di Paolo Coluccia
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
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Mi è difficile dare un contributo specifico nell’ambito di una delle tracce di base opportunamente proposte dalla costituenda rete MERIDIONE (Per una rete dei saperi e delle competenze del Mezzogiorno d’Italia). Anche se di recente va un po’ troppo di moda la redazione di Carte e di Manifesti, ritengo quest’iniziativa sempre valida ed importante, perché permette di per mettere insieme persone e pensieri multidimensionali e multidisciplinari intorno ad un tavolo di discussione e di approfondimento, senza pregiudizio e velleità di univocità e di prevaricazione. Ma per questo deve prevalere la logica di “sistema” e non della mera progettualità finalizzata ad uno scopo. E su questo c’è ancora molto da capire.
Non possiamo nasconderci le difficoltà insite nella
parcellizzazione e nella settorializzazione di interventi o di abbinamenti
concettuali con particolare riguardo al Mezzogiorno. Avvitare la propria
indagine su un singolo tema può peraltro risultare pericoloso, anche perché non
sempre si ha la possibilità (e forse spesso neanche la volontà) di confrontarsi
con gli altri e di interagire, come in una rete (aperta).
Detto questo in termini molto vaghi e generali, voglio fare
un esempio banale, ma che forse riesce a rendere bene l’idea che voglio
esprimere. Prendiamo il problema dei “rifiuti” (molto alla ribalta delle
cronache di questi tempi) che minaccia l’ambiente in generale e il Mezzogiorno
d’Italia in particolare (e la Campania…). Questo drammatico problema interessa
sicuramente l’ambiente e il territorio, ma anche il governo locale, i sistemi urbani, la ricerca,
la tecnologia; e lo sviluppo locale, i sistemi produttivi e, non ultimo in ordine d’importanza, la criminalità. Ma soprattutto è un
problema di cultura e, quindi, d’identità. La cultura, però, non proviene
da un processo di trasmissione, cioè come replicazione. Questo forse vale in
molti aspetti per l’identità: “La trasmissione della cultura – dice G. Bateson
in uno dei suoi ultimi libri – è legata all’apprendimento, non al DNA”[1].
Non dobbiamo mai dimenticare che facciamo parte “totalmente” di un mondo, che
costruiamo insieme con gli altri. Riflettere i temi come parti di un tutto può
andar bene, ma fino ad un certo punto. Non possiamo trascurare la visione
d’insieme: ma una tale metodologia non ci può provenire dai sociologi, dagli
economisti, dagli “ambientologi della cattedra” dell’ultima ora o dai
progettisti di dubbia provenienza. Il tutto,
oltre al fascino della complessità, nasconde forse una chiave di lettura, che
però non riusciamo a cogliere nelle nostre argute ma parziali argomentazioni,
negli interventi e nei pensieri che “a volte” li precedono. Una chiave è la
relazione, come principio che lega le parti al tutto.
Sono perciò d’accordo con Mario Sai quando dice che
“l’innovazione deve stare nelle relazioni tra istituzioni e società, tra
strutture e persone, nella cultura, nei valori, prima ancora che nella
tecnologia”[2].
Tento, perciò, di abbozzare alcuni punti, con cui apro questa
nuova stagione riflessiva insieme con la ri-costituita
(nel doppio significato, naturalmente…)
associazione Rete Meridione:
1)
Rifuggire l’enfasi del “capitale sociale”, sia come
concetto sia come immaginario. Perché ricondurre a questo termine la natura
(capitale naturale), l’essere umano (capitale umano), i rapporti e le relazioni
umane (capitale sociale)? “L’aspetto indiscutibile – osserva il filosofo P.
Viveret – (sta) nella scelta della parola ‘capitale’. (…) Si dà l’impressione
che (le risorse umane) formano la maggior parte del capitale globale, (che) la
natura e gli uomini non abbiano valore che al servizio di un’economia”[3].
2)
Abolire il termine “sviluppo”, concetto iniquo e
paternalistico (di stampo occidentale) ed inserire una moratoria nell’uso
politico, accademico e culturale dell’ossimoro “sviluppo sostenibile”
(principio ipocrita, ingannevole e legato alla cattiva coscienza occidentale).
3)
Ridefinire il concetto di “progresso” (più che “come” andare verso, chiedersi “perché” andare verso). Alla categoria di progresso proveniente
dall’utopia come “fattore” della storia[4]
e come “processo” della storia[5]
sostituire l’utopia della giustizia e dell’impegno[6],
oltre che della responsabilità[7],
della libertà e della conservazione della biodiversità.
4)
Riqualificare il sistema sociale sostituendo le
visioni demiurgico-sviluppistiche (legate a progetti di “valorizzazione” e
conseguente demistificazione dei luoghi e delle culture locali ridotti a
consumistici musei all’aperto e a nauseante folklore per manifestazioni di
massa) con concreti progetti condivisi nelle, e dalle, comunità locali.
