Il lavoro come “fatto” sociale

Morfogenesi sociale e principi di una teoria relazionale del lavoro

 

 A cura di Paolo Coluccia (paconet@libero.it)

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Le riflessioni e le note che seguono scaturiscono dagli appunti presi durante la lettura del libro di Pierpaolo Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in un’economia dopo moderna, (Bollati Boringhieri, Torino 2001). Non c’è pretesa di scientificità nel nostro lavoro, ma il nostro testo vuole essere uno strumento minimale di conoscenza e un invito alla lettura integrale del libro, per una conseguente e ulteriore riflessione ed approfondimento personale  degli argomenti in esso trattati.

 

 

Una rivoluzione di significato

Si può ipotizzare una morfogenesi sociale del lavoro, dove la stessa dis/in/occupazione può essere considerata “un fatto sociale”. Siamo di fronte ad una profonda rivoluzione nel lavoro, caratterizzata da incertezza del lavoro, insicurezza nell’accesso al lavoro, perdita dell’occupazione, precarietà del modello di sviluppo. Il lavoro sembra essere diventato una merce come tutte le altre: una merce “usa e getta”.

Nella tradizione che va da Aristotele al fordismo, passando naturalmente in tempi recenti da Marx, Weber e Durckeim, il lavoro è stato sempre considerato come un fatto economico, legato alla produzione. Oggi, osserva il nostro Autore, sembra “emergere” dalla, e sembra basarsi sulla, “relazione sociale” (p. 17). Sono intervenuti due fenomeni sociali di grande portata legati ai processi di globalizzazione economica e sociale in atto: “la precarizzazione del lavoro su scala universale e una radicale mutazione dei nessi fra lavoro e agire sociale” (p. 14). Stiamo assistendo ad una profonda trasformazione del senso del lavoro, rivoluzione che muta alla base la sua intenzionalità, il suo significato e la sua utilità.

L’economico e il sociale evocano “due ‘mondi’ di significati, due livelli di realtà che si differenziano e nello stesso tempo si intrecciano sempre più fra loro” (p. 15). Difficoltà, complessità, trasformazioni, flussi e disagi che riguardino il lavoro possono essere compresi “solo se si assume un approccio relazionale al lavoro” (p. 16) e se si osserva come processo di un fenomeno morfogenetico, e quindi carico di tutti gli imprevisti socio-evolutivi e di ogni imprevedibile significazione.

 

Mancanza di una teoria relazionale del lavoro

Il lavoro si rappresenta con l’immagine del fare, in un insieme di relazioni sociali, economiche e istituzionali. È raro che venga visto come una relazione in se stessa: lavoro come servizio, con conseguente umanizzazione del lavoro, un coessere/relazione sociale complessa. Proprio per questo “manca una teoria sociologica generalizzata del lavoro come relazione sociale” (p. 17). Naturalmente tutto questo presuppone, e rimanda allo stesso tempo ad una nuova “filosofia del lavoro”, imperniata non più nel fare (produzione), bensì sull’essere con (relazione, coessere). Questo dovrebbe portare “a una ridefinizione dell’approccio umanistico al lavoro” (p. 17). Certo, manca una teoria “sociologica” relazionale del lavoro, perché, riguardo ad una teoria “filosofica” relazionale del lavoro già si è espresso A. Colombo nel capitolo sulla Liberazione del lavoro contenuto nel volume Le società del futuro (Dedalo, Bari 1978).

“Solo una visione del lavoro come relazione sociale nella quale è inclusa una comunicazione ‘altra’ rispetto a quella del mercato capitalistico (tipicamente moderno) può farci comprendere il senso e le funzioni del lavoro nella società del prossimo futuro, fuori dalle alienazioni moderne e postmoderne” (p. 17). Di conseguenza: “Intendere il lavoro come relazione sociale apre orizzonti inediti per gli anni futuri” (p. 17). Libertà e lavoro: sembra essere un binomio imprescindibile, la cui urgenza è rappresentata dalla liberazione della persona umana da certe forme di lavoro mercificato, alienante o, nel migliore dei casi, strumentale/adattativo. Tutto ciò impone di ripensare, non tanto una libertà dal lavoro (come non lavoro tout court), ma una libertà del lavoro, che si sceglie, si definisce e si regola autonomamente e insieme con gli altri in modo autosotenibile e relazionale.

