Serge Latouche
La crisi della città
Un saggio del filosofo ed
economista francese che esamina la crisi della città, argomentandone la
soluzione
Abstract.
Il disastro
urbano, che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono
palesemente agli architetti e agli urbanisti. Tuttavia questi ne sono stati i
complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio. Ma l’architettura
eco-responsabile non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico
della soluzione. Questi onorevoli tentativi degli architetti e degli urbanisti
di porre rimedio alla crisi urbana e sociale, pur proponendo schemi ingegnosi
sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento
della società della crescita. La crisi è politica e dunque anche il rimedio deve
essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa
necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis,
la città, e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente
secondo rispetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo
rispetto al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una
mancanza degli architetti né degli urbanisti, è il risultato di una crisi di
civiltà. La città decrescente dovrebbe essere una città con una impronta
ecologica ridotta, che trattiene un rapporto forte con l’ecosistema [una
bio-regione]. In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la città
attuale, dalla quale si dovrebbero eliminare la pubblicità, le auto e la grande
distribuzione e dove sarebbero introdotti i giardini condivisi, le piste
ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e
anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Sarà necessaria una
riconversione, ma anche una certa de-industrializzazione. In sintesi, la città
decrescente, primo passo verso una società di abbondanza frugale, preserverà
l’ambiente, che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno
un accesso più democratico all’economia, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà
la partecipazione [e dunque l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà
la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione
dello stress.
Il disastro urbano della società
della crescita
Il disastro urbano, che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti. Abbiamo una quantità di architetti e di urbanisti di ottima qualità [compresi quelli del campo dell’abitare ecologico], ma questo non impedisce il caos urbano e paesaggistico attuale nel quale il mondo è rinchiuso. Il problema è che questa architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nell’insieme. Fallisce nel fare città e sopratutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, la traumatizzazione del paesaggio, la cementificazione del territorio, la crescita dello squallore del quadro della vita e la distruzione dell’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi architetti e urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio. Siamo di fronte a una forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è stato constatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza: «La cosa più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è l’uso della terra […] Noi assistiamo alla fine di un ordine delle cose che prefigura forse un’altra cosa, che noi non conosciamo ancora. E, senza dubbio, questo era inevitabile. Ma nell’immediato, la qualità è emarginata e siamo di fronte a un disastro». Noi viviamo ancora nella città produttivistica, pensata e strutturata in funzione dell’automobile, sotto forme che pretendono di essere razionali [basta pensare alla città radiosa di Le Corbusier], con le sue segregazioni degli spazi, le sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali senza vita. Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di pace con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei grattacieli, la lacerazione dello spazio con le autostrade e la proliferazione dei non-luoghi [stazioni, aeroporti, ipermercati ecc.]. L’asfissia del traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla super o iper modernità [parola che trovo più giusta di post-modernità]. Questo è il trionfo della bruttezza. Per poter abbozzare ciò che potrebbe essere l’urbanesimo e l’architettura in una società della decrescita, bisogna capire prima, che cos’è la società della decrescita e le sue implicazioni architettoniche e urbanistiche, poi si potrà precisare a che cosa somiglierebbe la città decrescente.
Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane
Che cosa è la decrescita? La parola della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità di abbandonare il progetto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da un’economia di crescita e che tende ad esserne assorbita. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della Crescita [con la C maiuscola] non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Questo è l’esplosione dell’urbano, secondo la sociologa Tiziana Villani. Si tratta di un processo di artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il mondo meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nano tecnologie, la clonazione, l’allevamento industriale dei pesci ecc. ne sono un’illustrazione. L’esito finale sarebbe il cyberman, l’uomo artificiale. Ora, il risultato più visibile è la trasformazione del mondo reale, del mondo nel quale siamo condannati a vivere, in una discarica o pattumiera. Il fallimento di Dubai e della sua torre di ottocento metri inabitata, costituisce un simbolo del fallimento del sogno americano e del suo urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà probabilmente mai eseguito. La città produttivistica appartiene al passato, ma la distruzione del mondo prosegue. Ovviamente il fine della società della decrescita non è un capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può ben immaginare quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così come non c’è niente di peggio di una società fondata sul lavoro senza lavoro, niente è peggio di una società di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente parlando, più una a-crescita [come si parla di a-teismo] che una de-crescita. Si tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione: quella dell’economia.
