NOSTALGIA, EMBEDDEDNESS, FINE DELL’EVANGELIZZAZIONE
Il gusto nuovo del tramonto
di Mario Cedrini
Edizioni Lilliput-on-line
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
Che cosa resta, oggi, di…?
Nelle pubblicazioni spesso si utilizza, anche solo per richiamare una tradizione consolidata, l’espressione "che cosa resta, oggi, di…" (o "l’attualità di…") per valutare l’eredità di un grande pensatore del recente passato. Che cosa resta, oggi, di Marx, di Keynes, di Polanyi? Domande alle quali solitamente sappiamo che cosa rispondere, o meglio che cosa rispondono gli autori di quei saggi. Implicitamente, si vuole sempre affermare che, nonostante il peso enorme dei cambiamenti intercorsi, è l’approccio del pensatore che resta: ovvero, il modo di affrontare determinate problematiche, lo sguardo utilizzato per scrutare la realtà a lei o lui contemporanea, persino la testardaggine di chi non considera le grandi questioni del tempo come altrettanti fatti naturali, cui è sufficiente affiancare una teoria che li comprenda e giustifichi. E’ più difficile, invece, rispondere alla domanda sul che cosa resti, oggi, di… ieri. Che cosa resta, in altre parole, di ciò che eravamo o che abbiamo fatto ieri? Che cosa resta – ciò cui sempre implicitamente, affianchiamo un giudizio di valore positivo – del mondo di ieri e del nostro vivere in esso? Che cosa salviamo, di quel mondo, proprio perché è ancora attuale?
La postmodernità
Se non sappiamo come rispondere a quella domanda, ciò si deve certamente al fatto che non siamo solitamente capaci di analizzare noi stessi, poiché è spesso di questo che si tratta: la vita, o la si vive o la si scrive, credo fosse il significato di un famoso romanzo di Pirandello. Ma se anche dovessimo semplicemente concentrarci sull’insieme costituito da tutte le cose tranne noi, la risposta sarebbe ugualmente difficile. Forse si sta qui ripercorrendo quello che altri, in modo decisamente più accattivante, hanno descritto come la fine della modernità. Ovvero, la fine di quell’era nella quale la modernità era di per sé un valore positivo, sinonimo di progresso: "la modernità è l’epoca in cui diventa un valore determinante il fatto di essere moderno", direbbe Vattimo [1]. Entrando nella postmodernità, rinunciamo esattamente a questo: al considerarci il fine ultimo (almeno sino a noi, ma quelli che verranno dopo diranno lo stesso di sé) di una storia lineare. La storia della postmodernità è proprio la storia di mille storie: tanto per citarne un rivolo, si pensi all’affacciarsi improvviso di altri mondi, quelli dei paesi in via di sviluppo, nella storia che precedentemente pensavamo unica, del mondo. E’ anche la fine della storia centralizzata, accentrata nell’Occidente, di un uomo che si emancipa con il progresso.
Il declino e il rapporto con il passato
L’accettazione della condizione postmoderna rende problematico il nostro rapporto con il passato; ovvero, rende più difficile rispondere alla domanda "che cosa resta, oggi, del recente passato". Nella conferenza dell’Unesco "Dove vanno i valori", del dicembre 2001, Vattimo ricordava il legame tra lo Spengler del Tramonto dell’Occidente, le considerazioni di Nietzsche sugli intellettuali del suo tempo e la società contemporanea. Un Occidente terra del crepuscolo (come insito nella parola stessa), che non riesce più a dedicarsi alla sua attività della gioventù, la creazione, e che con l’imperialismo, segno ultimo del suo declino, sceglieva di limitarsi all’espansione territoriale, nel tentativo – disperato – di consolidarsi. Nietzsche ripeteva, in fondo, ciò che Karl Mannheim riconosceva come caratteristica degli intellettuali degli anni Trenta del secolo scorso, e cioè un "dandismo scettico", tipico della classe che, sola, riusciva a liberarsi delle ideologie; Nietzsche descriveva i "suoi" intellettuali come uomini che passeggiano nel giardino della storia come in un magazzino di costumi teatrali, liberi di scegliere tra questi lo stile che vogliono di volta in volta adottare. Qui sta la decadenza dell’Occidente: nella sua incapacità di creare. Secondo Vattimo – il quale accetta lo schema di Spengler criticandone tuttavia il giudizio negativo assegnato alla "vecchiaia" dell’Occidente, una debolezza che anzi andrebbe salutata con gioia e presa (compresa) fino in fondo – ciò sarebbe caratteristico anche della società contemporanea, come detto: della società finto-trasparente, degli "abitanti della megalopoli unificata dalla diffusione della televisione e oggi di internet".