 

Lavoro come relazione

Sembra emergere un nuovo paradigma del lavoro. In epoche pre-moderne il lavoro era soprattutto attività servile relegata agli schiavi, ai servi; in epoca moderna è stato attività di produzione mercificata di operai in fabbrica con uso di macchine; nell’epoca in “emergenza” si prefigura come attività sociale fatta di reti e di relazioni sociali integrate basata su un’autonomia, un servizio e una libertà di scelta. Anche se in maniera molto rarefatta “siamo in presenza del ‘lavoro che emerge’... di lavoro societario” (p. 20), la cui emergenza si caratterizza come fenomeno globale, che vive di società e, nello stesso tempo, costruisce società.

Il passaggio cruciale avverrà quando non ci si limiterà più a “produrre” per esempio servizi di cura da destinare agli altri come merci a pagamento regolate da accordi economici e politici, ma quando tramite un’azione reciproca di soggetti (coessere) si interagirà come “produttori-distributori-consumatori” (p. 21). Questo è un punto cardine del ragionamento e presuppone un vero e sostanziale cambiamento paradigmatico del concetto lavoro nei termini di una teoria della relazionalità socio-filosofica. “Questa nuova relazionalità del lavoro ne esalta i significati simbolici, quindi morali, oltre che cognitivi e affettivi, e ha importanti ripercussioni anche sulle dimensioni più materiali della vita. Richiede una nuova cultura contrattuale, quella dei ‘contratti relazionali’. Modifica tutti i sistemi previdenziali e di sicurezza sociale legati al complesso dei diritti-doveri di cittadinanza” (p. 22.).

La dinamica di reti di produzione-distribuzione-consumo è un fenomeno complesso emergente, che però è destinato, seppur lentamente e gradualmente, a sostituire i processi del lavoro-produzione-consumo di tipo fordista, in un futuro che non sarà privo di lavoro-occupazione, ma che al contrario sarà pieno di lavoro societario che libererà le persone da ogni alienazione, precarietà, sfruttamento, perché s’integrerà su attività lavorative fondate su azioni e relazioni sociali, dove tutti gli altri saranno causa ed effetto del lavoro emergente.

 

Lavoro come “fatto sociale”

“Dire che il lavoro è ‘un fatto sociale’ significa osservare che esso implica rilevanti dimensioni economiche, politiche, giuridiche, ma non è riducibile ad alcuna di esse” (p. 27). In verità, si trova in tutte queste dimensioni sociali e nello stesso tempo le collega e le divide. Infatti, il lavoro come “fatto sociale” non è prerogativa della sfera politica o di quella economica e tanto meno di quella giuridica (si pensi alla forzatura di marca giuslavoristica degli ultimi anni per determinare un nuovo statuto del lavoro!). Il lavoro, in quanto fatto sociale che vive di, e costruisce, società “risulta essere un fatto della ‘vita morale’” (p. 27), un dimensione complessa della vita sociale nel suo insieme, riferito sia alle persone sia alla stessa società. Erroneamente si tende a vedere il lavoro come un sottoprodotto di altri fattori sociali, determinati e determinanti, ma il lavoro del futuro non potrà che essere il fattore sociale che determinerà l’intera società, anche se su concezioni e presupposti diversi. Si pensi, infatti, che anche per il fatto che il significato corrente di lavoro si concentri sul “fare”, già questo sottintende un legame sociale complesso, “una trama di rapporti” e “possiede un’intima costituzione relazionale” (p. 52nota).

Dall’etica servile del lavoro all’alienazione moderna del lavoro, dall’ambiguità di fondo del pensiero religioso-medievale del lavoro alla visione precarizzata e adattativa del lavoro nella tarda modernità, oggi la ricerca sul lavoro è orientata a discernere in una società complessa e magmatica (per usare rispettivamente due termini di Morin e di Castoriadis) un’idea di lavoro che non sia più strumentale o codificata nei termini servo/padrone, ma capace di saper “generare e rigenerare umanizzazione nelle relazioni di scambio” (p. 47).

