di Paolo Coluccia
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
La grande sfida è occupare
esattamente il proprio posto
nell’infinita tessitura dell’universo e farlo consapevolmente.
(Giovanna Visini)
1. Quali sono le nostre congetture
ontologiche? Come consideriamo la realtà, il mondo, gli altri? Come vive questi
interrogativi l’uomo post-moderno in una società complessa e conflittuale?
Spesso si associa alle «visioni del mondo» l’idea della mera «contemplazione
passiva del mondo» (Heidegger, 1997). Così è stato fino ad un certo momento
dell’evoluzione storica, almeno fino a qualche secolo fa. Nella modernità,
infatti, la visione del mondo ridotto ad immagine diventa, in primo luogo, la
visione della stessa vita. «Il tratto fondamentale del Mondo Moderno è la
conquista del mondo risolto ad immagine» (Heidegger, 1997).
Il mondo rappresentato, quello
che noi ci rappresentiamo come immagine, diventa così la nostra realtà, da
manipolare, usare, consumare. È questa la base della «configurazione della
produzione rappresentante. In questa pro-duzione l’uomo lotta per prendere
quella posizione in cui può essere quell’ente che vale come regola e canone per
ogni ente. […] In conformità a questa lotta, l’uomo pone in gioco la potenza
illimitata dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le
cose» (Heidegger, 1997). In questo modo la realtà è ridotta ad oggetto.
In Platone la base ontologica
poggiava sull’idea come immagine; invece, in Aristotele la teoria era la
realtà, ciò che permetteva la visione della realtà. I malintesi e le
complicazioni sull’ontologia cominciano però con Protagora, o meglio, con la
cattiva interpretazione (cristiano-borghese) del suo famoso detto che indica
l’uomo come «misura di tutte le cose, di quelle che sono in
quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono».
Per capire l’essenza di
un’epoca storica non si può sfuggire al senso delle parole in uso. Se si è
preferito generalizzare il detto di Protagora, lo si è
fatto per una precisa scelta, per trovare una giustificazione al processo di
reificazione del mondo nella modernità occidentale. L’uomo greco è
completamente estraneo a questo processo, come pure in gran parte l’uomo
medievale.
Da Cartesio fino ad Heidegger sarà un’argomentazione vincente. Purtroppo, in
senso unilaterale, lineare, a senso unico. Se l’uomo
di cui si parla nel detto è stato spesso inteso come il soggetto di Cartesio, quasi due entità, due forme egologiche
adiacenti all’essere umano, ci penserà Heidegger a fare finalmente chiarezza
nel suo affascinante saggio degli Holzwege
(Sentieri interrotti). Il detto di Protagora, secondo il filosofo tedesco,
poggia su un principio tipicamente greco, tanto che il suo significato più
intrinseco è il seguente: «Di tutte le cose (cioè di
quelle di cui l’uomo fa uso e fruisce e perciò ha costantemente intorno a sé),
l’uomo (via via) è misura». Qui l’ego
non è riflessivo, ma si autorivela, come fanno (via via) le stesse cose del
mondo nella loro essenza ontologica. Mentre l’ego di Cartesio è il cogito che diventa
soggetto, che decide del mondo e delle sue cose ed anche di se stesso.
Risulta chiaro così come il significato più
intrinseco ed affascinante del detto di Protagora sia stato stravolto dal
pensiero moderno. Infatti, si tratta di due posizioni
ontologiche e metafisiche molto diverse, distanti. Nel precursore della
modernità l’ente è l’immagine del mondo ridotto ad oggetto. Da qui ne consegue
l’inevitabile reificazione del mondo e
l’individualizzazione del soggetto. Se l’uomo è e si
ritiene soggetto, il mondo non può che essere (o esserne) l’oggetto. E del mondo fanno parte le cose, la società, l’uomo stesso.
Avere sotto (sub) di sé, sotto il
proprio sguardo, gli oggetti significa non confondersi
con la realtà oggettiva, con l’altro da sé. L’alter è sempre un oggetto. Di conseguenza è l’essere reificato, e
con lui tutto il mondo reale.
Questa visione ontologica
dell’immagine del mondo produce inevitabilmente l’interiorizzazione
dello stato di coscienza, che l’individuo ritrova solo ed esclusivamente dentro
di sé: Noli foras ire. In te ipsum redi,
in interiore homine habitat veritas, dice Agostino nelle sue Confessioni. Non uscir fuori. La verità è solo dentro di noi. «L’uomo, quale essere razionale
in senso illuministico, è non meno soggetto dell’uomo che si concepisce come
nazione, si vuole come popolo, si coltiva come razza e infine si erige a
padrone dell’orbe terracqueo» (Heidegger, 1997).
2. Ma le cose stanno
veramente così? Oggi gli studi cognitivi e costruttivistici e le
sperimentazioni delle neuroscienze ci indicano che la
coscienza è un sistema complesso che coinvolge il cervello, il nostro corpo e
la realtà che è intorno a noi, sia materiale che immateriale. Se così non
fosse, sia il mondo sia il soggetto, oltrepassati nella loro rispettiva
oggettività, altro non diverrebbero che il mero nulla,
anche se ciò vuol dire che l’essere non sarebbe un semplice niente, ma neanche
un certo qualcosa. Ecco perché la deriva
delle scienze moderne, comprese quelle antropologiche, sociologiche ed
economiche, incrocia questa semantica contorta e dondola sull’ambivalenza gnoseologica dei termini legati
all’infinitamente piccolo ed all’infinitamente grande, sul limite e
sull’illimite, sull’individuo e sulla società, sul locale e sul globale.
