Tra il dire… e il fare… (di Paolo Coluccia – paconet@libero.it  )

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

Relazione introduttiva al Laboratorio formativo:

Le politiche di conciliazione in aziende/realtà operative private e in realtà pubbliche

Docente: Dott. Paolo COLUCCIA

7-8-9 gennaio 2004 (Lecce-Tricase-Bari)

“Donne, Media e Telecomunicazione”

Progetto IC Equal D.M.T. - mis. 4.2 – n. IT-G-PUG-048 -

PROVINCIA DI LECCE , Ass. Politiche Comunitarie e  Pari Opportunità

AZIONE B.1- ANPE/ANPE-REGIONE PUGLIA

Corso di formazione per Animatori di conciliazione vita e lavoro

 

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Tra il dire e il farec’è di mezzo il mare! Così recita un vecchio proverbio.

Oggi noi trasformeremo questo detto e diremo… che tra il dire e il fare c’è di mezzo… lo spazio e il tempo!

 

            Cos’è il “dire”?

            Cos’è il “fare”?

            Cos’è lo “spazio”?

            Cos’è il “tempo”?

 

            Mi pongo insieme con voi queste domande, nel contesto di questo modulo, ricordando una famosa frase del biologo cileno Humberto Maturana: “Ogni cosa detta è detta da qualcuno”. C’è una responsabilità nel dire, della quale deve farsi carico chi dice. E c’è una responsabilità nell’accettare ciò che viene detto, della quale deve farsi carico il mondo intero. Dal dire deriva il fare. Il che presuppone, oltre alla responsabilità del dire, anche la responsabilità del fare, un’altra forma di responsabilità che impone la cautela.

            Ci muoveremo su un percorso semantico che interesserà le parole emozione, possibilità, immaginazione, comunicazione, realtà.

 

Coscienza ed identità  

 

Dice Francisco Varela, neurobiologo ed epistemologo scomparso recentemente all’età di 54 anni, che la coscienza non è nella testa e che il cervello non è un computer. In un’intervista rilasciata il 7 gennaio 2001, pochi mesi prima di morire, all’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche (www.mediamente.rai.it) , egli indica chiaramente come sia possibile ritenere superato il classico dualismo fra mente e corpo, proprio partendo da un’ottica che considera le relazioni sociali. I temi analizzati in questa intervista sono principalmente tre: l’io, l’altro e il mondo.

Pertanto, la coscienza: “Non posso separare la vita mentale, la vita della coscienza, la vita del linguaggio, l’intero ciclo dell’interazione empatica socialmente mediato, da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una volta tutto questo si svolge non all’interno della mia testa, ma in modo decentrato, nel ciclo. Il problema del Neuronal Correlate of Consciousness è mal posto perché la coscienza non è nella testa. Insomma, la coscienza è un’emergenza che richiede l’esistenza di questi tre fenomeni o cicli: con il corpo, con gli altri e con il mondo. Naturalmente il cervello mantiene un ruolo centrale, perché costituisce la condizione di possibilità di tutto il resto; il che però non toglie che, così come era impossibile parlare di una relazione materiale in senso proprio a proposito della rete immunitaria, allo stesso modo è impossibile credere che in questo o in quel circuito cerebrale risieda la coscienza”.

E a seguire, l’identità: “La nostra identità, in quanto individui, è di una natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: ‘Buongiorno, Francesco’, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque c’è una specie d’interfaccia, di collegamento (couplage) con il mondo, che dà l’impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. E’ difficile capire che si tratta di un’identità puramente relazionale e così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma non è possibile, perché si tratta di un’identità relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di pensare più antico della tradizione occidentale, ed è molto difficile cambiarlo”.

 

Quindi il tema delle relazioni sociali pongono la necessità di riconsiderare l’io, l’altro, il mondo.

 

Il tempo. Un dono di Dio? Un’illusione terrena dell’uomo? Una congettura?