La nostalgia per il sistema internazionale di ieri
Quando si riflette, attualmente, sulle caratteristiche del sistema internazionale, politico, economico, finanziario, si è sempre più tentati di stabilire che cosa oggi non funziona, rispetto a ciò che del sistema di ieri sembrava, con gli occhi di oggi, funzionare. In altre parole: gli studiosi dell’economia internazionale si ritrovano oggi a decretare malvolentieri la fine di un sistema, quello del Dopoguerra, quello degli accordi di Bretton Woods (che crearono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale), quello segnato così profondamente dal Piano Marshall e dallo sbarco illuminato del dollaro in Europa. Quello forgiato dalla guerra fredda, che spaventava a tal punto i nostri concittadini di quei tempi da far scrivere a Orwell libri come 1984 e La fattoria degli animali, e da far dedicare le energie di alcuni degli scrittori più brillanti del secolo a una fantascienza che era anche e soprattutto la fantascienza di Duel, dei racconti sulle macchine di Asimov, delle quarte dimensioni, dei viaggi nel futuro[2]. Quando Joseph Stiglitz inveisce contro il Washington Consensus, ad esempio, ovvero quel formulario di ricette fondate su austerità, liberalizzazione e privatizzazione che costituisce (costituiva?) l’essenza degli interventi del Fondo Monetario Internazionale nei paesi colpiti dalle crisi degli anni Novanta, e cioè il Sud Est Asiatico, la Russia, l’Argentina, non rende forse giustizia al tentativo dell’economista John Williamson, l’ideatore del Consensus – o meglio, colui che ha descritto le politiche sulle quali si registrava, nel 1989, il consenso delle istituzioni con sede a Washington: oltre alle due di Bretton Woods, il Tesoro degli Stati Uniti –, che consapevolmente o meno (è importante?) si affannava a trovare il sostituto di qualcosa che, evidentemente, prima esisteva e ora non più. Ad esempio quello che Paul Krugman definirebbe il "Keynesian compact", ovvero l’insieme di considerazioni keynesiane sul ruolo dello stato nell’economia, che aveva regnato (si pensi agli anni della presidenza McNamara della Banca Mondiale) sino al crollo del sistema e all’avvento della rivoluzione neoconservatrice di Reagan e Thatcher.
La soluzione impraticabile dell’argentinizzazione
E non solo: la risposta di un altro famoso economista, Dani Rodrik, alla sfida posta dal neoliberismo à la FMI del Washington Consensus sta in fondo nel tornare indietro[3]. La globalizzazione attuale, sentenzia Rodrik, è resa possibile unicamente dall’accettazione, da parte degli stati nazionali, di una golden straitjacket[4], una camicia di forza dorata posta dai mercati internazionali (mai perderne la fiducia!) sulle spalle dei governi, consistente in una serie di prescrizioni economiche che di fatto esautorano le autorità pubbliche dai loro poteri: tagliare la spesa pubblica, ridurre l’imposizione fiscale, liberalizzare i movimenti di capitale, privatizzare il privatizzabile. E’ la soluzione della cosiddetta argentinizzazione; che non può che dare i risultati ottenuti in Argentina, con buona pace dell’FMI: la sostituzione del governo. L’unica alternativa che salvaguardi l’attuale agenda integrazionista della globalizzazione consiste nell’affiancarle, nel farla gestire da, un governo mondiale: ad esempio le Nazioni Unite. Ma anche questa via è impraticabile, per ora. E allora è meglio tornare a riformulare un compromesso di Bretton Woods: integrazione sì, ma senza forzature di contenuti e di tempi, e ognuno secondo la sua via.
Quella strana nostalgia per le buone cose di pessimo gusto
Gli esempi di queste nostalgie non mancano. Quello più clamoroso è forse l’"Ostalgia" degli ex cittadini della DDR (si pensi a Goodbye, Lenin!). Al più recente World Political Forum, il think-tank di Gorbacev, il cui tema era quello della perestrojka ("i vent’anni che hanno cambiato il mondo"), il presidente della Boeing (!) ricordava, nel silenzio generale, i nomi dei personaggi politici che governavano il mondo negli anni Ottanta: sono paragonabili, chiedeva retoricamente all’uditorio, a quelli degli attuali Blair, Schroeder, Bush, Berlusconi? L’elemento più curioso, di tale nostalgia (non è lo stesso per gli anni di Berlinguer – e persino Craxi, per Fassino – e Moro?), è che si rivolge verso qualcosa che ieri eravamo tutti pronti a criticare. Si pensi alle espressioni utilizzate per descrivere le caratteristiche dei sistemi di ieri: l’equilibrio del terrore, la logica dei blocchi, il privilegio esorbitante, il fattore H e quello K, il consociativismo, la sovranità limitata, i paesi non allineati, il terzomondismo. Il consenso, ieri, era una brutta parola: persino la Thatcher, nel 1969, ne riteneva pericoloso l’utilizzo. La guerra fredda e il sistema di Bretton Woods non erano certo in cima ai nostri desideri. Ma il mondo che usciva dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale appare, oggi, un mondo nel quale sono possibili più cose, nel quale l’uomo può progettare al di là della fiducia dei mercati; la "grande trasformazione" di Polanyi[5] ha prodotto la guerra ma anche il riscatto. Non possiamo certo tornare a credere, come credevano tutti i "passatisti" del passato, i vari conservatori e reazionari, i diversi sostenitori dell’ordine esistente, che nella crisi stia il rimedio; che occorra una guerra purificatrice, un collasso economico virtuoso, che porti in sé la possibilità di redenzione (che sia il salasso la cura di ogni malattia). Eppure sembra quasi che la postmodernità, sradicandoci, venendo a far mancare il terreno della gentile illusione di una storia unica, quella di Fukujama, ci costringa ad accentuare la nostra dipendenza dal passato, quantomeno in termini ideali: e cioè, paradossalmente, di nostalgia. Una strana nostalgia: quella nei confronti di situazioni problematiche, quasi al limite della follia (come definire in altro modo il sistema di spie di Berlino o la Stasi e le epurazioni staliniane, il progetto di guerre stellari di Reagan e il delirio di Pol Pot, il sostegno statunitense alle dittature militari sudamericane, con l’aiuto della Chiesa di Roma?), così diverse dalle tante "belle époque" ed "età dell’oro" rimpiante nel passato.
