Conclusione

 

 

 

 

È molto difficile inquadrare in modo definitivo tutte le strutture sociali o mentali in cui poter rilevare una differenza di genere. La difficoltà consiste nel fatto che un’analisi precisa sarebbe in ogni modo viziata da una certa visione del mondo, che porterebbe a considerare solo alcuni aspetti e non altri come degni d’importanza; potrebbero essere trascurati, infatti, altri fattori che, a mio avviso, sembrerebbero far parte di un ordine naturale, contro il quale non si possa di fatto fare nulla. Scardinare le apparenze e lavorare per svelarle può esporre a rischi di condanna, sia da parte dei conservatori sia da parte dei progressisti.

È quello che è successo in seguito alla Legge francese per la salvaguardia del principio di laicità nella Repubblica, declassata subito, soprattutto dalla stampa, a semplice legge sul velo. In dibattiti vuoti e consunti, dove la maggior parte degli intervenuti dimostrava molta presunzione, non si è mai potuto assistere ad una disamina attenta della norma: non si è mai accennato al fatto, per esempio, che l’obbligo di non portare a scuola simboli religiosi o politici appariscenti scaturiva dalla necessità d’impostare un percorso educativo privo di condizionamenti di parte, che di fatto sono estranei alla funzione educativa stessa di cittadini liberi e coscienti. Infatti, l’argomentazione nei confronti delle università, frequentate da persone maggiorenni, prendeva toni e spunti diversi. Nel Rapporto della Commissione guidata da Bernard Stasi si legge: «La situazione dell’Università, anche se fa parte integrante del servizio pubblico dell’educazione, è completamente differente da quella della scuola. Vi studiano persone maggiorenni. L’Università deve essere aperta sul mondo. Non è dunque questione d’impedire che gli studenti possano esprimervi le loro convinzioni religiose, politiche o filosofiche. In ogni caso, queste manifestazioni non devono portare a trasgredire le regole d’organizzazione dell’istituzione universitaria. Non è ammissibile che degli insegnanti siano rifiutati in funzione del loro sesso o della loro supposta religione, o che degli insegnamenti siano boicottati per principio. La Commissione si augura che i dipartimenti d’insegnamento superiore adottino un regolamento interno in  questo senso».

Gli esperti del Rapporto hanno tenuto conto che gli alunni delle scuole primarie e secondarie devono imparare a vivere insieme con tutti gli altri, in un’età in cui sono fragili, indifesi e soggetti a influenze e pressioni esterne. Infatti, continua il Rapporto, occorre «adottare per la scuola la seguente disposizione: “Nel rispetto della libertà di coscienza e del carattere proprio degli istituti privati sono interdetti nelle scuole, collegi e licei i vestiti e i segni che manifestano un’appartenenza religiosa o politica [...]. I vestiti e i segni religiosi interdetti sono i segni appariscenti come grandi croci, velo o kippa. Non sono considerati come segni manifestanti un’appartenenza religiosa i segni discreti, che sono per esempio medaglie, piccole croci, stelle di David, mani di Fatima o piccoli Corani”».

La scuola deve permettere l’acquisizione di un’indipendenza critica; inoltre lo stato francese finanzia le scuole religiose private in cambio dell’adozione dei programmi scolastici: in tali ambienti educativi possono essere dati gli specifici insegnamenti religiosi.

Ho assistito a varie obiezioni alla Legge francese, del tipo: “Come posso tollerare che lo stato imponga come si debbano vestire le donne? Uno stato che si dice laico ed agisce in questo modo diventa integralista in modo speculare all’integralismo che pretende di combattere!”.

Qui occorre fare una seria e serena riflessione, ponendo alcune precise domande: la violenza del patriarcato è denunciabile solo se si trova nella propria casa o nella propria cultura? Questo non vale per l’intero genere femminile? Il multiculturalismo autorizza forse che, poco più in là, non valgano per le altre donne i diritti di scelta che si sono conquistati sul proprio territorio, nella propria società e nella propria cultura? Il rispetto per le differenze è incondizionato sempre e comunque, tanto da imporre l’assenza di critica?

Concordo pienamente con l’appello di Amartya Kumar Sen, Premio Nobel per l’Economia, che afferma: «È particolarmente importante non confondersi nel ritenere il tradizionalismo, senza esaminarlo, come parte dell’esercizio della libertà culturale. È necessario chiedersi se i perdenti nella società, in questo caso le donne, le cui vite possono essere influenzate negativamente da questo genere di pratiche, hanno avuto la possibilità di prendere in considerazione delle alternative e hanno la libertà di sapere in che modo vivono le persone nel resto del mondo».

Si registrano situazioni inquietanti. Secondo l’Osservatorio Internazionale sulla Legalità, in Canada, nella provincia dell’Ontario, i musulmani possono dirimere le controversie su questioni familiari, di eredità, d’affari e di divorzio secondo i dettami della Şeriat, rivolgendosi a tribunali che includono Imam, anziani e avvocati musulmani. Gli oppositori hanno espresso preoccupazione per queste decisioni, pericolose soprattutto per le donne musulmane appena arrivate in Canada, che non conoscono ancora i loro diritti, né la lingua, che si troverebbero costrette ad accettare le decisioni dei tribunali religiosi. È noto che chi non accetta tali arbitrati può essere accusato di disobbedienza, se non addirittura di blasfemia o apostasia. Noi occidentali, intendiamo questo per multiculturalità?