Se una relazione sociale è, nella sequenza dello schema AGIL (Adaptation, Goal, Integration, Latency), un insieme di quattro dimensioni integrate:

-         A = economiche (mezzi di lavoro)

-         G = politiche (scopi, intenzioni)

-         I = sociali (regole, norme)

-         L = culturali (valori, significati)

Allora, non si potrà in alcun modo ridurre il lavoro “ad una di queste singole dimensioni” (p. 48), come è accaduto fino al fordismo. “Nella semantica relazionale, invece, il lavoro viene osservato come la relazione dall’interazione fra le quattro componenti” (p. 49).

 

Per una storia del lavoro

La società antica, riguardo al lavoro, è sostanzialmente statica, classista e basata sulla sussistenza. Nella Bibbia il lavoro è una condanna; in generale il lavoro è fatica, servitù, schiavitù.

Nella cultura romana il labor delinea il lavoro come fatica, consumo; mentre l’opus è il lavoro come attività di facoltà umane superiori. Persiste una stratificazione sociale in classi, che va dagli aristocratici ai servi. La linea sociale è dominus/signore – domus/casa – ager/campo – familia/famiglia – servus/servo.

Nell’epoca dei Comuni c’è un risveglio dell’agire sociale e “prende corpo una semantica civile” (p. 58). Vi trovano posto parole come singoli, associati, scambi, intrapresa, creatività, gilde, corporazioni. La vita attiva va di pari passo con la vita contemplativa. Il lavoro è rivalutato, tanto da essere definito “civile” e “umano” (vita activa civilis). Sarà la teologia protestante a vedere il lavoro come ascesi ultraterrena.

Nella società moderna, individualizzata e conflittuale, cultura e lavoro sono categorie di pensiero disgiunte. Il lavoro rientra nell’ideologia borghese e diventa professione (weber) e lì s’innesta con il pensiero marxiano. Entrambe le visioni vedono una società del lavoro, una società di mercato basata sul lavoro. “Questa nuova concezione del lavoro accompagna la rivoluzione scientifica dei secoli XVI-XVII e anticipa quella che, dal secolo XVIII in poi, si manifesterà come emergenza strutturale-culturale della società civile (intesa come mercato)” (p. 60).

Sia per l’ideologia borghese capitalista, sia per l’ideologia comunista del marxismo si tratterà di limitare in modo notevole la visione sociale e culturale del lavoro. Effetti perversi dell’homo oeconomicus saranno profonde tensioni, spersonalizzazione del lavoro ridotto ad individuo astratto, strumento “pronto a qualsiasi uso” (p. 64). La gerarchia dei lavori umili/nobili, presenti nelle lingue europee (pónos/érgon – labor/opus – travail/oeuvre – labour/work – Mühe/Werk – lavoro/opera), viene quasi completamente annullata. La classica divisione sociale (organica) del lavoro (Durckeim) confluisce nella produzione, nella specializzazione, nell’operaio come tipo sociale (Marx) funzionalista.

La concezione del lavoro, che identità personale e sociale, crolla: si passa dal lavoro/dovere al lavoro/diritto. Oggi, l’antropologia moderna del lavoro non è più sostenibile. Occorre sostituirla partendo dall’idea “che il lavoro non è l’essenza dell’Uomo (perché l’uomo non è riducibile al lavoro), ma è una dimensione essenziale della persona umana in quanto essere relazionale” (p. 66). In ogni caso non è una discriminante assoluta.

 

Una nuova antropologia del lavoro

Una morfogenesi sociale del lavoro s’identifica nell’espressione dei mutamenti strutturali/culturali/dell’agire in atto, nelle nuove tendenze. Analisi e studi approfonditi rivelano nella sostanza tre principi fondamentali:

1)      fine della divisione tayloriana-fordista del lavoro (in forte tendenza);

2)      caduta generale della metafora legata al lavoro industriale;

3)      emergere di un concetto di lavoro più ancorato al soggetto.

Per quest’ultimo aspetto, si noti, per esempio, la linea produttiva giapponese del modello Toyota (autonomia decisionale anche nel rapporto di lavoro dipendente).