Fine del tempo lineare
Una nostalgia che forse deriva dal fatto che per la prima volta si è persa la cognizione del tempo, o meglio di quel tempo lineare del progresso per il quale il 2000 sarebbe stato automaticamente migliore del 1950. Oggi è difficile sperare in un 2050 migliore. Anche perché non è più possibile definire il criterio di giudizio: migliore rispetto a che cosa, a quale delle tante storie di oggi? Il tempo ha lasciato spazio a tempi diversi, ugualmente duri ma non più moderni; se davvero si è possibile utilizzare un parametro omogeneo per valutare l’attuale stadio di sviluppo dei paesi del pianeta, questo non può che essere il tempo storico: quello che ha permesso agli attuali paesi già sviluppati (PGS) di essere in cima alla classifica dei redditi, e che non siamo disposti a concedere ai paesi in via di sviluppo (PVS). Un economista ha utilizzato l’espressione "kicking away the ladder"[6], dare un calcio alla scala, per descrivere l’atteggiamento dei PGS nei confronti dei PVS: le ricette di crescita del Washington Consensus si limitano a descrivere le caratteristiche di un paese già sviluppato, anziché quelle per arrivare ad esserlo, e dunque sono perfettamente inapplicabili. I vari regimi previsti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio sono altrettanti esempi di strategia kicking away the ladder, poiché prevedono regole che i PGS si guardarono bene dall’attuare nella prassi, nel corso dei loro processi di sviluppo: una strategia volta a impedire lo sviluppo dei PVS eliminando proprio quei fattori che avevano permesso (all’epoca) la crescita dei PGS.
2. EMBEDDEDNESS
L’umiltà, la qualità assente dell’economia
Un recente libro sulla globalizzazione, scritto da uno degli economisti più noti al mondo, Jagdish Bhagwati[7], ha spinto chi scrive a commentarlo affermando che è l’umiltà, la qualità assente dell’economia di oggi. Le analisi dei sostenitori della globalizzazione (che si confrontano con i suoi oppositori, per utilizzare le parole di Stiglitz) sono tese a dimostrare che dal libero commercio deriva sicuramente la crescita economica; che dalla crescita economica deriva sicuramente il benessere; così come si diceva sino a poco tempo fa, e cioè sino alla "svolta" teorica del Fondo Monetario Internazionale, arrivata finalmente nel 2003, che la liberalizzazione dei movimenti dei capitali era necessaria per aumentare l’efficienza economica. Bhagwati non va, in fondo, oltre: per rispondere alle critiche di chi sa per certo che il libero commercio danneggia i paesi in via di sviluppo, l’economista indiano cita studi che dimostrano la tesi opposta. In altre parole, non si sottrae alla logica della legge, della sentenza, della condanna e dell’assoluzione: così è, almeno sino alla prossima prova contraria. Il dibattito è destinato perciò all’oscillazione perpetua, e tendenzialmente sterile; almeno fino a quando non sussisterà più la pretesa di stabilire una volta per tutte quale sia la corretta rule of thumb da applicare ai diversi problemi economici. In tutta semplicità, si potrebbe arguire che se un determinato provvedimento economico ha funzionato bene in una circostanza e male in un’altra, ciò dipende anche dal contesto nel quale è stato implementato: entrano dunque in gioco passioni e interessi, per riprendere (solo letteralmente) una formula di Hirschman. Entra in gioco, in altre parole, la società.
Il dilemma Pepsi-Coca Cola e la resistenza della società
Quando Rodrik ricorda che l’argentinizzazione dell’Argentina, ovvero il primo esperimento completo di imprigionamento di un paese in una camicia di forza dorata, è terminato nel sangue, adduce come spiegazione la ribellione della società (del popolo, direbbe Rodrik) all’imposizione di una dittatura del mercato sulla politica; e cioè sulla libera capacità, da parte del popolo, di scegliere una propria via allo sviluppo, un proprio meccanismo di distribuzione delle risorse, e non semplicemente (qui utilizziamo la metafora dello stesso Friedman, che coniò l’espressione golden straitjacket) di scegliere tra la Pepsi e la Coca Cola. Le tesi del Karl Polanyi de La grande trasformazione tornano in auge, sebbene sottovoce: forse per la paura di riconoscere che i timori che animavano gli affreschi di storia mondiale dell’eclettico intellettuale austriaco non sono stati definitivamente sconfitti dal crollo dei nemici più agguerriti dell’utopistico mercato autoregolato.
Eppure sostenere che il grado di embeddedness dell’economia nella società sia uno dei parametri rilevanti per comprendere i destini economico, finanziari, politici dei diversi paesi, pare avere oggi carattere rivoluzionario. Essere embedded è oggi un insulto: si pensi ai casi dei giornalisti imbavagliati durante la guerra all’Iraq, o al giudizio critico recentemente espresso da Marco Travaglio su Giovanni Floris. Embedded utilizzato in questo senso (imbavagliato), tuttavia, ricorda più la golden straitjacket che l’analisi di Polanyi. Ne La grande trasformazione, l’economia doveva tornare a essere "incastrata", "incastonata" nel sociale; la sua autonomizzazione, conseguente al tentativo di dar vita a un mercato autoregolato, che trasforma in merci fittizie la terra, il capitale e il lavoro, veniva sconfitta dalle resistenze della società. Gli strani alfieri della vittoria erano il fascismo e il comunismo, la seconda guerra mondiale, e prima il crollo del gold standard, la grande guerra e l’avvento dei nazionalismi protezionistici; ovvero, quanto di più lontano dall’ordine dell’età dell’oro, nella quale tutto convergeva a dar forza all’utopia di un mercato che si fa società, ma anche quanto di più lontano dal costituire altrettante premesse di stabilità e pace per il sistema internazionale del futuro. Quasi che l’esperimento di una società di mercato autoregolato si fosse spinto troppo innanzi per poter essere modificato in corsa senza traumi immensi.