La notte dei tempi: passato-futuro, infiniti ed indefiniti. Dice Luhmann: “Il tempo si distende fra orizzonti temporali particolari… il passato e il futuro… Gli orizzonti temporali si spostano via via che il tempo avanza… Quell’intervallo temporale tra passato e futuro in cui si realizza l’irreversibilità dei mutamenti, viene vissuto come presente… il presente dura quanto dura l’irreversibilità”.

I tempi sociali, i tempi della vita. Il tempo è una costruzione della coscienza.

 

Lo spazio. Realtà-illusione onirica? Finito-infinito?

La linea dell’orizzonte. Dice Luhmann: “L’orizzonte non è un confine, non è possibile valicarlo… Prima o poi dobbiamo tornare indietro, nella direzione indicata dall’orizzonte opposto… ‘Tornare indietro’ significa, del resto, … avvicinamento ad un altro orizzonte, ma come allontanamento… Alla costituzione materiale di senso concorrono sempre e necessariamente due orizzonti”.

Gli spazi sociali sono i luoghi della vita.

 

Alcune definizioni di tempo: ciclico, lineare, di lavoro, libero, di loisir ecc.

Alcune definizioni di spazio: fisico, locale, globale, glocale, pubblico, privato, infinito ecc.

 

Dal nostro incontro emergerà, si spera, una nuova definizione (o categoria) di tempo e di spazio:

1)      il tempo “comune”

2)      lo spazio “comune”.

 

Su queste due particolari espressioni del tempo e dello spazio concentreremo la nostra attenzione. I percorsi che costruiremo nell’ambito delle azioni e delle politiche sociali di conciliazione lavoro e vita si soffermeranno su queste due nuove caratterizzazioni del tempo e dello spazio.

 

Si percepisce lo spazio e il tempo soprattutto come una costruzione dell’io. Tempo e spazio sono uno “stato di coscienza”. Lo stato di coscienza è una complessa sincronizzazione tra cervello, corpo e mondo (Varela). Se si vive per un lungo periodo in un luogo isolato dal mondo (una grotta, su una capsula spaziale, sulla vetta di una montagna…), e si è privi di ogni strumento di misurazione, si perde la cognizione dello spazio e del tempo. Sono stati fatti molti esperimenti a riguardo. Anche le nostre sensazioni del tempo e dello spazio possono essere percepite in modo diverso, a seconda dei luoghi e delle circostanze.

Riguardo al tempo, possiamo avere la sensazione che si accorci repentinamente o che si allunghi a dismisura quando abbiamo fretta o quando ci annoiamo. “La mattinata è passata in un attimo!”. “Questi ultimi minuti non passano mai!”. Quante volte non abbiamo detto queste frasi, soprattutto sul posto di lavoro. Dice Luhmann che a volte sembra che il tempo si accorci o si dilati a dismisura, anche per effetto di situazioni contrarie spazio-temporali, come quando siamo impegnati sul posto di lavoro (a fare qualcosa di urgente o ad aspettare l’orario di uscita), tanto “da farci guardare l’orologio ogni due minuti”.

 

Sulle nozioni di tempo (pubblico e privato) e di spazio (pubblico e privato) la letteratura giuridica e sociologica è ampia.

1)      Spazio pubblico: luogo di lavoro, territorio geografico, giardini pubblici, strade di comunicazione ecc.

2)      Spazio privato: la casa di abitazione, l’azienda, i terreni di proprietà ecc.

3)      Tempo pubblico: tempi sociali, di normazione, orario d’ufficio ecc.

4)      Tempo privato: orario di lavoro, momento di studio, tempo libero ecc.

 

Spesso c’è una certa contaminazione tra spazi pubblici e privati, tempi pubblici e privati. Oppure sovrapposizione, contrapposizione, esclusione, deviazione, oppressione ecc.

 

Si è però legiferato poco o niente (o male) sulle espressioni di spazio comune e di tempo comune.

Cosa significa la parola comune? Etimologicamente vuol dire cum munus, con dono. Da cui comunità, comunicare, comunicazione, come vedremo. La comunità non è un concetto spaziale né temporale (almeno non in modo esclusivo): è soprattutto un concetto “relazionale”.