Per fortuna, possiamo notare anche notevoli avanzamenti in qualche nazione di fede musulmana. Il Re del Marocco, Muhammad VI, nel 2004 ha introdotto notevoli riforme nel codice della famiglia. Ha emanato, infatti, la Moudawana. Le novità più importanti riguardano l’affido alla madre dei bambini in caso di divorzio, l’innalzamento dell’età di matrimonio a 18 anni, sia per l’uomo sia per la donna, e la possibilità per entrambi di scegliere liberamente il proprio partner, senza condizionamenti o imposizioni da parte delle famiglie. La novità più importante è però l’abolizione della regola (denominata wilaya) che sottometteva la donna, sia dentro sia fuori il matrimonio, ad un membro maschile della sua famiglia. Il principio di tutela è, infatti, la struttura più difficile da scardinare in tutte le culture, non solo nella cultura araba. Purtroppo, nel nuovo codice del Marocco manca ancora l’abolizione della poligamia, anche se tale istituzione resta sottomessa all’autorizzazione del giudice e a condizioni legali particolari.

Per inquadrare il problema a livello generale, sarà necessario che la struttura familiare e la scuola si preoccupino di educare le nuove generazioni alla libertà e al rispetto, affinché uomini e donne diventino consapevoli della loro identità e della loro differenza, senza cadere in ignobili e pregiudizievoli disuguaglianze. Potranno così incontrarsi con le loro somiglianze e con le loro differenze, ma in completa parità di diritti, nella libertà e nel rispetto della vita altrui.

Secondo Fritjof Capra[1], si nota un declino lento e riluttante ma inevitabile del patriarcato che è durato almeno tremila anni. Naturalmente è un periodo così lungo che non possiamo dire se si tratta o no di un processo ciclico perché le informazioni di cui disponiamo sulle ere prepatriarcali sono troppo esigue.

 Quel che appiamo è che negli ultimi tremila anni, afferma Capra, la società occidentale e i suoi antecedenti, così come la maggior parte delle altre culture, sono stati fondati su sistemi filosofici, sociali e politici in cui gli uomini – con la forza, per mezzo di pressioni dirette, o attraverso rituali, tradizioni, la legge e il linguaggio, costumi, l’etichetta, l’educazione e la divisione del lavoro – determinano quale parte le donne devono o non devono svolgere, e in cui la femmina è assunta dovunque sotto il maschio.

Il potere del patriarcato è stato estremamente difficile da capire perché pervade tutto. Esso ha influenzato le nostre idee più fondamentali sulla natura dell’uomo e sulla sua relazione all’universo, in linguaggio patriarcale, un linguaggio che usa forme linguistiche maschili per riferirsi insieme all’uomo e alla donna. Il patriarcato è l’unico sistema che, fino a poco tempo fa, non sia mai stato contestato apertamente nella storia documentata, le cui dottrine sono state accettate così universalmente da apparire come leggi di natura; e come tali furono di solito presentate. Oggi, però, la disintegrazione del patriarcato è in vista. Il movimento femminista è una fra le correnti culturali più forti del nostro tempo e avrà un effetto profondo sull’ulteriore evoluzione.

Ciò che le femministe stanno oggi sottolineando energicamente è che gli atteggiamenti patriarcali sono molto più antichi delle economie capitalistiche e radicati molto più profondamente nella maggior parte delle società. Di fatto la maggior parte dei movimenti socialisti e rivoluzionari, secondo Capra, presentano una tendenza decisamente maschilista, promuovendo rivoluzioni sociali che lasciano essenzialmente intatti la direzione e il controllo dei maschi.

Le immagini stereotipe convenzionali della natura umana sono contestate oggi non solo dal movimento femminista ma anche da un gran numero di movimenti di liberazione etnici in rivolta contro l’oppressione delle minoranze per opera del pregiudizio etnico e del razzismo.  

Vorrei alla fine di questa conclusione ricordare la figura femminile di Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace, che ha esercitato per anni la professione di giudice in Iran, prima dell’instaurazione dello stato teocratico-musulmano. Da allora, infatti, non le è stato più consentito esercitare la sua attività, perché è una donna, di fatto emotiva, senza capacità di giudizio e quindi incapace di razionalità nelle decisioni e nelle sentenze. Shirin ha detto in un’intervista alla televisione italiana: «Il maschilismo è come l’emofilia: si ammalano gli uomini, ma le donne sono portatrici sane». Le madri e i padri hanno una grande responsabilità, quella di comportarsi nello stesso modo con i figli, indipendentemente dal sesso. Ma, per quello che mi è dato ancora oggi di notare, anche per i genitori con le idee più progressiste questo è molto difficile da praticare, non tanto per ciò che riguarda i grandi problemi sulla discriminazione sessuale, ma soprattutto per le piccole situazioni, persino quelle banali, della vita quotidiana; non ci si rende conto, infatti, che sono proprio queste ultime le cose che possono lasciare immutate le gerarchie di genere e le forme più sottili di paternalismo sociale e culturale.

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[1]Cfr. CAPRA Fritiof, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 2003.