Il senso del tornare indietro
Ma un cittadino argentino, forse, esprimerebbe i suoi timori usando gli stessi concetti di Polanyi. Le pressioni dei mercati internazionali, cui si aggiungono ambiguamente quelle del Fondo Monetario Internazionale – è ancora possibile distinguere i due attori, o l’essere portatori della stessa weltanschauung e il reciproco fondarsi l’uno sull’amicizia leale degli altri, nel cosiddetto "gioco della fiducia", il confidence game, li rende piacevolmente, e morbosamente uniti? – hanno comportato, nel caso dell’Argentina, il rovesciamento del governo. Il gioco della fiducia ha partorito il suo contrario. Tornare alla società, dunque; il semplice non dimenticarsene avrebbe forse evitato la tragedia collettiva argentina. Il tornare indietro non è qui inteso quale sinonimo di restaurare; solo una concezione lineare del tempo, quella della modernità, per la quale il tempo è, in fondo, esso stesso progresso, "tornare indietro" è indice di restaurazione e reazione, ed è valutato negativamente, a meno che non si tratti di tornare a quell’età dell’oro che è pur sempre un inganno malcelato: l’età dell’oro è tale solo se non è più raggiungibile. Il "tornare indietro" ai tempi della globalizzazione significa, essenzialmente, stipulare un nuovo compromesso di Bretton Woods: "nuovo" perché un compromesso non può essere riproposto negli stessi termini del passato. Il compromesso implica una convergenza di interessi: che non possono, ovviamente, che essere quelli del tempo attuale, e non quelli di ieri. Quando si accenna a un nuovo compromesso di Bretton Woods, si vuole segnalare la buona qualità intrinseca di un sistema che permetta alle sue parti di partecipare attivamente alla sua costruzione, godendo di una relativa autonomia, per la quale le parti non possano fare agli altri ciò che non vorrebbero venisse fatto a loro, e non siano vincolate al rispetto di regole cui non avrebbero mai sottostato, in mancanza di una gerarchia di autorità che li vede in posizione subordinata. Null’altro che il (ben poco rivoluzionario, in fondo) principio di giustizia di John Rawls, quello in base al quale le regole di un sistema devono essere stabilite come se i rappresentanti negoziali dovessero contrattare senza sapere a priori quali interessi difendono.
Who is society? Il nuovo ruolo della destra
E’ la società ad assordare col suo Silenzio-Assenza-Dissenso (triste come l’acronimo sad) il sistema, o l’antisistema, di oggi. Ed è la società, si teme, il vero oggetto della nostalgia cui si faceva riferimento poc’anzi. Nelle analisi di oggi, e in particolare in quelle economiche, il legame sociale viene continuamente estromesso, relegato al ruolo di agente esogeno e poco rilevante, poiché accettarne l’importanza significherebbe dover rinunciare all’economia delle rule of thumbs, del Washington Consensus, dell’as if di Milton Friedman, del thatcheriano "there is no such thing as society". Margaret Thatcher negava l’esistenza della società poiché non sapeva che cosa fosse: il famoso detto proviene da un’intervista rilasciata a "Woman’s Own" nel 1987[8], nella quale il primo ministro si lamentava del fatto che l’opinione comune credesse responsabilità del governo intervenire per sanare qualsiasi problema si presentasse al pubblico inglese. ""I have a problem, it is the Government’s job to cope with it!"", sentiva dire la Thatcher; ""I am homeless, the Government must house me!" and so they [coloro che così gridavano] are casting their problems on society and" - qui la frase incriminata - "who is society? There is no such thing! There are individual men and women and there are families and no government can do anything except through people and people look to themselves first". Uno degli aforismi più importanti per il pensiero politico moderno della destra. Eppure, un tempo, la "destra" era quella reazionaria dell’aristocrazia, che si opponeva non solo alle rivendicazioni dei contadini o ai socialisti, agli anarchici, ecc., ma anche alla nascente borghesia modernizzatrice. Era la "destra" di coloro che, paradossalmente, organizzavano quelle forme di resistenza della società (fino al fascismo statalista e corporativista) all’utopia del mercato autoregolato. Potenza della modernità, si direbbe: oggi la destra ne è autorevole espressione, con i suoi richiami al mercato e alla sua fiducia, alla sua capacità di organizzarsi spontaneamente e a permettere a tutti la possibilità di divenire un self-made man.
I would-be-worlds di Bretton Woods
Il desiderato nuovo compromesso di Bretton Woods, per citare l’esempio meglio conosciuto da chi scrive, ma anche uno dei più significativi richiami alla società dei tempi attuali, non segnala altro che la presa d’atto della legittimità delle molteplici storie dei tanti paesi che affollano lo scenario mondiale, dai più potenti ai meno prosperi. Un sistema che viene ricordato non solo per i suoi risultati – la liberalizzazione del commercio internazionale, la crescita economica dell’Europa e del Giappone, l’American way of life e la decolonizzazione, la formazione del gruppo dei non allineati – quanto per il fatto che sia stato proprio il sistema a renderli possibili, come altrettanti would-be-worlds: non a stabilirli quali suoi fini ultimi, dunque, ma a permettere loro di porsi quali opportunità offerte ai partecipanti al sistema stesso. L’accento era posto più sul metodo che sui risultati: la liberalizzazione del commercio non era imposta, ad esempio, come precondizione necessaria per la crescita, o peggio, come avviene oggi, come fine in sé. La stessa crescita economica dei paesi in via di sviluppo era di fatto, sebbene spesso ambiguamente, favorita dalle superpotenze: la guerra fredda costringeva USA e URSS a competere sul piano politico per affermare il proprio modello sociale, oltre che la propria supremazia economica e militare. Lo scontro non permetteva l’abbandono dei paesi terzi al loro destino; né Bretton Woods poteva, all’interno del blocco al di qua della cortina, costringere i suoi paesi a soluzioni "da pensiero unico", se non altro perché ciò avrebbe snaturato l’essenza stessa della tanto sbandierata libertà occidentale.