Costruire un progetto “glocale”, aperto al mondo ma rispettoso dei limiti dell’ambiente
e delle culture locali.
5)
Concepire l’identità come riconoscimento della
diversità e della specificità e non come disprezzo, discriminazione ed
esclusione.
6)
Deliberare un programma a breve, medio e lungo termine
che punti alla cooperazione più che alla competitività, alla cultura più che al
denaro, alla solidarietà più che al profitto economico, per non cadere nella
trappola dell’utopia perversa del capitalismo e del pensiero unico. Orientarsi
verso un paradigma economico diverso.
7)
Riaffermare il percorso politico legato alla
responsabilità, alla partecipazione e alla trasparenza. Questi sono
“ingredienti” imprescindibili per ogni sistema politico che vuole chiamarsi
democratico.
8)
Affermare i principi contenuti nella Carta delle
responsabilità umane[8]
(del singolo e delle imprese, delle comunità e delle istituzioni) che si
sommano alla Carta dei diritti umani universali proclamati dalle Nazioni Unite.
9)
Stimolare il cittadino ad accogliere suddetti principi
di responsabilità e di conservazione (in ambito sociale, economico e culturale)
nelle sue molteplici funzioni istituzionali.
10)
Affrontare i problemi strutturali con la forza dei
grandi ideali, evitando di approfittare, e di far “man bassa” per proprio tornaconto, degli aiuti messi a
disposizione dagli enti locali e dalle istituzioni pubbliche.
11)
Passare da una visione utilitaristica del tempo e
della vita ad una visione “antiutilitaristica” e “conviviale” dei rapporti
umani, in sintonia con la cultura e con il calore della civiltà mediterranea.
Questi
e tanti altri punti dovrebbero permettere di allargare lo sguardo rispetto agli
orizzonti riduttivi legati al Mezzogiorno in perenne crisi economica e
d’identità, per passare da questo al Mediterraneo, e più ancora, espandendo la
propria sfera d’indagine e di studio tra Nord e Sud e tra Est ed Ovest. Oggi
non è più riproponibile una riduttiva “questione meridionale” (che ha fatto la
fortuna di tanti abili, ingegnosi ma anche furbi meridionalisti), ma è urgente
aprire l’intelligenza verso una “questione mediterranea”, in ambiti politici,
economici, culturali ed ambientali, nonché nelle relazioni sociali, per
abbracciare e comprendere i temi e i problemi di una macroregione
caratterizzata da contraddizioni e contrasti, ma anche di risorse e stimoli.
Alcune
parole vanno spese sul concetto di “locale”. Capire o definire il “locale” è
cosa oggi assai ardua e pericolosa (se non contraddittoria), visto che ci si
sente immersi fino ai capelli nei processi di globalizzazione, che da un paio
di decenni, mediante le trasformazioni e le rivoluzioni nelle sfere dei
trasporti, delle telecomunicazioni e della produzione sottoposta alle regole
dell’elettronica e del mercato, ci condiziona la vita in vario modo. Quanto poi
all’aggettivazione organizzata in azioni intorno al concetto di sviluppo locale “sostenibile” (Rapporto
Bruntland, Rio de Janeiro 1992), diventata ormai una minestra scaldata tanto da
diventare una ridicola sbobba per internati, ci sarebbe da dire che ci troviamo
di fronte ad un ossimoro nell’ossimoro della peggior specie, sul quale ho già
avuto modo di esprimermi a sufficienza.
Pertanto,
sul sistema “Mezzogiorno” è opportuno non fermarsi alle parole e alle
dichiarazioni: occorre passare ai fatti. Ma per fare questo, occorre fare i
conti con le nostre abitudini consolidate, con i nostri presupposti
(scientifici, filosofici, religiosi, politici, sociali ecc.). Come cambiare
“paradigma”? Intanto uscendo dal proprio guscio, dal proprio ambiente
“protetto” (si chiami esso università, partito, ufficio…), andare per strada, non solo in senso
metaforico. Riconcettualizzare pertanto il rapporto spazio-temporale,
ridefinire i limiti del proprio sé, riconoscere l’altro, riscoprire e
comprendere il mondo. La neurofenomenologia di recente espressione riconduce a
queste tre componenti attive (comportamenti autonomi e poietici) la costruzione
dello stato di coscienza. Già in questo si scorge un determinante mutamento
paradigmatico: nessuna centralità dell’io (rispetto all’altro e al mondo), ma
evidenza del principio di “relazione”. Le scienze fisiche hanno su questi
presupposti innovativi fatto passi da gigante, in termini teorici e pratici;
viceversa, le cosiddette scienze “umane” e “sociali” sono rimaste al palo. Ecco
perché un Manifesto del Mezzoggiorno non può che partire dal principio di
“relazione”.