Se il Sud del mondo (e in particolare il
Meridione che a noi interessa più da vicino) non si è modernizzato, si è
pseudo-modernizzato o peggio ancora si è modernizzato male e rocambolescamente,
una ragione ci deve essere. Questa è da scoprire nella visione del mondo che
questa parte di mondo ha avuto ed ha, sfuggendo alla marginalizzazione
culturale e storica del pensiero dominante, che ha sempre stentato a coglierne
la sua identità essenziale. Voler definire, pertanto, dei principi e dei strumenti dell’agire locale per uno sviluppo inclusivo
della società (come prevedono alcuni di fare) e, in particolare, di quella
mediterranea, ovvero definire teorie e pratiche, progetti ed imprese nella
realtà sociale odierna del Sud del mondo e del Meridione, significa in primo
luogo iniziare a ridefinire lo statuto dell’essere, cioè rimettere nei termini
più propri la nostra visione del mondo, la concezione ontologica della nostra
visione del mondo, e quanto essa sia in linea o meno con l’immagine del mondo
della modernità nord-occidentale e quanto ancora più specificatamente e
sinceramente appartenga alla nostra identità e alla nostra cultura
mediterranea.
Partendo
dall’analisi fenomenologica husserliana, questa metodologia altro non vuol fare
che mettere tra parentesi l’oggettività,
come afferma Humberto Maturana, della realtà, per poter eideticamente
riformulare una visione del mondo non inficiata da stereotipi od arcaicismi
congetturali dati per scontati, perché s’intenda nel suo insieme complesso
l’uomo, il territorio e la realtà (sociale, economica e politica).
Cosa vuol dire, allora, sostenere, come spesso in
varie sedi si sostiene, oggigiorno di voler essere soprattutto pratici? Dare
per scontata la teoria precedente, cioè la visione del
mondo ridotto ad un’immagine? Intervenire supinamente e
incoscientemente nella manipolazione del mondo e della realtà? Non si
sono portati avanti proprio in questo modo i famosi Patti Territoriali per
l’Occupazione di qualche anno fa? Spero che fermamente non si continui su
questa strada! Ci sono parole che non sono state inventate dal nulla. La parola
patto ha in sé soltanto questo
semplice significato o vuol dire anche comprendere,
nel senso weberiano del termine, l’essenza dei luoghi, della società, delle
comunità, degli individui con cui si pensa di agire? In una parola l’essenza
dell’essere. Credo che gli stessi PTO, prima di tentare di diventare esperienze
pratiche (lì dove sono riusciti a diventarlo veramente o solo per finta) siano
scaturiti da basi teoriche e da profonde riflessioni (De Rita/Bonomi, 1998).
3. E cosa vuol dire
voler sfuggire alla teoria? Non perdere tempo in stupide argomentazioni
astratte? Darsi da fare per trovare delle soluzioni frettolose? Abbiamo perso
la misura del nostro pensare e del nostro agire, soggiogati come siamo dalle
conquiste materiali e consumistiche della modernità e dell’occidente
cristiano-illuminista. Non ci piace ammetterne i limiti, altrimenti corriamo il
rischio di vederne crollare l’intera impalcatura. In realtà non pensiamo più
per agire e non agiamo più pensando. Infatti, ancora una volta l’unità tra
pensiero ed azione, tra teoria e pratica si concretizza
nell’ambiziosa congettura ontologica, nella parziale e particolare
concettualizzazione ontologica su cui fondiamo il nostro agire e le nostre
attese, da cui proviene la nostra visione del mondo e della realtà, e, spesso,
la nostra depressione e il nostro senso d’impotenza.
Non siamo, oltretutto, dei
geni, che pensano ed agiscono simultaneamente, che agiscono, come suol dirsi, senza pensare. Individui di questo
genere nascono di rado: Mozart scriveva direttamente in bella copia la sua
musica. Leonardo creava opere d’arte fin dai suoi schizzi, pensava ed agiva
producendo macchine perfette e funzionanti. Anche noi
facciamo spesso delle azioni simultanee con il pensare, ma si tratta di gesti
semplici, abitudinari, tradizionali… Quando agiamo senza pensare, con finalità
complesse, combiniamo guai seri, come fu fatto con l’industrializzazione del
Mezzogiorno, tanto per fare un esempio poco piacevole a molti economisti e
politici del dopoguerra, ai cui allievi perseveranti dei nostri giorni
occorrerebbe dare pala e carriola per raccogliere le montagne di ferraglie
arrugginite sparse per territorio.
Inconsapevoli del proprio dono
naturale, i geni, individui certamente molto più umili di tanti nostri contemporanei,
ci hanno comunque insegnato che la sapienza è figliola della sperienza, tanto per dirla con
Leonardo. Ma questo non significa che ad un genio come Leonardo la sapienza derivasse dalla esperienza, dalla pratica, ma che ogni
conoscenza diventava tale soltanto dopo essere stata sottoposta al vaglio del metodo sperimentale. Siamo
agli albori dell’epoca moderna, la lingua è ancora semplice e rozza. La
semantica di Leonardo è già quella della scienza futura, che si caratterizzerà
come scienza sperimentale, differente dall’episteme
greca e dalla scientia-doctrina
medievale. Non si intenda, pertanto, il detto
leonardesco, secondo la stupidaggine vernacolare e popolare che «vale più la
pratica che la grammatica». L’epoca moderna si preannuncia,
come abbiamo visto, con una nuova base ontologica e, soprattutto, con una
conquista teorica notevole: la metodologia.
Bacone, l’ultimo dei maghi e il
primo degli scienziati, saprà farne largo uso. Cartesio ne è
il cesellatore teorico per eccellenza. Stranamente, le scienze fisiche,
meccaniche e matematiche, che furono le prime ad avvantaggiarsene, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, se ne sono
ampiamente discostate tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, progredendo
peraltro notevolmente: fisica quantistica, teoria della relatività, geometrie
non-euclidee, aereonautica spaziale, teorie astronomiche e dell’antimateria,
teoria cibernetica ecc. I progressi e i risultati sono sotto gli occhi di
tutti, anche di tipo pratico, anche se non esclusivamente. Mentre
le scienze sociali e umane in questo campo sono in forte ritardo.
Avrebbero ogni motivo per avanzare, ma sono ancorate a
degli stereotipi paradigmatici ancora retaggio dell’epoca pre-industriale. E spesso sono in mano a baronie d’eccellenza che ne tarpano
lo sviluppo del pensiero.