Il vanto di ieri, l’insulto di oggi
L’insulto di oggi (embedded=imbavagliato) era il vanto di ieri: quello di Bretton Woods era un "embedded liberalism"[9], proprio perché permetteva agli stati nazionali e ai loro governanti, espressione del voto dei cittadini, di scegliere la propria via allo sviluppo; in altre parole, di "incastrare" il liberismo nel loro sistema sociale. Quello che oggi (da sinistra?) si combatte è proprio l’assenza di gradi di libertà del nostro non-sistema, fondato in modo davvero pregnante sul pensiero unico (nonostante i critici dei critici della globalizzazione, come il già citato Bhagwati, sia convinto che l’attacco sferrato a suo tempo – e ormai, purtroppo, già dieci anni fa – da Ignacio Ramonet non sia altro che l’eredità intellettuale di Said, Derrida e Foucault, di cui tutti i no-global sarebbero nipotini): quello della fiducia dei mercati, della prevalenza delle ragioni economiche – il realismo assoluto del mercato e delle sue leggi naturali –, del principio della contropartita sempre e comunque; nelle parole di Ramonet, "la traduzione in termini ideologici a pretesa universale degli interessi di un insieme di forze economiche, quelle, in particolare, del capitale internazionale"[10].
L’OPPORTUNISMO METODOLOGICO, I RIZOMI
Il ritorno alla società: Polanyi
Quale, allora, il senso del "ritorno alla società"? Difficile dirlo in poco spazio e in poco tempo. Tuttavia alcuni suggerimenti vengono dagli scritti dei più profondi indagatori del recente passato: uno degli approdi condivisi da Polanyi, Keynes, lo stesso Marx, è, a parere di chi scrive, che non vi è in fondo nulla di naturale, nell’economia politica e nella sua ricostruzione della realtà. Un altro modo per dire, appunto, che qualsiasi istituzione economica, dal mercato al Fondo Monetario internazionale alla globalizzazione, interagisce necessariamente con la società, ovvero con qualcosa che non può essere deciso unicamente dall’istinto alla massimizzazione del benessere individuale. Né quest’ultimo comporta necessariamente il conseguimento della felicità sociale, nemmeno se la si restringe al suo significato paretiano (non si può migliorare la condizione di alcuni senza peggiorare al contempo quella di altri).
Dunque, tornare alla società significa tornare all’analisi di intellettuali come Polanyi: che sappiano andare oltre, cioè, al rimprovero economicistico nei confronti di qualsiasi società che si dimostri recalcitrante nell’adottare il Washington Consensus come modus vivendi nella globalizzazione; che sappiano indagare le cause del malcontento che si cela dietro una riforma economica mal riuscita. "La nostra tesi", scriveva Polanyi introducendo il suo capolavoro, "è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società". Utopia, quella del mercato autoregolantesi del XIX secolo, che contrasta con la storia precedente della società umana, nella quale mai prima di allora, i mercati erano stati "qualcosa di più che elementi accessori della vita economica"; è la rivoluzione industriale, la macchina, a costituire il necessario fondamento per lo "sforzo utopistico del liberalismo economico di organizzare un sistema di mercato autoregolato". Tutte le società sono basate, dopotutto, sull’economia: la società di mercato, ovvero la società del mercato autoregolato, deriva invece dall’aspettativa che tutti si comportino in modo tale da massimizzare il proprio guadagno monetario. E ciò non ha nulla di naturale; anzi, è "un motivo soltanto raramente riconosciuto come valido nella storia delle società umane e certamente mai prima sollevato al livello di una giustificazione di azione e di comportamento nella vita quotidiana".
L’"innaturale" coraggio di Keynes
Rispondere a Von Hayek che il fatto di vivere in un’era nella quale il problema economico è più vicino alla sua soluzione che non nell’era precedente è la ragione per la quale siamo ora in grado di sopportare meglio sacrifici economici per assicurarci benefici non economici. Ecco uno dei tanti esempi del coraggio intellettuale di John Maynard Keynes. Keynes dichiarava la necessità di essere eterodossi e scandalosi, ma non al puro fine del compiacimento: lo scopo della vita pubblica dell’economista di Cambridge è sempre stato quello di cambiare le cose laddove era unicamente la potenza degli interessi o il peso di tradizioni ormai obsolete a trascinare innanzi soluzioni economiche evidentemente svantaggiose. Eppure un certo gusto per la "follia" era presente, in Keynes; così come nel Marcel Mauss del Saggio sul dono[11], in Polanyi stesso, in molti pensatori di oggi: "follia" che si nutre dello svelare all’umanità la finta naturalità dell’esistente. Di quell’esistente che diviene sempre più natura, nella sua difesa operata degli intellettuali di destra; lo stesso Hayek non è esente da tale risultato, di certo non lo sono i suoi seguaci (ma Hayek li riterrebbe tali?) di oggi. Non ci dilungheremo su Keynes, anche perché, seppure solo in parte, Bretton Woods è opera sua. Il sistema internazionale che Keynes avrebbe voluto donare al mondo sarebbe stato certamente più equo, più vivibile, semplicemente migliore di quello che storicamente è nato nel 1944. Fedele alla sua ispirazione teorica, Keynes lo difendeva comunque a spada tratta, nonostante l’evidente indebolimento del progetto originario dell’economista operato dagli Stati Uniti, nuova superpotenza mondiale perfettamente conscia dei vantaggi che derivano dalla leadership. Le sue intuizioni non hanno perso, in ogni caso, attualità; e anzi, è probabile che se sarà possibile sperare in una riforma del sistema in tempi non lunghi, sarà ancora l’International Clearing Union di Keynes il principale riferimento teorico dei negoziatori.