La relazione non si estrinseca in semplici azioni formali, ma si costruisce sulla reciprocità, sul dono (attenzione: non parliamo del dono caritatevole, della filantropia o del dono gratuito del volontariato) ma del dono libero fondato sullo scambio alla pari, sul rispetto, sul riconoscimento, sulla dignità dell’altro da sé. In termini molto precisi (giuridici e sociologici) la solidarietà (da solidus) non è l’assistenza o la buona azione, ma lo scambio sociale, la comunicazione sociale, dove comunicazione non è semplice informazione, bensì “azione-comune”.

Ha detto François Terris: “La vera ricchezza di un paese sono le ore che ciascuno dona alla sua comunità”.

 

Ritorniamo al “dire” e al “fare”. Le leggi e gli accordi pubblici rappresentano il dire. Le azioni concrete e le sperimentazioni rappresentano il fare. In questo modo il dire si confonde con il fare.

Il successo si misura con la riuscita sincronia di entrambi. L’osmosi del dire e del fare rappresenta la sincronizzazione immediata di ogni pensiero e di ogni azione, nonché la sua evoluzione sociale.

Si dice qualcosa quando si ha necessità di fare qualcosa; se si deve fare qualcosa si ha bisogno di un fondamento teorico-normativo.

Spesso, in una società complessa, altamente specializzata e scissa in sistemi e sotto-sistemi sociali, in funzioni e ruoli, si tralascia di “fare” e si tende a “dire”, forse troppo! Pertanto, risulta anche molto complicato applicare una norma, se non impossibile. All’estremo opposto, si fugge la teoria per affidarsi irresponsabilmente ad azioni prive di ogni sostegno normativo. A parte la buona volontà che si può dimostrare, il fallimento è sempre in agguato.

Abbiamo bisogno di un fondamento normativo per compiere tutte le nostre azioni, pubbliche, private e qualche volta anche quelle “comuni”.

 

Parlare, approfondire, definire il tema della conciliazione significa comprendere la problematica del tempo, dello spazio, della vita in comune, tra i generi (uomo-donna), tra fasce d’età (bambini, adolescenti, adulti, anziani), aziende pubbliche e private, tra operatori pubblici e privati, tra istituzioni, tra settori sociali e produttivi (primario, secondario, terzo settore ecc.).

 

Sulla scorta di tutto il “dire” (norme di riferimento) cercheremo di “fare”, costruiremo azioni, apriremo piste, imposteremo percorsi per possibili politiche sociali di conciliazione vita e lavoro.

 

Adotteremo tre teorie metodologiche, che non ci servirà in questa sede analizzare a fondo, ma ci basterà sapere che esistono e quali sono i principi generali su cui si fondano, alle quali molti scienziati sociali ed analisti di alto livello fanno oggi costante riferimento:

1)      la teoria della simulazione

2)      la teoria del caos

3)      la teoria degli scenari.

 

Ora, vediamo la composizione dei partecipanti a questo modulo, ovvero chi siete voi nella vostra vita professionale o civile.

Mi è stato detto che siete politici, funzionari pubblici, imprenditori, sindacalisti.

Siete, come sul dirsi, degli attori privilegiati! Vedremo se è vero! E’ una provocazione: sicuramente lo siete nel “dire”. Infatti, è nel “fare” che s’incontrano molti limiti, i propri limiti. Soprattutto se siamo isolati istituzionalmente. Insieme molti problemi si affievoliscono.

 

Comporremo, perciò, a sorte, quattro gruppi compositi di lavoro. Intanto vi conto: quanti siete? Chi sarà estratto per ultimo nei rispettivi gruppi, si sobbarcherà del compito di coordinare i lavori e di riferire. La sorte ci serve per evitare quello che capita spesso, cioè che il leader si auto-riveli, auto-proclami. Come ha detto Hanna Arend: la predisposizione di qualcuno di diventare automaticamente leader di un gruppo. La sorte lascia più spazi di libertà e di democrazia (teoria del caos).