4. Come accostarsi oggi alla realtà? Max
Weber ci ha insegnato il procedimento idealtipico,
con cui leggere e fornire una spiegazione dei fenomeni sociali (1958). Ma l’idealtipo è soltanto una guida, deve essere sempre
sperimentato e non può essere inteso esaustivamente e definitivamente. Si è
andati avanti per qualche anno con questa metodologia nelle scienze
storico-sociali, ma di recente molti fenomeni storici
e sociali complessi non riusciamo più a capirli, a spiegarceli, con questo
metodo, soprattutto quando interveniamo con delle azioni nella società e ci
poneniamo attese razionali rivolte allo
scopo che non si concretizzano con gli sperati effetti (o solo con gli
efferati effetti?), che ci fanno avvilire e scoraggiare, tanto il contesto
sociale è diventato complesso ed instabile, indefinito e persino irritabile.
Come
proporsi, allora, un approccio sistemico ed aperto? La realtà sociale è altra da noi o noi
stessi siamo la realtà? Si
badi bene a non trascurare la differenza tra l’essere la
realtà e l’essere una parte della realtà. Chi opera
nelle scienze sociali ha il dovere di sapere, come dice spesso Stefano Zamagni,
che opera con una doppia
ermeneutica,
il che vuol dire che, anche quando si esprimono idee e pensieri, si influenzano contingentemente, e si decidono, le sorti
della realtà sociale. Questa è una grande
responsabilità, per lo scienziato sociale, ovvero, per l’antropologo, per il
sociologo o per l’economista. E il politico comunque
non può defilarsi o rendersi indipendente. Ma c’è
dell’altro: «C’è un sottile significato
in questa responsabilità crescente e silenziosa della dinamica
sociale: il sistema non vive solo di mercato e dei suoi automatismi, così come
non vive solo di volontà politica; vive anche di continue interconnessioni fra
i soggetti individuali e collettivi» (De Rita, 1998). Solo che questo autore ne parla soltanto, dice solo parole, che
finiscono con l’essere solo vuote tiritere che riempiono vuoti contenitori che
vengono chiamati rapporti.
Ecco perché, prima di cominciare a pensare su come e su cosa progettare
nel territorio, considerato come un insieme complesso e sistemico, occorre fare
i conti con la nostra visione del mondo, capire e definire la nostra ontologia.
Gli avvenimenti che scuotono la realtà e il mondo derivano da come si intende includere o escludere nel nostro immaginario
rappresentativo la realtà sociale e il mondo, cioè di come noi formuliamo la
nostra visione del mondo (Weltanschauung).
Come fare, allora, ad intendere il
territorio nella sua accezione più ampia di ‘soggetto produttore complesso’,
costituito da valori materiali e immateriali? Come leggerlo se al posto di
un approccio sistemico si rimane teoricamente e praticamente
ancorati alle teorie del passato? Il territorio come risorsa, il capitale sociale come lievito, il fine ultimo, indefinito ed indefinibile, della crescita: aldilà dell’enfasi e della
retorica, non si è di fatto ancora nella logica
estrema della razionalità strumentale? Quanto senso ha oggi parlare della
partecipazione della società civile, peraltro rappresentata, come
è successo nell’esperienza dei PTO, quasi esclusivamente da sindaci,
sindacati, imprenditori e banche, se la visione sistemica prevede al suo posto
la differenziazione di sottosistemi sociali autoreferenziati?
Il teorico della teoria dei sistemi sociali, Niklas Luhmann, ha
espresso chiaramente il suo pensiero a proposito. Si può essere più o meno
d’accordo con la sua visione del mondo e della realtà, spesso asettica e
disincantata, ma le parole, e gli attributi delle parole, hanno un senso se vengono usati con il loro vero significato, almeno quello
che per convenzione è largamente accettato. È perciò importante parlar chiaro. Ma soprattutto non bisogna giocare con le parole. O ci si rifugia nella teoria dell’azione o si propende per
la teoria dei sistemi. O si ha una visione del mondo o
se ne ha un’altra. Senza le idee chiare a proposito, senza
una metodologia innovativa, ma nel vero senso della parola, si rischia soltanto
di enfatizzare l’intervento progettuale a livello sociale o politico, specie se
ci si affida supinamente ai classici attori forti
(o auto consideratisi tali?) che con manovre spesso consociative, più che
concertative, decidono sic et simpliciter
il loro ruolo invasivo-decisivo e non semplicemente partecipativo alla stesura del progetto locale.
È proprio questa logica legata all’azione razionale, orientata
strumentalmente allo scopo, che ha portato alla devastazione della società e
del territorio, disperdendo le dimensioni del locale e l’identità comunitaria,
distruggendo le relazioni sociali e le qualità umane e culturali, creando
problemi di governance politica a
tutti i livelli (dai quartieri all’Unione Europea) e inducendo larghi strati
della popolazione ad abbandonare il dibattito pubblico, la discussione e
l’impegno. Dobbiamo capire oggi finalmente che «manca ciò che sta in mezzo tra
ciò che non è più, un locale pieno di relazioni e comunità non più date, e ciò
che non è ancora, un globale di reti immateriali»
(Bonomi, 1998).
5. Se la tradizione umanistica ha sempre
considerato l’uomo all’interno della società erede indisturbato della
centralità terrena – non scomponibile perché era impensabile separare le sue componenti essenziali, l’anima e il corpo – oggi si comincia
a capire che l’uomo stesso ha perso ogni centralità, perché non esiste più
alcun centro, né nella società né nell’universo (il concetto di a-centralità,
purtroppo, è di recente acquisizione e vale soprattutto per le scienze
fisico-astronomiche). Ne deriva pertanto che «l’uomo non è più il metro con cui
misurare la società. È questa idea dell’umanesimo che
non può perpetuarsi. Chi, infatti, vorrà sostenere seriamente e a ragion veduta
che la società possa essere plasmata ad immagine dell’uomo (con la testa in
alto, ecc.)?» (Luhmann, 1990). Politicamente ed economicamente è stato inteso
sempre così, mediante la verticalità dell’impresa capitalistica, della
burocrazia, della chiesa e dello stato moderno.