Appare con sempre maggiore evidenza il fatto che “il lavoro trae il suo valore non più dal criterio del monte ore... ma piuttosto dalla qualità umana che incorpora” (p. 103). Quindi, “attenzione, creatività, sviluppo delle capacità e sensibilità umane”, come pure “si parla di alternanza fra scuola e lavoro”. E nel processo rientrano le stesse organizzazioni burocratiche, dai vertici alla base. Se cambia il concetto di lavoro, anche quello di scuola dovrà per forza cambiare, e questo, tra resistenze e corporativismi, è un processo in atto. “Il criterio-guida di questi cambiamenti sta nel configurare il lavoro in modo tale da ottenere prodotti qualitativamente migliori sotto molti aspetti rilevanti, sia dal lato di chi lavora, sia dal lato di chi utilizza il prodotto del lavoro” (p. 103).

Il lavoro, quindi, si orienta alla persona umana, che agisce e che vuole che la sua azione sia riconosciuta e apprezzata come portatrice di senso e tassello seppur minimo ma indispensabile dell’impalcatura complessa della realtà sociale. “Il criterio di valorizzazione del lavoro, in quanto attività non automatizzabile, si ispira a una nuova antropologia, che mette in sinergia le dimensioni immateriali (lavoro intellettuale) e le dimensioni pratiche (lavoro manuale), le dimensioni dirigenziali ed esecutive, le dimensioni di produzione e di destinazione” (p. 104). Questi processi richiedono libertà, nuova riflessione e, soprattutto, “si impongono nuove forme di contrattualità” (p. 104).

Dunque: personalizzazione e umanizzazione del lavoro. C’è coincidenza tra le due espresioni? Nella sostanza no. La prima indica cambiamenti oggettivi e soggettivi, che riguardano la persona umana che agisce; la seconda è invece un’esigenza moderna risalente ai progetti utopici dei socialismi di Fourier, Owen, Blanc ecc. La modernità espressa dal capitalismo ha spesso sfruttato a proprio vantaggio, riuscendo a sopravvivere così alla profezia implosiva marxiana fino ai giorni nostri e riuscirà ancora a sopravvivere per molto tempo ancora, queste esigenze, specialmente quando vi intravisto delle potenzialità umane. Entrambe, però, hanno in comune la globalizzazione di una critica nei confronti dell’ideologia capitalistica borghese.

Oggi, intanto, emerge una nuova fase, che si poggia teoricamente su una triangolazione: occupazione, percorsi di vita (professionali o non), diritti di welfare. Pertanto un primato non più del lavoro, ma del soggetto umano. Sempre seguendo lo schema AGIL si ottiene:

A = lavoro/occupazione

G = percorso di vita/transizione

 I = welfare/diritti-doveri

L = passaggio da individuo a persona umana/colletivo-rete-relazione sociale

Lungo questo schema, senza trascurare alcun punto ma considerandoli in relazione e in modo integrale-processuale, si può costruire una mappa della dis-in-occupazione. Naturalmente è d’obbligo il passaggio da un modello di aiuto (corsi, counseling, sostegno, ammortizzatori sociali ecc.) a un modello che la stessa società civile mette autonomamente e sussidiariamente in atto (elaborazione, gestione, programma ecc.). Si tratterebbe di passare, in definitiva da una visione che concede (concessione paternalistica dello stato e del mercato) ad una visione autopoietica ed autorganizzativa del sistema sociale.

 

Il lavoro come diritto umano

Si prenderanno in esame due principi contenuti in due differenti Carte dei diritti umani fondamentali:

 

ONU – Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948): “Ognuno ha diritto a un lavoro, a scegliere liberamente la propria occupazione, a condizioni di lavoro giuste e vantaggiose e a essere protetto dalla disoccupazione”.

UE – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2004): “Ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”.

 

A distanza di mezzo secolo si può notare nelle due esposizioni una differenza sostanziale: il diritto ad un lavoro, liberamente scelto (ONU) e il diritto di lavorare liberamente (UE). Il passaggio da una visione individuale definita da quell’ognuno ad una visione della persona umana che vive e agisce nella società, e che la stessa genera e rigenera a sua volta, è fondamentale. Ma il lavoro è un diritto come tutti gli altri diritti garantiti dal welfare (salute, istruzione, protezione ecc.)? Oppure è un dovere-diritto morale che le istituzioni, la polita e le strutture sociali economiche devono prevedere, sostenere, garantire, non in riferimento ad mero bene o merce di consumo (anche se reso sotto forma di servizi di utilità sociale), ma inteso come fondamento sostanziale del vivere sociale e del suo intricato sistema di relazioni sociali?