Una "derealizzazione" incompleta
Perché insistere sulla non naturalità del mercato autoregolato, in riferimento al nostro antisistema internazionale? Forse perché, come spiega Vattimo ne La società trasparente, uno dei limiti che riscontriamo nella nostra società moderna, che in fin dei conti sembra accettare di concepire il mondo come gioco di interpretazioni, è la non compiuta "derealizzazione" del mondo stesso, che anzi viene percepita come esperienza di perdita: se ciò accade, tuttavia, è perché il mercato si pone quale agente "realistico" che limita, che elimina la conflittualità, al pari delle leggi dell’economia, nel suo apparire principio di sicuro riferimento alla realtà. "La liberazione della pluralità delle interpretazioni e l’estetizzazione totale del mondo costituiscono un progetto emancipativo che produce una continua riduzione del dominio realistico dell’economia", definita come "falsa istanza irrealistica". Un’umanità che s’innalzi al mondo delle sue possibilità tecnologiche, secondo Vattimo, deve costruire società che non siano più fondate sulla sopravvivenza. Nelle teorie di Vattimo, il mondo tardoindustriale salva il suo way of life producendo beni estetici, simboli di status, consumi indotti, anziché come un tempo orientandosi verso il mondo delle quantità; del tentativo di estetizzazione del mondo è affascinata anche l’economia, per certi aspetti: ne sono riprove la sua finanziarizzazione globale, ma anche le banche occidentali che continuano a prestare somme senza chiederne il rimborso, accontentandosi del servizio del debito. Eppure il mondo delle quantità è ancora largamente imposto ai paesi in via di sviluppo, che difficilmente possono ambire alla ribellione rispetto a un sistema internazionale che fa uso di ogni possibile espediente per limitarne le potenzialità di crescita.
Dalla derealizzazione dell’economia alla Noosfera
Anche Geminello Alvi, economista e intellettuale italiano, narra le vicende della derealizzazione dell’economia[12]; un processo che Alvi riconosce (a differenza della stragrande maggioranza degli economisti) nella trasformazione operata dal razionalismo sul lavoro umano in generale; nel matematismo che ha progressivamente permeato di sé la teoria economica, nello sviluppo del terziario e dell’informatica, nella smaterializzazione dei consumi (dall’acciaio ai cartoni animati della Disney). Il capitalismo si sarebbe cioè intellettualizzato e avrebbe perso i suoi connotati marxisti. Il secolo attuale, che supera quello di Keynes e del New Deal, dell’Unione Sovietica e del Piano Marshall, ma anche del liberismo vincente negli anni Ottanta, pensa di essere "nuovo", rispetto ai predecessori: una tendenza che si ripete spesso, nella storia. In realtà sarebbe contraddistinto da regolarità, più che rotture; una delle quali è proprio quella che lo accomuna al più recente dei trascorsi, ovvero la fagocitazione degli altri settori (ma anche della cultura e della guerra) nel terziario. Tutto si è economicizzato, tutto si è terziarizzato. Liberismo e mercantilismo non sarebbero altro che i due "soliti" poli di un continuum, che si presenta con regolarità nella storia. Ma il nuovo liberismo, quello che appunto vinceva la prima volta con Reagan, si distanzia dal suo predecessore perché l’economia è divenuta lotteria, al proletariato si sostituisce la plebe cosmopolita legata ai consumi di massa. Tra i compiti che il secolo impone, spiega Alvi, la necessità di "ritornare a Polanyi"; ma anche di "considerare anzitutto quelle visioni dell’economia in cui è chiamato ad agire un superiore elemento di consapevolezza e di morale. Un intreccio di miliardi d’atti umani sempre più intenso dovrà assumersi la responsabilità, morale prima che economica, degli altri e del mondo naturale. Davvero l’articolazione di quella Noosfera di cui parlava Teilhard de Chardin diverrà il problema della futura economia mondiale".
L’etica del one world
Sono molti, oggi, gli studiosi dell’economia che fanno ricorso all’etica. Il premio Nobel Stiglitz[13] afferma ad esempio che nell’aver dato forma e gestione alla globalizzazione, i paesi industrializzati hanno violato alcune norme etiche di base: fallimenti di mercato e di governo che colpiscono maggiormente i paesi poveri; "consigli" del Fondo Monetario che avvantaggiano una categoria particolare alle spese di altre; un sistema internazionale che obbliga i paesi debitori a sopportare i maggiori rischi, e una politica di salvataggio dalla crisi che assicura in primo e spesso unico luogo il rimborso dei creditori occidentali; una politica commerciale largamente fondata sui vantaggi comparati delle nazioni ricche, e dunque nemica dello sviluppo; e così via. Tutti esempi di "unethical acts" che violano, a detta di Stiglitz, persino la versione minimale del giuramento d’Ippocrate: "non recar danno". Nel mondo non smithiano della globalizzazione e del metodo del second best, la ricerca del benessere individuale non conduce necessariamente a risultati socialmente desiderabili.
