu ve İnebolu seyahatleri (1925), Ankara 1959, in SARAÇGİL
Ayşe, Il maschio camaleonte.
Strutture patriarcali nell’Impero ottomano e nella Turchia moderna, Bruno
Mondadori, Milano 2001, p. 174.
[7] KANDİYOTİ Deniz, End of Empire: Islam, Nationalism and Women
in Turkey, in Stesso Autore (a cura di), Women, Islam & the State, Macmillan Press Ltd, London 1991, p.
41. Traduzione: «Raggiunsero il loro livello più alto di rappresentanza
in Parlamento».
[8] TEKELİ Şirin, Women in Turkish Politics, in ABADAN
UNAT Nermin, Women in Turkish Society, Leiden
1981, p. 299.