Sarà importante imboccare la strada che porta ad un superamento concettuale dei limiti contenuti che vedono nel valore lavoro un diritto individuale astratto e generale. “Occorre vedere il diritto al lavoro come diritto nei confronti di beni che non fanno riferimento all’individuo astratto, ma si riferiscono alle relazioni sociali e consistono delle relazioni sociali attraverso cui l’individuo diventa e può vivere come persona umana” (p. 114). Tutti, nessun escluso (stato, istituzioni, mercato, imprese, parti sociali ecc.), hanno il dovere di considerarsi soggetti sociali impegnati a ricercare e “ad assicurare le condizioni che valorizzano le attività di lavoro, invece di parlare di un ‘diritto (soggettivo) al lavoro’ come diritto astratto” (p. 114). È dovere della società nel suo insieme assicurare, come per la salute, le condizioni ambientali e sociali di riconoscere ai soggetti un valore sociale di tutte le relazioni che creano lavoro e non solo intervenire per regolarne gli effetti. In quest’ottica, può esistere un ‘mercato del lavoro’ che tende a mercificare e a vendere al miglior (o peggiore) offerente la forza lavoro di un essere umano? Certo che no! Proprio perché questo presupposto (vero abuso dell’epoca industriale e capitalistica) oggi non funziona più, perché ci si è incamminati in un percorso irreversibile di liberazione del lavoro. Incamminarsi su questa strada ha portato inevitabilmente a mettere in discussione gli stessi rapporti di potere, ampi e complessi, che stanno alla base del capitalismo industriale e a far mergere la concezione che il sistema sociale complessivamente si regge su presupposti di relazione sociale e culturale.

 

Un nuovo paradigma del lavoro

Ci sono esempi concreti della vita sociale che fanno intravedere un nuovo paradigma relazionale/umano del lavoro, che sfugge da logiche di mercato, socialistiche o lib/lab (modello misto all’inglese, quasi sconosciuto in Italia), e sembra scaturire da forme di economia “altra” o “economie alternative”, anche se tali definizioni sono del tutte improprie, in quanto, per il solo fatto che diffondono (a volte anche inconsciamente) una nuova cultura sociale del lavoro, agendo nella società e costruendo allo stesso tempo società, “creano e promuovono il lavoro come bene relazionale in un contesto ‘glocale’” (p. 119). Sono forme in abbozzo di “lavoro societario”, ben diverse dalle forme di lavoro che si rifanno a modelli classici neoclassici. Il problema sta nel vedere se queste forme innovative che intenzionano un nuovo modo d’intendere l’economia e il lavoro avranno o meno la forza di enucleare e diffondere un nuovo modello, un nuovo paradigma del lavoro sociale, oppure se si limiteranno a sfruttare norme ed orientamenti legislativi, che alla fine le avvilupperanno inesorabilmente nel normale processo storico della vita sociale di tutti i giorni. Corre l’obbligo di un parallelo storico: “La borghesia storica, com’è noto, nacque dai fuoriusciti dell’assetto medievale, i ‘borghesi’ dei borghi: quali sono i fuoriusciti dai rapporti del capitalismo moderno?” (p. 120). Si tratta di persone che si pongono consapevolmente l’obbiettivo di “fare società”, invece di consumarla e di corromperla o di mercificarne i rapporti? Sarebbe interessante proporre una ricerca, che punti “a vedere se esistono e, se sì, come si configurano, quei soggetti che fanno economia diversamente dai criteri moderni sino ad oggi ritenuti insuperabili” (p. 120) e, naturalmente, provare a moltiplicarli, rifuggendo comunque dal replicarli in sterili cloni.