Molte obiezioni si pongono all’agire etico. Come ricordava Gallino citando Beck in un articolo qualche anno fa[14], il mondo della globalizzazione è anche quello dell’"irresponsabilità organizzata": non è più possibile chiamare in causa il principio di responsabilità nemmeno con riferimento alla coscienza del singolo. Il fatto che le sfere di giustizia siano molteplici e interconnesse, e che il principale carattere della morale sia quello della variabilità, limita la possibilità di agire eticamente senza compromettere il benessere di alcuni. Sarà la politica, allora, sosteneva Gallino, a permettere di agire eticamente, stabilendo principi che impediscano la realizzazione di effetti non voluti derivanti da azioni appunto eticamente orientate; alla politica si dia perciò il compito di individuare dispositivi che possano condurre alla formazione di un consenso pratico su una singola concezione della giustizia. Essa contribuirebbe così a realizzare le condizioni che accrescano la possibilità di conseguire effetti eticamente positivi per il maggior numero di persone, consentendo loro di guidare responsabilmente il proprio destino.
E’ ancora Vattimo[15] a ricordarci come l’etica filosofica contemporanea sembri orientarsi, nel tentativo di riflettere sulle condizioni dell’esistenza contemporanea accentuando l’importanza del dialogo sociale, verso l’obiettivo di "ritrovare la comunità". Primo esponente di questa tendenza a reintrodurre, anche nel campo economico, la società, è Peter Singer, con il suo costante appello a pensarci parte di un unico mondo (un one world, lo chiamerebbe Singer[16]), di un’unica comunità, che in quanto tale richiede un governo mondiale retto da norme etiche globali: "la misura in cui saremo in grado di affrontare l’era della globalizzazione (e forse la possibilità stessa di saperla affrontare) dipenderà da come risponderemo eticamente all’idea che noi viviamo in un unico mondo". Anche Singer, perciò, torna alla società; senza nemmeno sentire il bisogno di abbandonare quell’utilitarismo che invece è combattuto da tutta la sinistra eterodossa come esempio di impostura intellettuale della quale il mercato e le sue logiche impregnano la nostra cultura.
La fine dell’evangelizzazione
Uno dei vantaggi della nostra era risiede nella possibilità di distanziare sempre più il nostro pensiero dalla tentazione utopistica di concepire la natura umana come perfettibile e quindi di volerla migliorare[17], in nome della riforma (o della rivoluzione) del sistema. Un vantaggio, questo, che deriva forse dalla morte di Marx e del fascino ideologico dei marxismi. La grandezza del pensatore tedesco è tale da rivelarsi persino (e forse soprattutto) nel crollo delle ideologie e dei regimi che ne hanno trasformato il pensiero in parola-verità. Solo oggi, dopotutto, è possibile fare in modo che il marxismo ovvii a quel difetto prima insanabile che lo tormentava: e cioè l’essersi posto come teoria finale; après moi, le déluge. Una volta liberato dalla pretesa di costituire il finale di partita, il pensiero di Marx aggiunge un altro contributo ai suoi tanti del passato: il rivelare il carattere utopistico della società comunista finale cui avrebbe portato il metodo marxiano e le sue applicazioni ci permette oggi di porre fine (questa voltà sì) al bisogno di evangelizzare. Semplicemente, non è più necessario, e oltretutto non funziona: è illusorio. La società del consenso informato non si otterrà lanciando un nuovo Capitale dagli aerei sulle piazze (magari del mercato!); più generalmente, è la società stessa che non si può organizzare attorno a idee che intendano, anche solo inconsciamente, bloccare la loro riformulazione. Non è forse questo uno dei significati profondi della democrazia? Il consenso si formerà piuttosto sulla discrezionalità dei governi, sulla possibilità di scegliere e incidere, su quella di far valere nuovi diritti, sulla necessità di non lasciare volutamente indietro qualcuno. Il sacrificio emancipativo di Marx ci permette inoltre di adottare approcci, in fondo, rizomatici. Accerchiare il problema, anziché puntarlo: una sorta di revanche di quell’opportunismo metodologico che era stato proposto qualche tempo fa. Metodi diversi, anche contrastanti (ciò che ci consente di non trattare la complessità come una semplice moda passeggera), per problemi e contesti differenti.
Il rizoma della massa dei topi scivolanti e il nuovo gusto per il tramonto
Che altro non è che una delle possibili conclusioni cui arrivare trainati dai ragionamenti precedenti. Certo non è la soluzione; è piuttosto un’immagine, che contiene un’indicazione di metodo e al contempo una buona metafora dell’obiettivo. Nulla di più; ma è già molto. E’ già un dire che ci accontenteremo di rules of thumb, e che non speriamo di sovvertire il mondo e le sue prassi. Che non cercheremo un nuovo approccio, in grado di elaborare una teoria per interpretare il mondo una volta per tutte. Che non è al passo con i tempi (duri e postmoderni) attendersi la panacea dal crollo delle sue alternative. E forse sarebbe anche ora di emanciparci dalle visioni che identificano l’uomo in primo luogo con il suo lavoro o con il suo stipendio, con il suo consumo o con il suo divertimento. Non possiamo costruire modelli formalmente perfetti per poi scoprire solo in un secondo tempo, per tramite di una guerra intellettuale con la rivoluzione scientifica che ha condotto all’elaborazione di quel modello, che oltre le dinamiche individuali possono essere comprese pienamente solo all’interno di un contesto sociale. Il nostro obiettivo deve essere quello di ampliare, e non ridurre, le opzioni possibili. Senza il bisogno di evangelizzare, non si è costretti a negare l’esistenza dei problemi che non possono essere spiegati con la teoria che si vuole imporre; ecco la necessità dell’opportunismo metodologico. Sembrerà forse strano, ma il nodo gordiano che rappresenta le questioni dell’economia internazionale o della politica dei singoli stati è meno vicino a un quesito matematico che a quella massa di topi scivolanti gli uni sugli altri utilizzata da Deleuze e Guattari[18] per fornire uno fra i tanti esempi del rizoma. Questo stesso articolo ricorda la struttura di un rizoma: è il tentativo di creare legami, trattini che uniscano diversi argomenti, senza il consenso degli autori citati, e con nella mente l’immagine dei topi, anziché quella di un albero con radici, fusto e foglie.