Ciascun gruppo, tirato a sorte, si interesserà di un tema specifico, di un’azione definita. E poiché i gruppi sono quattro, si simuleranno, sempre abbinando a sorte,

a)      un ente locale              un Centro famiglia;

b)      un’azienda privata      una Banca delle ore;

c)      un ufficio pubblico     un Ufficio dei Tempi;

d)      un quartiere di città     una Banca del tempo.

 

Naturalmente, sarà sufficiente organizzare e strutturare il diagramma di flusso di ciascuna azione, tenendo però presente che il “denominatore” comune di tutti sarà “l’informazione”, da rendere comune tramite lo strumento informatico, ovvero mediante l’uso delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), nel nostro caso specifico (Donne, media e telecomunicazioni) un programma informatico che giri su un computer collegato a Internet.

 

Nella dispensa troverete i concetti chiave per affrontare le varie azioni: ma dovrete contare sulle vostre capacità di analisi dei bisogni. Sulla scorta del “dire” opererete per “fare”. Sarà un esperimento: sarete soli con voi stessi, ma nello stesso tempo in gruppo e in sottogruppi. Avete di fronte il destino della vostra realtà operativa, disegnerete lo scenario futuro della vostra comunità d’appartenenza (teoria dello scenario).

Non sarà importante il risultato che verrà fuori, potrà anche essere un fallimento: la cosa importante è che ci proviate, che vi mettiate alla prova, che sperimentiate innovando, contando sull’ausilio della norma, ma soprattutto facendo leva sulla vostra immaginazione, fantasia, creatività, illusione.

Spesso, mettendo in pratica una norma si diventa innovatori sociali.

Il nostro “dire” è la nostra libertà, del quale siamo direttamente responsabili. Il nostro “fare” rappresenta la libertà verso gli altri e degli altri: di entrambi, oltre noi, è responsabile tutto il mondo.

“La libertà consiste nel ‘fare’ tutto ciò che non nuoce all’altro (e all’ambiente, vicino o lontano, attuale e futuro). E la libertà non può essere remunerata. Il lavoro è così un servizio per la vita. Se così definito il lavoro non è più in competizione, ma un servizio svolto da tutti gli esseri umani, al servizio di tutti e di ogni forma del vivente. Cosa è la vita? E’ semplicemente movimento e trasporto di informazioni per la trasformazione degli organismi. E’ apertura. E’ una deriva infinita, è una presa costante di rischio. Ogni essere umano ne è consapevole, anche se molti stentano ad ammetterlo. Ogni essere umano è l’unico responsabile delle sue azioni, del suo prodotto, del suo servizio, e soprattutto della sua parola. Ed autonomamente deve trovare il senso della sua vita, all’interno di se stesso. Il ‘senso’ è interno ad ogni organismo vivente, non proviene dal suo ambiente. Nella natura non c’è ‘autorità’. Non si può non rifuggire la gerarchia. Oggi possiamo prendere coscienza della relazione ‘dominanti/dominati’. Possiamo e dobbiamo comprendere, anche se molti ce lo impediscono, che il ‘potere’ è, per mezzo del denaro, il desiderio di imporre agli altri la propria volontà. Questa è soltanto un’illusione nevrotica. Gli esseri umani sono nati liberi ed uguali, bisogna permettere loro di organizzarsi nell’armonia, così come sognano. Riponiamo fiducia in questo, è nell’aria da tempo. Non siamo altro che strumenti al servizio della vita (Anne-Marie Bénex).

Questo percorso formativo, oltre che essere un esperimento, rappresenta una sfida, che riguarderà voi, la vostra famiglia, il vostro lavoro, la vostra comunità d’appartenenza.

 

PS. Chi desidera approfondire l’argomento può contattare l’autore all’indirizzo: paconet@libero.it

 

 

 

Riferimenti bibliografici:

F. Varela, Intervista, www.mediamente.rai.it

H. Maturana/F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1999.

N. Luhmann, Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna, 1990

P.Coluccia (a cura di), Atti del Colloquio internazionale “I sistemi locali di reciprocità indieretta”, in http://digilander.libero.it/paolocoluccia .

Idem, La cultura della reciprocità, Arianna ed., Casalecchio (BO), 2002.