Da qualche decennio le cose si
sono complicate e stanno cambiando: ha giocato un ruolo importantissimo la comunicazione. Più che della società, il
sistema uomo, insieme con tutte le sue pro-duzioni (per tornare ad Heidegger), è
parte dell’ambiente. «Se l’uomo viene considerato come
parte dell’ambiente della società (anziché come parte della società stessa), si
modificano i presupposti di tutte le problematiche poste dalla tradizione, e
dunque anche i presupposti dell’antico umanesimo. Ciò non significa che,
rispetto alla tradizione, si attribuisca all’uomo un
valore minore. Chi fa simili congetture […] non è riuscito a comprendere il
cambiamento di paradigma all’interno della teoria sistemica» (Luhmann, 1990).
Sarà dunque il caso di capire
cosa avviene in una società complessa come la nostra, dove per complessità si vuole intendere un
insieme di elementi sociali che, necessariamente e
liberamente, si connettono selettivamente secondo un gioco combinatorio che si
auto-rappresenta come una lunga deriva
sociale, economica, politica, ecologica ecc.? O ci si vuole semplicisticamente
adoperare con delle azioni dirette allo
scopo per migliorare la società e il suo corso? Sono due ipotesi di lavoro,
ma occorre scegliere. Vale però la pena ricordare che non conviene, al punto in
cui siamo, scegliere la soluzione più semplice. Infatti: «Si
potrebbe essere tentati di affermare semplicemente che gli uomini e i sistemi
sociali si intersecano in singoli elementi, cioè in
azioni, che le azioni sono azioni umane, ma sono presumibilmente allo stesso
tempo le pietre che compongono i sistemi sociali, e che quindi i sistemi
sociali non esistono senza un agire umano, esattamente come, inversamente,
l’uomo può acquisire la capacità di agire soltanto nei sistemi sociali. Questa visione non è errata, ma troppo
semplicistica» (Luhmann, 1990, corsivo
mio).
6. C’era da aspettare i fatti dell’11
settembre 2001 per avvedersi di come sul nostro pianeta la forbice degli
esclusi e degli inclusi era diventata sempre più
grande, tra Nord e Sud del mondo, tra occupati e disoccupati, tra lavoratori
decentemente retribuiti e lavoratori precari come gli LSU (lavoratori socialmente utili)? La risposta è già nella domanda,
solo che a molti non va di ammetterlo! Inoltre, non vedo una certa affinità,
quasi si voglia ‘fare di ogni erba un fascio’, (sempre
che non si voglia enfatizzare un avvenimento drammatico e cocente per il nostro
occidente opulento, la cui interpretazione e chiarificazione si spera che
avverrà in un prossimo futuro, la quale forse già esiste nel cassetto segreto
della politica internazionale), tra
l’attentato alle torri gemelle e le manifestazioni di rabbia esplosiva dei
lavoratori LSU di qualche tempo fa. Non mi sembra che le loro rivendicazioni
minaccino alcuna convivenza civile, quasi a voler intendere l’essenza di
quest’ultima nella convivenza consociativa della politica pubblica e sindacale,
che di fatto ha creato il problema LSU, abusando di
uno strumento normativo eccezionale, facendo man bassa (vedi Napoli e Palermo e
un po’ dappertutto nel Sud dell’Italia) di denaro pubblico, arrivando ad
inventarsi progetti socialmente utili,
dopo pochi mesi snaturati o diventati inutili,
illudendo ad libitum i prestatori
d’opera, portando avanti un disegno populistico e demagogico, nonché
propagandistico, fino a girare la boa con il cambio della sigla in LPU (lavori di pubblica utilità) verso la
fine del millennio, che presupponeva la stabilizzazione forzata in ambienti
lavorativi specifici e spesso fasulli, approntati per l’occasione. Nemmeno con
i cantieri di lavoro per morti di fame nel dopoguerra e qualche anno fa con
l’interessante, ma anch’essa snaturata nella sostanza, esperienza triennale di attività per i giovani ai sensi dell’art. 23 della L.
67/88 si era caduti così in basso. Almeno allora non si illuse
nessuno per tanto tempo. Pertanto, quando si creano attese e si fanno promesse
e poi quelle diventano illusioni e queste non si mantengono, allora la gente si
ribella e manifesta la sua rabbia proprio contro gli artefici di tali
malefatte. Questo però è un discorso che con le torri di New York non ha niente
a che vedere. Lì ci troviamo su un altro piano conflittuale.
7. Ora, mi chiedo, come inquadrare questo
percorso di ricerca verso la riflessione in un coacervo di mentalità con cui il
Meridione fa i conti da circa un millennio? È proprio da tanto tempo che tra la
gente del Sud si stenta a parlare di locale, di capitale sociale, di inclusione, di relazione, di concertazione, di patto, di
cooperazione e di comunità. Si può non essere pienamente d’accordo con
l’analisi spietata del Putnam (1993), ma sta di fatto che storicamente
all’inizio del primo millennio il dilemma del vivere collettivo venne risolto dal progetto imperialistico di Federico II,
che, eliminando da una parte gli abusi e le vessazioni dei baroni del sud sulle
popolazioni, impedì nel contempo la capacità auto-determinante ed
auto-organizzativa delle comunità locali e la libera partecipazione dei singoli
alla costituzione del bene comune. Cosa ben diversa avvenne con i Comuni del
centro-nord dell’Italia, che riuscirono a coalizzarsi
nei momenti di bisogno, come ad esempio contro il Barbarossa. È in quella
lontana cultura dell’alleanza e del patto che si intravede
la capacità associativa e cooperativa di quelle regioni, valida anche in tempi
recenti.