Per affrontarli, occorrerà inserire nella nostra scatola degli attrezzi strumenti che sino ai tempi recenti avremmo scartato: dalla nostalgia alla liberazione dall’evangelizzazione, l’attenzione per il legame sociale (ciò di cui sembra essere un ottimo simbolo, se depurato dalle solite pretese realistiche di limitare il nostro campo d’indagine a ciò che resiste alla falsificazione popperiana, o alle logiche che il mercato pone per sconfiggere ciò che non vi si adatta, il dono; ma ci riserviamo di trattare il tema in un'altra occasione), persino un nuovo gusto per il tramonto: in primis di quelle che inseriamo nel quadro delle nostre virtù occidentali, e che si configurano come altrettanti limiti di azione e pensiero.
Keynes, il problema economico, la Regina Rossa e i lemming-competitors
Sono in tanti, dopotutto, a pensarla in questi termini. Nel nostro piccolo, tenteremo, dalle colonne – o meglio, dai frames – di questo sito web, di mostrare che non è sufficiente adottare un approccio pluridisciplinare per venire a patti con la complessità del mondo e le sfide che attendono l’umanità: non nel suo futuro, ma oggi, soprattutto al suo interno. E cioè, in particolare, la costruzione di una società davvero globale, che sia quanto di più lontano, per mille motivi, dal Washington Consensus world. Secondo Keynes, il problema economico era un male non necessario: il mondo occidentale disporrebbe già (negli anni Trenta del secolo scorso!) delle risorse che possono collocare l’economia tra le questioni di seconda importanza. "Guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso"[19]. Keynes scriveva più di settant’anni fa; e aveva capito come rispondere a chi non prescindeva dall’assoluto realismo delle leggi naturali del mercato, che imporrebbero il sacrificio delle altre questioni, "di maggiore e più duratura importanza". E’ come se il più grande economista della storia non vedesse l’ora di sbarazzarsi del problema economico per dedicarsi alle arti, alla cultura, al teatro; ciò che oggi potremmo fare se non fossimo abituati a considerarci in primo luogo consumatori, produttori, competitors, paesi sviluppati, lavoratori dipendenti, e a patto di aver superato il problema economico, ovviamente. Se l’economia smetterà di essere un problema, ciò dipenderà, come al solito, da noi: saremo capaci di fermarci ad osservare increduli la Regina Rossa rincorsa dai lemming-competitors, che corrono per non essere schiacciati da coloro che li precedono, e per essere i primi a gettarsi nel mare e suicidarsi? Proviamoci, non abbiamo nulla da perdere.
Note al testo
[1]
G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti, Milano, 20002.[2] Si veda in particolare, per non citare che una sorprendente antologia di racconti pubblicata recentemente in italiano, R. MATHESON, Duel e altri racconti, Fanucci Editore, Roma, 2005.
[3] D. RODRIK, How Far Will International Economic Integration Go?, "Journal of Economic Perspectives", Vol. 14, No. 1, Winter 2000, pp. 177-86
[4] Così l’ha definita Thomas Friedman: T. FRIEDMAN, Le radici del futuro: la sfida tra la Lexus e l’ulivo. Che cos’è la globalizzazione e quanto conta la tradizione, Mondadori, Milano, 2001.
[5] K. POLANYI, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 2000 (ed. orig. 1944).
[6] H.-J. CHANG, Kicking Away the Ladder–Development Strategy in Historical Perspective, Anthem Press, London, 2002.
[7] J. BHAGWATI, Elogio della globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2005.
[8] M. THATCHER, Interview for Woman's Own ("no such thing as society"), pagina web: http://www.margaretthatcher.com/Speeches/displaydocument.asp?docid=106689&doctype=1, 23 settembre 1987.
[9] L’espressione è di John Ruggie: J. G. RUGGIE, International Regimes, Transactions, and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order, "International Organizations", Vol. 36, No. 2 (International Regimes), Spring 1982, pp. 379-415.
[10] I. RAMONET, La pensée unique, in "Le Monde Diplomatique", No. 490, Janvier 1995, p. 1.
[11] M. MAUSS, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002.
[12] G. ALVI, L’anima e l’economia, Mondadori, Milano, 2005. Il saggio cui si fa riferimento nel testo è stato pubblicato in P. CIOCCA (a cura di), L’economia mondiale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 1998.
[13] J. E. STIGLITZ, Ethics, Market and Government Failure, and Globalization, paper presented to the Vatican Pontifical Academy of Social Sciences (Casina Pio IV, 2-6 May 2003).
[14] L. GALLINO, Etica, economia, politica, in AA.VV., Etica ed economia, La Stampa, Torino, 1990, pp. 31-53.
[15] Si veda la voce "Etica" nella Enciclopedia della filosofia, a cura di G. VATTIMO, Garzanti, Milano, 2004.
[16] P. SINGER, One World. L’etica della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2003.
[17] Come ricorda lo stesso Singer in P. SINGER, Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Edizioni di Comunità, Torino, 2000
[18] G. DELEUZE et F. GUATTARI, Rizoma, Pratiche, Parma-Lucca, 1977.
[19] J. M. KEYNES, Economic Possibilities for our Grandchildren, in Essays in Persuasion, MacMillan and Co., London, 1933 (la conferenza pubblicata sotto questo nome nel volume citato risale al 1930).