Questo può essere la base di un nuovo paradigma generale:una visione relazionale della società e del lavoro, “capace di trascendere la dialettica tipicamente moderna fra libertà del lavoro (lib) ed uguaglianza delle condizioni di lavoro (lab), per dare maggior rilievo al polo delle autonome solidarietà sociali che producono e distribuiscono lavoro” (p. 146). Purtroppo, il modello cooperativo si è avviato ad essere un modello cooperativistico-imprenditoriale, finendo per sclerotizzarsi in un collo di bottiglia e legandosi a filo doppi al profitto-consumo, falsando inequivocabilmente i presupposti solidaristici originari. Il movimento cooperativo ha ormai abbracciato le regole del mercato, trascinando con sé molta parte del cosiddetto Terzo settore, pur nel debole tentativo di salvare le apparenze mediante il sistema del rimborso spese. Quale socio di cooperativa (di produzione e lavoro, s’intende) si sente fino in fondo o almeno superficialmente, produttore/committente del suo lavoro e non, al contrario, un semplice dipendente di una struttura che ormai non gli appartiene per niente, diretta da una nomenclatura gestionale che tira le fila e ricava un cospicuo tornaconto? Pertanto, oggi “ciò che è in gioco è il senso del lavoro in una formazione storico-sociale” (p. 146).

“Al fondo, ciò che è in causa è il senso sociale del lavoro in quanto non più governato (né governabile) dal sistema politico-amministrativo, ma in quanto necessitato da una società civile che si scopre allo stesso tempo più dinamica e però anche più caotica, incontrollabile, ambivalente, paradossale, e dunque fonte di nuove risorse ma anche di nuovi rischi” (pp. 146-7). Ciò che irrompe, sul fondo, tra forme informi, per dirla con Maffesoli e Castoriadis, è una realtà magmatica e imprecisa, che spesso si chiama con un termine vecchio che è ‘società civile’, “a cui non sappiamo dare ancora un volto preciso, perché le categorie di un tempo non sono più corrispondenti a quanto in essa si esprime” (p. 147). Il problema appartiene alla politica, al mercato e alle persone, che insieme dovrebbero cercare di cogliere questa configurazione sociale emergente, questa “nuova configurazione relazionale del lavoro come diritto di ‘cittadinanza societaria’”, e cercare di comprenderla e d’implementarla, anche andando oltre agli schemi già preconfigurati della rete.

 

Le politiche del lavoro

Pertanto, nelle politiche del lavoro la concezione relazionale, e non meramente funzionalistica, dello schema AGIL si fa impellente. “Le politiche del lavoro non derivano più il loro carattere politico dal fatto di essere una emanazione dell Stato (ovvero del sistema politico-amministrativo) con le sue funzioni di comando ai vari livelli territoriali, ma dal fatto che emerge un modo nuovo di percepire e fare lavoro nelle varie sfere sociali che promanano dalla società civile” (p. 148). Inoltre: “Il lavoro è una relazione sociale che ha sempre un qualche valore economico” (p. 156), anche se questo non significa che debba essere esclusivo e solo monetario. “Il lavoro, infatti, in accordo con la teoria qui espressa, è relazione fra (A) una risorsa (strumentale), (G) un bene da produrre, (I) un modo di produrre beni, (L) un valore umano” (p. 156). In definitiva, “si tratta di vedere il lavoro come una possibilità reale di relazioni inedite nel campo della produzione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi, laddove è la sua connotazione relazionale che ne fa un’attività generativa anziché reificata (un sillagma genetico e non solo funzionale)” (p. 159).

Il lavoro non è soltanto un agire economico, uno strumento di produzione di beni di consumo da monetizzare: “Sociologicamente il lavoro è e diventa sempre più una relazione sociale che chiede di essere riconosciuta e trattata (relazionalmente!) come tale, nella sua pienezza” (p. 157). Da Ricardo a Marx, passando per il capitalismo e un certo sociologismo giustificativo di una borghesia imperante, si è visto il lavoro come un fattore di produzione, trascurando una visione relazionale intrinseca del lavoro e della società stessa. Avere un lavoro, studiare per un lavoro, imparare un mestiere ecc. alla fine, lungo processi di globalizzazione economica estenuante si è arrivati al fatidico “produci, consuma, crepa” descritto dalle ricerche della sociologa Saskia Sassen. Ma la speranza è un’altra: “La società del futuro, lungi dall’essere una società in cui il lavoro sparisce, è una società del lavoro emergente... erogatrice di energie e capacità aventi una qualità umana per far fronte a bisogni sociali da cui vengono ricavate le risorse di vita per i soggetti che svolgono tali attività” (p. 158). Anche se sembra un circuito chiuso, il modello è aperto a tutti: chiunque può entrare e portare il suo impegno, il suo ingegno, la sua creatività, in un clima di convivialità e di condivisione.