Ritorniamo e guardiamo, pertanto,
per un attimo, chi sono, dopo il ritiro dell’intervento statale straordinario
nel mezzogiorno, gli attori principali dei PTO: i sindaci, le rappresentanze
sociali, l’imprenditoria locale e le banche. A questo punto, a qualcuno
sembrerà strana questa mia argomentazione, ma guarda caso sono tutti degli attori che contano su un’autonomia
economica di gestione, cioè hanno tutti fondi in
denaro che provengono da diverse modalità di raccolta, certo non dalle loro
tasche. Il sindaco, tramite il comune, riceve fondi, finanziamenti e tasse che
gestisce e devolve secondo il principio della
re-distribuzione. La rappresentanza sociale sopravvive in virtù di quote
in denaro proveniente dagli iscritti e da finanziamenti. L’imprenditore, oltre
a contributi pubblici, reinveste per un suo tornaconto parte degli utili, al
fine di aumentare il suo volume di affari. Infine, la
banca possiede il più sofisticato marchingegno di
creazione dal nulla di moneta, in virtù delle raccolte di risparmio privato,
della gestione dei prestiti e degli incassi di commissioni per transazioni tra
la clientela. Come si vede chiaramente, tutti questi attori locali hanno la
possibilità di spendere denaro senza cacciare una lira (oggi si direbbe un
centesimo) dalle proprie casse ed è presumibile che se lo fanno per un progetto
di utilità pubblica finalizzato al benessere, lo fanno
principalmente per proprio tornaconto, anche se quest’ultimo concetto risulta
certamente diversificato nel suo significato dall’accostamento dei vari agenti di sviluppo (sic!). Quando invece il
cittadino, o un gruppo di cittadini, ha intenzione di
promuovere un progetto può farlo solo se viene finanziato da almeno uno di
questi quattro attori, altrimenti deve rinunciare. Il problema allora è sempre
lo stesso: chi paga? E come dice il detto: Chi
paga la banda sceglie il pezzo di musica da far suonare.
L’autotassazione è un espediente precario e inconcludente: in
effetti non dura nel tempo.
8. Come si fa pertanto ad intendere i fondi
pubblici come beni comuni della collettività?
È risaputo, ormai, che questi quattro attori chiave della cosiddetta società
civile rappresentano solo una parte della stessa,
anche se la monopolizzano. Oltretutto sono soggetti alla
regia asfissiante di uno stato centralizzato e ancora molto accentratore, che
non dimentica il suo ruolo modernizzatore unilaterale.
Passare perciò dalla concezione
di pubblico a quella di comune rappresenta il nocciolo della
questione. Non possiamo pretendere di fare
comunità o di fare sistema pensando
di poggiarci all’azione di tipo pubblico o a quella di tipo privato, né
contemporaneamente ad entrambe. Emerge su questo punto il dibattito ancora per
molti tabù in Italia: il bilancio partecipativo. Sarebbe
interessante, per esperimento, prevedere una sorta di cassa comune, dove far confluire fondi ricavabili impersonalmente e
per scelta, alla stregua dell’8/1000 della
dichiarazione dei redditi, differenti però nella sostanza ideale da quelli che
vanno alle chiese o allo stato. Tali fondi potrebbero essere a disposizione di
quei cittadini che abbiano in testa un progetto di
sviluppo locale, che possano intraprenderlo senza sentirsi vincolati
dall’approvazione di chicchessia (ricordiamo che i PTO erano soggetti
all’approvazione centralizzata dello stato mediante gli uffici del Ministero
del Bilancio), se non dalla stessa comunità di appartenenza dopo un ampio
dibattito pubblico.
Capisco che nessuno vorrebbe rischiare questa strada, tanto è
insinuante il timore che qualcuno fugga
con la cassa. Ma quanti fondi pubblici destinati a progetti di sviluppo locale
non hanno preso la via della frontiera italiana per confluire nel corso degli
anni sui conti correnti personali di personaggi pubblici e privati privi di ogni scrupolo?
È comunque
molto difficile al giorno d’oggi, almeno in Italia, proporre una cassa di denaro comune di questo genere,
ma non è impensabile farlo con un fondo
non monetario, con un fondo di ore o
di unità di conto fittizie, che un
sistema di scambio locale non monetario può autonomamente creare. Si dibatte attualmente sulle frontiere di una nuova economia in campo
internazionale, si parla di Monete sociali (Argentina), Time-Dollars (USA),
Unità di conto lets o sel (Gran Bretagna e Francia), ore o frazioni di ore
nelle Banche del tempo (Italia) ecc. Ho scritto molto su questo. (2001, 2002,
2003). Ci si sta cominciando a porre, inoltre, la domanda se la vera ricchezza
di un paese sia solo quella derivante dalla
contabilità nazionale che determina il PIL o da altro (Viveret, 2005). Oppure come fare ad accostare o a far emergere beni «posizionali» e
beni «relazionali» in una comunità (Zamagni, 1997).
Seguire questi orientamenti,
strampalati agli occhi di molti, che farebbero sicuramente storcere il naso ad
economisti incalliti e puri, sarebbe comunque un
progetto di ricerca interessante. Di questi gruppi di scambio locale non
monetario ne parla lo stesso Bonomi nelle sue Dieci tesi per lo sviluppo locale (1998), pur con uno strano accostamento concettuale, come
pure ne intuisce l’importanza, in qualche spunto isolato, Alberto Magnaghi nel
suo Progetto locale (2000). Ma ci sarebbe molto da approfondire su questo tema.
9. Già oggi, e maggiormente nell’immediato
futuro, il vero problema dell’esclusione non riguarderà tanto il campo dei beni
posizionali e materiali, ma soprattutto l’ambito relazionale, dei servizi e
dell’informazione (Rifkin, 2000). I veri poteri sono quelli che gestiscono e
determinano l’accesso alle informazioni. È nei nodi informazionali che si gioca la
partita per il dominio del mondo e del futuro. Un progetto che mira
all’inclusione deve garantire la possibilità di accesso
a tutti. Se poi qualcuno si dimostra svogliato o non
interessato, occorrerà capire perché e bisognerà stimolarlo e invogliarlo alla
partecipazione nel progetto comune. Questo è il ruolo della nuova
pedagogia in generale ed il dovere della politica in particolare.