E’
stato giustamente detto[9] che “se di costruzione di nuove
concezioni deve trattarsi e di nuove pratiche di democrazia a partire dalle
concrete esperienze locali, occorre concepire, e sostenere, movimenti di
propagazione e di ‘contagio’, a livelli via via più estesi e profondi, della
prima dimensione in cui possono manifestarsi e vivere esperienze del genere”.
Nelle
esperienze di scambio non monetario (SEL, LETS, TR, CdT, BdT ecc.)[10],
da me divulgate e sostenute, ho sempre voluto intravedere un progetto politico,
economico, culturale e pedagogico, rivolto ad una riclassificazione oggettiva e
dimensionale dei settori del mercato, della democrazia e dei rapporti umani. Il
tema della conciliazione dei tempi, degli orari, degli spazi e delle politiche
di genere sono alla base di un’attenta riflessione. Non ci sono stati forse
molti progressi ed avanzamenti nell’esposizione teorica e pratica di questi
concetti, né tanti riconoscimenti nei miei confronti, a parte la buona
accoglienza a suo tempo ricevuta da molti esponenti del “nodo” campano della Rete Meridione. Qui
ritrovo il mio pensiero, e precisamente nelle parole sicuramente ispirate
dell’amico Nino Lisi, che conclude un suo intervento seminariale del 2002
dicendo: “Non è detto, dunque, che la via con maggiori possibilità di successo
non sia quella della costruzione delle reti di solidarietà e di prossimità
anche sotto il profilo istituzionale, nonché amministrativo”[11].
E’
su questa via, penso, che possa costruirsi una filosofia di fondo per il
Mezzogiorno. Un suo “Manifesto” può essere un inizio.
Note
[1] G. Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984, p. 70.
[1] In «Meridione. Nord e Sud del mondo», anno III, n. 6, nov.-dic. 2003, p. 85.
[1] P. Viveret, Riconsiderare la ricchezza. Missione sui nuovi fattori di ricchezza. (Rapporto al Ministro per l’economia sociale e solidale francese nel 2001-2002), tr. it. di P. Coluccia, Edizioni Lilliput-on-line, Martano 2003.
[1] Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna 1999.
[1] Cfr. E. Block, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1992.
[1] Cfr. A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Ed. Dedalo, Bari 1999.
[1] Cfr. H.
Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002.
[1] Cfr. La Carta delle responsabilità umane (bozza in via di preparazione), tr. it. di P. Coluccia, in Edizioni Lilliput-on-line, 2003.
[1] Mezzogiorno alla rovescia: un’analisi a più voci, in «Meridione», cit.
[1] In particolare i miei scritti sul tema: La Banca del tempo (Bollati Boringhieri, Torino 2001); La cultura della reciprocità (Arianna ed., Casalecchio 2002); Il tempo… non è denaro! (BFS, Pisa 2003) le cui schede sono nel link “Pubblicazioni” di sito http://digilander.libero.it/paolocoluccia.
[1] In «Meridione», cit.
Paolo Coluccia, dottore in Pedagogia, saggista e
ricercatore sociale indipendente, sensibile ai temi sociali, economici,
ambientali e culturali, ad una formazione filosofica e psicopedagogica associa
una buona conoscenza della legislazione sociale e del lavoro. Oltre a varie
pubblicazioni nell’editoria convenzionale, implementa dal 2000 alcune pagine
web all’indirizzo http://digilander.libero.it/paolocoluccia,
dove è possibile trovare ulteriori notizie sulle sue pubblicazioni e sulla sua
ricerca socio-conomica e che tra l’altro contiene una piccola casa editrice
virtuale denominata Lilliput-on-line.
[1] G. Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984, p. 70.
[2] In «Meridione. Nord e Sud del mondo», anno III, n. 6, nov.-dic. 2003, p. 85.
[3] P. Viveret, Riconsiderare la ricchezza. Missione sui nuovi fattori di ricchezza. (Rapporto al Ministro per l’economia sociale e solidale francese nel 2001-2002), tr. it. di P. Coluccia, Edizioni Lilliput-on-line, Martano 2003.
[4] Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna 1999.
[5] Cfr. E. Block, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1992.
[6] Cfr. A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Ed. Dedalo, Bari 1999.
[7] Cfr. H. Jonas, Il principio
responsabilità, Einaudi, Torino 2002.
[8] Cfr. La Carta delle responsabilità umane (bozza in via di preparazione), tr. it. di P. Coluccia, in Edizioni Lilliput-on-line, 2003.
[9] Mezzogiorno alla rovescia: un’analisi a più voci, in «Meridione», cit.
[10] In particolare i miei scritti sul tema: La Banca del tempo (Bollati Boringhieri, Torino 2001); La cultura della reciprocità (Arianna ed., Casalecchio 2002); Il tempo… non è denaro! (BFS, Pisa 2003) le cui schede sono nel link “Pubblicazioni” di sito http://digilander.libero.it/paolocoluccia.
[11] In «Meridione», cit.