Il cambiamento reale di prospettiva, necessario per costruire una società autonoma di decrescita, può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico e ambizioso delle otto R: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Non si tratta di un programma, siamo ancora ad un livello di concepimento dell’idea. Il progetto della società della decrescita si articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto R. Si può dire che le otto R sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più strategico delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti i cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti gli comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone. Il problema della città e del territorio ormai distrutti (è tutto da ripensare) s’inscrive nel contesto più ampio del mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale. Il disastro urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e paesaggistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia. La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Si tratta di riterritorializzare [cfr. Alberto Magnaghi], ritrovare un sito e ri-abitarlo. Tuttavia, l’architettura ecoresponsabile o l’habitat bioclimatico non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. La città sostenibile promossa dalla Carta d’Aalborg [1994] è più una forma di modernizzazione ecologica del capitalismo che un vero rimedio al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri – quartiere Vauban a Friburgo [Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000 abitanti, in Olanda] e di Bedzed [Beddington zero energy development] nella città di Sutton a sud di Londra – sono alla fine delle isole di sostenibilità dentro un mare d’inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo scacco clamoroso delle ecocittà cinesi sono sintomatici. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare, come Chongming, sono bloccati. L’ecocittà di Dongtan a Chongming di fronte a Shanghai è stata promossa con forza dal 2006-2008 per fare vetrina ecologica all’Esposizione Universale. Il padre del progetto è stato fatto fuori nel 2008 per corruzione; dopo di che il progetto, mal concepito, è stato abbandonato. Gli altri progetti [Huangbaiyu e Tianjin] non vanno bene. L’economia ha vinto sull’ecologia. In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio, ma non di cambiare il rapporto con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre city [Wright], città compatta, città distesa ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita. Il funzionalismo formalizzato nella Carta di Atene da Le Corbusier [1943] che pretendeva di lottare contro il disordine urbano ha generato alla fine un disordine più grande a prezzo di un’esplosione dell’impronta ecologica delle città. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis. Questo sembra essere il destino dell’iperpolis virtuale, costituita dalla finanza e dai media globalizzati. La crisi è politica e dunque anche il rimedio deve essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, della città e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo rispetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il disastro urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti né degli urbanisti, è il risultato di una crisi di civiltà. Solo con l’inserimento della politica dentro il progetto di costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
A che cosa somiglierà la città decrescente?
La città decrescente dovrebbe essere una città con un’impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. Piuttosto che desiderare la costruzione di città nuove, bisognerà imparare ad abitare le città in modo diverso, sia al Nord sia al Sud. La città consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo ecc.] ed esporta massicciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie fantasma molto superiore alla sua superficie reale. Perché un metro quadrato di superficie urbana funzioni in una delle città spagnole, occorrono sessanta metri quadrati di spazio rurale, di suolo agricolo, di foresta o di prato, per permettere alle greggi di produrre i beni e i servizi reclamati dalle grandi città. L’impronta ecologica urbana non s’arresta dal crescere. Fino a 50 anni fa, le città avevano bisogno per ogni metro quadrato solo di 25 metri quadrati di campagna. Se si fa una proiezione, di questo passo, nel 2050, occorreranno 500 metri quadrati di suolo rurale per un metro quadrato urbanizzato. L’impronta ecologica del cittadino spagnolo rappresenta quattro volte l’impronta sostenibile. Più la città è estesa, funzionale [Le Corbusier], più questa impronta è forte. È quello che non si vuole dire quando si dice che bisogna verticalizzare le città. Le torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità. Bisogna sicuramente reinventare una città più compatta. L’habitat individuale, isolato, anche pensato ecologicamente bene, è un’eresia urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perchè ogni anno spariscono ettari di terre agricole sotto l’asfalto e il cemento. La costruzione raggruppata e l’alloggiamento collettivo dimostrano un’efficacia energetica più alta. Invece delle megalopoli attuali, bisogna immaginare una città ecologica, fatta di villaggi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano un’energia rinnovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroveranno così il piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere ad abitare il mondo è quindi un imperativo. Si può pensare di organizzare delle bioregioni urbane. La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne [o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività]. Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare. Si potrebbe considerare un’area metropolitana come un’articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni riuniti, secondo la proposta di Murray Bookchin. «La città, che da secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si scambia’ – scrive Yona Friedman – diventerà un’arca di Noè destinata ad assicurare la sopravvivenza della specie nonostante il diluvio. Saranno dunque necessarie una grande autonomia e una grande autarchia». Quest’autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiere di energia rinnovabile. «Saremo noi un giorno capaci – si chiede Christophe Laurens, architetto e paesaggista – di abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi, gli incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d’attrazione, tutto ciò che l’architetto olandese Rem Koolhaas chiama i junkspace?». La risposta viene forse da Yona Friedman: «Per trasformare il male in bene – dice – dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo subito». Si tratta di abitare diversamente la stessa città. Pensare alla Parigi [Parigi come scommessa] della decrescita. In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la città attuale, dalla quale sarebbero stati eliminati la pubblicità, le auto e la grande distribuzione e dove sarebbero stati introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le botteghe di quartiere. Sarà necessaria una riconversione ma anche una certa de-industrializzazione. Il risultato di questa de-industrializzazione, realizzata grazie a degli attrezzi sofisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, essa è comunque importante. Nel suo bel libro Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere [Donzelli, 2010], Stefano Bartolini presenta così la città «relazionale» che corrisponde quasi esattamente al progetto della decrescita: «La città relazionale è uno degli aspetti cruciali della mia proposta di assegnare ai bambini una priorità ben maggiore di quella attuale, perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e mobilità nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono disporre di spazi pedonali di qualità vicino a casa e della possibilità di arrivarci da soli. Gli elementi chiave di una città relazionale sono: l’auto privata deve essere drasticamente limitata come misura strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti pubblici; la densità di popolazione deve essere alta; ci devono essere molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità, centri sportivi ecc.; le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un fiume, un ruscello, un canale; devono attraversare la città in modo da formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile marciapiedi spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà pubblica devono circondare la città, per costruirvi parchi e case». E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone vivono nelle baraccopoli [bidonvilles] o nelle favelas autocostruite e non accederanno mai alla città produttivistica. La visione di Yona Friedman dell’architettura e dell’urbanesimo di sopravvivenza è certamente più realista per il Sud e, inoltre, in coerenza con la città decrescente al Nord. La città povera è fatta di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage – dice Friedman – è la società anarchica dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica o politica; questo tipo di società si è costituito semplicemente perché l’esperienza ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità di sopravvivenza». Finalmente «la risposta dell’architettura di sopravvivenza ai problemi correnti sarebbe dunque: costruire meno, ma imparare ad abitare in altro modo; sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i nostri criteri di ‘commestibilità’; vivere nelle città in cui abitiamo, ma organizzarci con minori spostamenti e vivere all’interno del nostro villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati da noi perché lontani». In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita. Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di fare dei passi avanti nella politica a questo livello. Si può menzionare: la Rete del nuovo municipio, la rete delle città lente [Slow cities], le città in transizione [Transition towns], le città post carbone, le numerose esperienze di città virtuose come l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri, le esperienze di Barjac e di Correns, tutte collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di acquisto solidale, Amap ecc]. Il movimento delle città in transizione [Transition towns] è forse la forma di costruzione dal basso che si avvicina di più ad una società della decrescita. Queste città, secondo la carta della rete, ricercano l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in prestito dalla fisica, passando attraverso l’ecologia scientifica, può essere definito come la capacità di un ecosistema di resistere ai cambiamenti della sua ambiente. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno affrontare la fine del petrolio, l’aumento della temperatura e tutte le catastrofi prevedibili? La risposta dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente di migliorare le performances in un campo, rende più fragile la resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la resistenza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la policultura, l’agricoltura di prossimità, piccole unità artigianali, moltiplicare le sorgenti di energia rinnovabile, tutto questo rinforza di conseguenza la resilienza.
Per concludere, si possono riprendere le citazioni di due architetti
Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L’architetto esteta, creatore di forme, credo sia oggi quasi anacronistico».
Yona Friedman: «Dopo tutto, stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere la festa».
In sintesi. La città decrescente, primo passo verso una società di abbondanza frugale, preserverà l’ambiente, che è, in ultima analisi, la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all’economia, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e dunque l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress. L’impatto sul paesaggio, anche se non fosse l’oggetto di una politica specifica, sarà necessariamente positivo.
(2011)