Rivedere il paradigma economico
significa ripensare il ruolo dell’economia nella società post-moderna. Non
occorrerà, come sostiene provocatoriamente Rifkin, rimandare a scuola gli
economisti e rifare loro studiare l’economia seguendo i princìpi della
termodinamica, perché imparino che il fine della scienza economica è quello di
salvaguardare le risorse, i consumi e la vita del pianeta. Di certo, però, un
corso di ri-qualificazione accelerato non farebbe male a molti di loro. Infatti, non si può bruciare un patrimonio energetico in
pochi anni senza preoccuparsi minimamente di come favorirne la rigenerazione.
Abbiamo preferito utilizzare energie puramente materiali senza neanche riuscire
a sfruttare una minima parte dell’energia vitale, che, come ha detto Einstein, è uguale alla massa moltiplicata per la velocità della luce
al quadrato.
Chi ha iniziato a sfruttare in piccola parte questo principio sono i sistemi delle comunicazioni.
Il concetto di locale ne è risultato sconvolto. Il globale ha fatto la sua irruente apparizione. Fenomeni
inattesi sono diventati oggetto di attenzione,
discussione e paura a tutti i livelli. I mezzi telematici della comunicazione,
risultato dell’era dell’elettricità (McLuhan, 1999), hanno eliminato ogni
barriera relazionale, culturale, economica, informativa. Dalla propria casa si
può essere in costante e diretto contatto con il resto del mondo, con chi
gioisce e con chi soffre, con chi costruisce e con chi specula, con chi
combatte guerre inspiegabili e con chi muore senza poter combattere la propria
battaglia per l’esistenza. Il paradosso è che riusciamo a dialogare così bene
con un amico sconosciuto oltreoceano
e per niente con il nostro vicino di casa. Le categorie dello spazio e del
tempo non hanno più lo stesso significato di qualche decennio fa. Il concetto
di locale non ha senso se non guarda al globale e
viceversa: si è coniato il neologismo di glocale,
ma è difficile rendere il significato, perché i termini in sé hanno perso il
significato originario. Gioca perciò un ruolo determinante
il nostro immaginario, la nostra rappresentazione del mondo e delle cose, della
realtà, il paradigma ontologico che
ci siamo costruiti per rappresentarci la realtà, gli altri e… noi stessi.
10. Passare dall’idea di progetto locale a
quella di sistema locale è un po’ complicato. Ma
bisogna scegliere e, soprattutto, parlar con onestà. Implementare delle innovazioni è tutt’altra cosa che fare delle azioni dirette allo scopo. È come
inserire un pattern, un virus: può
non funzionare, ma se funziona… saranno guai
per chi è abituato a reggere e a tirare le redini del sistema, per chi vive
professionalmente della gestione del potere, per chi fa del potere la propria professione,
come già ci ricordava Max Weber molti anni fa (1973).
Anche il mito dello sviluppo e
del progresso ad oltranza, riferito a beni materiali e
di consumo da accumulare, è da sfatare. Quello che non sono
riusciti a fare Mercenari e Missionari lo stanno facendo i Mercanti (sono
queste le classiche tre M della globalizzazione). All’orizzonte sta comparendo
la quarta M, il Muro con cui si vuole arginare l’invasione degli immigrati,
destinato, come tutti i muri, comunque a crollare
miseramente. Che immagine ignobile abbiamo costruito
con il turismo internazionale, con cui l’opulenza occidentale ha via libera e
spazi infiniti, mentre chi muore di fame e di malattie deve affogare cadendo
dalle zattere di traghettatori mafiosi privi di ogni scrupolo.
Enfatizzare la legge 142/90 e
l’elezione diretta del sindaco nel contesto politico
italiano meridionale non è saggio. Se non ci fosse stata una Direttiva
dell’Unione Europea alla fine degli anni ’80 il Parlamento e il mondo politico
italiano non ne avrebbe nemmeno intuito la possibilità
e la necessità. E poi, quale elezione diretta del
sindaco se si tratta sempre di un candidato di due o più opposte fazioni che
entrano in competizione, dopo che tra le quinte della politica più deleteria si
è consumato un compromesso quasi privatistico? Nei piccoli comuni i candidati a
sindaco sono quasi sempre una strategia di poteri
locali che preferiscono rimanere nascosti. Nelle città e nelle metropoli si
gioca allo spasimo in anticipo per trovare un accordo strategico sul nome di un
candidato che garantisca ogni minima parte ed
interesse, spesso inserito nella logica della partitocrazia. Quando
raramente capita qualcuno che sia avulso da tali logiche, viene a trovarsi di
fronte a grandi difficoltà nella mediazione politica. Le eccezioni reali sono e
rimangono eccezioni!
Quale nuova municipalità su queste premesse
quasi gattopardesche? Quale democrazia di partecipazione, quale governance? Un esempio emblematico: gli statuti comunali fotocopiati e approvati
negli anni ’90 dai Consigli comunali senza il minimo dibattito, senza alcuna
riflessione, senza alcuna discussione, senza alcun coinvolgimento diretto e
senza partecipazione della cittadinanza. Siano fatte salve, anche su questo, le
debite eccezioni, che purtroppo… non
confermano la regola.
11. Ho partecipato il
19 ottobre 2002 ad un interessante convegno internazionale organizzato a Rimini
dal Centro Ricerche Pio Manzù. Le conferenze vertevano su una serie di
problematiche raccolte nell’allegorico titolo «Il corno di Heimdall». Sottotitolo più
chiarificatore era: Cittadinanza
terrestre, nuova alleanza fra uomini, idee, culture. Il fondamento
teoretico era sintetizzato nel seguente principio: «La comunanza
nell’incertezza e la relazione di inseparabilità di
ogni essere l’un l’altro, sono il vincolo concreto della nuova identità umana».
Esigenza di connessione, dunque, di essere e di fare
rete, di contatto, di reciprocità. La
novità di oggi è che l’esigenza di armonia è divenuta
mondiale. A questa esigenza si provvede proprio
mediante il riconoscimento dell’identità, con la democrazia partecipativa (termine che ancora i
dizionari elettronici sottolineano in rosso perché lo non riconoscono
automaticamente) e non soltanto di delega, con l’armonia ecologica dell’azione
(politica, economica, strutturale). Il
nostro problema è che non sappiamo ancora ‘collegare le conoscenze’ , come osserva
Morin, e porci in relazione in quanto
comunità di un pianeta in cui ognuno è condizionato dalla stessa generale
possibilità di speranza o di distruzione. Ma
proprio per questo il corno di Heimdall
suona per chiamare individualmente alla responsabilità verso il futuro. Invoca
i costruttori di armonia a formare una rete contro la
brutalità. Un’armonia senza responsabilità per la Natura
minaccia non solo il divenire dello sviluppo, ma ogni divenire contestuale
all’uomo.
Ho voluto riportare in corsivo alcuni brani del libretto di
presentazione del convegno. I temi sono stati
approfonditi da numerose conferenze. Si discute da tempo
su questi temi, ma ci sfugge, come pure sfugge al Centro Pio Manzù, la
problematica epistemologica del concetto di rete, di come fare effettivamente rete, forse perché diamo per scontato che siamo
già una rete, per una semplice scelta semantica, e che sappiamo cosa sia o come
si debba intendere una rete. Su questo, l’ho detto sempre apertamente in varie
occasioni d’incontro, nutro seri e sereni dubbi. È un concetto su cui abbiamo
sorvolato, che abbiamo rinunciato ad approfondire e a valutare
metodologicamente e a livello epistemologico. I temi dell’identità, della
democrazia e dello sviluppo locale non sono aleatori e superficiali,
soprattutto di fronte allo scenario agghiacciante, ad esempio, delle acciaierie
di Bagnoli, ormai dismesse e abbandonate all’invasione della ruggine, e di
tanti altri scempi apportati alla natura e ai luoghi e di ogni
principio armonico relativo al processo di sviluppo socio-economico del secondo
dopoguerra. Impensabile, fino a qualche anno fa, lo sforzo di
attività a Città della Scienza e della Fondazione Idis, che getta una
luce di speranza nel recupero di un’area, come quella di Bagnoli, stravolta
dalle eccitazioni maniacali legate al progresso e allo sviluppo. Se ci si pone
di fronte questi temi è perché si sente fino in fondo
la responsabilità che sia d’obbligo ricercare un equilibrio, un’armonia di
diversità culturali, di regole democratiche e di sviluppo socio-economico. Se
non fossimo su questa lunghezza d’onda saremmo dei
semplici… americani! Ma non è nostra intenzione recare offesa a questo splendido
popolo governato spesso da persone a dir poco criticabili. Penseremmo, infatti,
ad investire soltanto nella cultura dei consumi e dell’indebitamento da carte
di credito, le uniche velleità che ritardano (e ritardano soltanto, si badi
bene) il collasso del sistema opulento del modello nord-americano. Qualcuno in
Italia ci stimola a fare altrettanto dalle pagine de Il Sole24ore o da tivù pubbliche e private: ma noi italiani siamo
e, forse, speriamo di esserlo nel futuro, senz’altro più cauti e prudenti! Non
ci piace far parte di quella cultura, non ci piace quel modello suicida, anche
se qualche scrittrice di grido dell’ultima ora, dal nome che sembra quello di
un fungo velenoso falloide, se ne fa
portavoce e promoter di qualità.
Equilibrio ed armonia investono in pieno il destino dell’individuo e
della comunità, ma anche delle nazioni e del pianeta. È proprio su questa
tendenza, avvertita in ogni angolo del mondo e da ogni coscienza, che nasce la
domanda di armonia, che non è una nuova moda new age, ma una vera e consapevole
necessità, perché il rischio è l’estinzione e che, per buona pace di molti e
senza falsi pudori, sorge dalla
sofferenza della singola persona, dagli umani rapporti e attraverso la comunità
terrestre raggiunge un nuovo senso storico del globo.
12. Da questa percezione più o
meno condivisa a livello mondiale nasce e si progetta un mutamento radicale di visione, si cerca un nuovo paradigma, si
elabora una nuova ontologia. Cominciato
trent’anni fa con una coraggiosa ridefinizione della natura e dell’universo,
raccoglie oggi i lembi del sapere disgiunto e disseminato, annunciando una
sorprendente figura di conciliazione e di armonia.
Tale si è dato, dalla medicina alla biologia, dalla fisica evolutiva
all’ecologia, alla cosmologia, alla psicologia, alla sociobiologia, alla
bioenergetica, l’avvento delle cosiddette ‘scienze della complessità’, che possono tollerare altrimenti la definizione di scienze
d’armonia. Non c’è un primato di una singola disciplina, di un singolo
sapere. Tutto è in relazione, tutto tende a stabilire
un reticolo infinito su cui si comincia ex novo a tessere l’interminabile abito
della conoscenza. Sembra finalmente chiusa l’era degli
assolutismi: perenniter philosophare,
dunque, e non philosophia perennis di
hegeliana memoria. Chi è rimasto ancorato ad una visione esclusivamente
economicistica (anche questa assolutistica e unica = pensiero unico!) del mondo
e della società è destinato a rimanere irrimediabilmente indietro, a guardare
il mondo e la società che si orientano verso nuovi orizzonti dell’esistenza.
Chi ha invece solo preoccupazione e cura del
potere espresso dalla politica (spesso questa è stata intesa come esclusivo
primato di pochi, che oggi si chiama con un eufemismo accademico bipartisan: la classe dirigente) è destinato a rimanere da solo e deluso, chiuso
nella propria stanza di bottoni che non danno più alcun input per qualche sperato output,
perché il potere politico nulla può per impedire la conoscenza e l’informazione
in altri ambienti socio-culturali. Chi narcisisticamente poi guarda se stesso, la sua identità rozza e
risolve i suoi problemi rifugiandosi nel solipsismo degli identarismi
cade inesorabilmente nello stagno putrescente del fondamentalismo integralista
più illusorio e grossolano. Una sfida, dunque, quella che è rappresentata dalle
frasi fatte, dagli argomenti dati per scontati: tutto è in movimento, idee,
uomini, comunità, popoli. La ricerca di equilibrio e
di armonia investe ciascuno di noi. Questa va fatta in ogni angolo di mondo e
in ogni anfratto del nostro cervello, delle nostre conoscenze, delle nostre
lingue, delle nostre civiltà. È un bisogno del singolo, ma anche dell’intera
umanità. L’umanità, le economie del mondo, le filosofie, le arti possono
rispondere nichilisticamente, ma anche secondo responsabilità
e fermezza, senza sogni di assolutezza, ma con spirito costruttivo per tessere una lucida rete di cercatori
d’armonia.
13. Il filosofo Jean-Pierre Vernant, nel convegno di cui ho ampiamente
parlato prima, ha detto chiaramente che in oltre tremila anni si è abusato con
i significati delle parole. I termini si sono confusi, i concetti si sono
dilatati: occorre ridefinire i significati originari delle parole. C’è una grande necessità di rigore semantico, soprattutto c’è
bisogno di mettere in chiaro molti episodi e leggende che sono fatti passare
per storia, che sono solo credenze e che hanno inficiato il significato
intrinseco delle parole. È chiaro che se si procede su questa strada molte
verità e molte certezze cominceranno inevitabilmente a crollare e molte
illusioni si riveleranno tali.
Questa operazione non può più essere evitata, perché è necessario
ricostruire il nuovo statuto della conoscenza, per liberarsi dalle
incrostazioni pseudo-culturali che inaridiscono le semantiche delle lingue e
dei popoli. Non bisogna vergognarsi di pronunciare alcune parole, ma bisogna
sforzarsi per capire fino in fondo perché ce le
troviamo davanti e perché ci sentiamo obbligati a pronunciarle e ad inseguirne
il fascino arcano. È il caso delle parole sviluppo, capitale e di tante altre
che quando non ci soddisfano più così come sono, le accoppiamo con degli
aggettivi per renderle più… gradevoli e sostenibili,
più umane, più durevoli. Sono costrutti aleatori, semplici ossimori, come dice Latouche, che lasciano il tempo che trovano.
Occorre ritrovare l’intelligenza delle parole, dunque, per essere il più possibile chiari e precisi, schietti e sinceri, per
dire con genuinità e senza sotterfugi quello che abbiamo nella nostra testa,
fermo restando che ogni nostra parola è sempre il cadavere esangue del nostro
pensiero più originario ed originale. Immaginiamoci, poi, cosa potranno essere
quelle parole che noi scriviamo e trascriviamo sulla carta o in video
scrittura. E soprattutto, quando si intraprende un
cammino di ricerca, da soli o in compagnia di viandanti disorientati (forse perché non guardano più anche ad oriente, ma
sempre e soltanto ad… occidente!),
conviene non incamminarsi scorrettamente con due piedi nella stessa scarpa, ma
indossare naturalmente con entrambi i piedi calzari diversi, senza costrizioni
e senza sotterfugi. Se poi i piedi che
si affiancano ai nostri sono molteplici e le scarpe altrettante e di varia
misura e fattura, forse si perderà in omogeneità di pensiero e di idee (questa è stata una mania per la modernità, ma è una
ricchezza per la post-modernità), però si guadagnerà in compagnia, in
creatività e in nuove proposte, in un’osmosi di pluralità e d’innovazioni. In
parole povere questo è in sostanza la rete.
È stato scritto a chiare lettere, d’altronde, nell’epigrafe di un sito
Internet: “Per una rete dei saperi e
delle competenze del mezzogiorno d’Italia”. Se poi qualche estemporaneo
stenta ad adattarsi e pretende di dettare le regole
del suo pensiero unico, fare periodicamente
la sua predica-lezione di saccenteria petulante… pazienza, in una rete si deve far posto anche a costui.
Lasciamo pure che qualche colonizzatore di menti, qualche
goliardico grande fratello delle coscienze, gridi a squarciagola che
così facendo si pensa…coi piedi!
Meglio pensare con queste estremità del nostro corpo… che non pensare affatto,
visto che normalizzandosi nell’univocità, di fatto ci si uniforma
esclusivamente alla deprecabile forma di pensiero
unico, che da Hegel in poi fa proseliti tra le folle che si accalcano nelle
piazze e nei centri commerciali, quasi macchine impazzite con
alla abili manovratori che non perdono la benché minima occasione di
arrampicarsi sempre e comunque sui carri dei vincitori. È per questo motivo che
auspico che si parli chiaro e che si argomenti genuinamente concetti come
identità, democrazia e sviluppo locale.
Inoltre, ritengo che il concetto di rete sociale e la sua metodologia
debbano essere approfonditi, in quanto necessari per
una epistemologia delle relazioni e dell’interazione. Sento che l’ambiente
culturale internazionale si muove su questo sentiero e mi sovviene e mi
sostiene il passo di uno scritto del compianto Francisco Varela (biologo,
epistemologo e fenomenologo cileno, allievo e amico di Maturana, morto
prematuramente nel 2001, a cui ho dedicato un mio libro del 2003), che riporto
di seguito:
«Gli sviluppi significativi della scienza
cognitiva sono dovuti quasi esclusivamente all’orientamento
cognitivista-computazionale o a quello connessionista. […] Il connessionismo in
particolare ha reso possibile un’idea rivoluzionaria, quella delle tradizioni e
dei ponti fra livelli esplicativi, più nota come ‘filosofia dell’emergenza’: la
maniera in cui regole locali possono dare origine a
una proprietà o oggetti globali in una causalità reciproca».