Capitolo terzo

 

 

Le donne dal punto di vista politico e istituzionale

 

 

 

 

 

 

1.      Cosa è cambiato per le donne dopo la rivoluzione di Atatürk

 

Il popolo turco si affidò al carisma di Mustafa Kemal per ottenere la propria indipendenza e, sotto la guida della sua leadership, finalmente ritrovò l’antico sentimento di forza. In condizioni di notevole disparità numerica e tecnologica le forze militari della nazione guidate da Atatürk conseguirono nel 1922, in Anatolia, una definitiva vittoria contro le potenze occidentali. Atatürk restituiva così ai Turchi il loro antico orgoglio.

La guerra di liberazione aveva gettato le basi per lo sviluppo delle idee di sovranità popolare e di repubblica e aveva anche preparato le condizioni necessarie per la rielaborazione delle strutture di genere e la creazione di nuovi modelli di uomini e di donne. Da una parte si esaltava la virilità riportando in auge la figura del militare, dall’altra si estendeva nella coscienza collettiva l’appartenenza delle donne, non più limitata alla sola famiglia, ma all’intera nazione[1].

Le necessità del combattimento avevano sospeso momentaneamente le differenze tra i sessi. La partecipazione delle donne alla mobilitazione aveva contribuito a rafforzare il sentimento nazionale, sottolineando con forza il carattere popolare e totale della guerra. Nel quadro della mobilitazione generale uomini e donne dovevano interagire da vicino, vestendo, pur in modo differente, l’uniforme del combattente per difendere la patria. Ma, a parte insignificanti eccezioni, come quella di Halide Edip Adıvar, che partecipò alla guerra raggiungendo il grado di caporale, non rimasero nomi femminili nella memoria collettiva della liberazione.

Nell’immaginario nazionalista il soldato appariva come puro e casto; egli era impegnato con tutte le sue energie, fisiche, spirituali ed emotive nella difesa dell’onorabilità non solo della società nazionale, ma anche dei valori religiosi. Questa nuova tensione fisica e spirituale si estendeva anche all’immagine della donna. Il nascente nazionalismo della Repubblica turca metteva, al posto della donna della cosmopolita capitale ottomana, sofisticata, moderna, attenta all’esteriorità e riluttante a svolgere il suo ruolo tradizionale, la donna dell’Anatolia, povera, rozza, logorata dalle fatiche. Ella si configurava, nella nascente iconografia ufficiale, da una parte come la principale vittima delle condizioni di arretratezza  economica e culturale, dall’altra con un ruolo attivo nell’edificazione della nazione. Capace d’abnegazione, generosa, altruista e laboriosa, la donna turca arava la terra e coltivava il grano. Era lei, mentre gli uomini erano impegnati a combattere il nemico, a provvedere al sostentamento della famiglia. Non solo, era sempre lei, resistendo alle intemperie della natura, con il suo bimbo in braccio, a fornire armi e munizioni al fronte.  

Le altre donne, quelle più fortunate, figlie di famiglie più agiate, che avevano potuto ricevere un’istruzione, figuravano nell’iconografia nazionalista come maestre e infermiere, tutte impegnate, con la massima serietà, moralità e dedizione, a lenire i dolori della nazione. Molte donne dell’élite ottomana, come Halide Hedip, cresciute nell’atmosfera politica creatasi dopo la rivoluzione del 1908, parteciparono alla guerra d’indipendenza. Nel 1919, quando Mustafa Kemal lanciò la sua guerra contro gli invasori in Anatolia, i gruppi organizzati per la difesa dei diritti femminili costituirono l’«Associazione delle donne dell’Anatolia per la difesa della patria» per fiancheggiare il gruppo kemalista di burocrati, soldati e mercanti.

Nel 1923, a conclusione della guerra, Mustafa Kemal fondò la nuova Repubblica. Nel progetto kemalista di edificazione nazionale lo Stato veniva ad assumere definitivamente il ruolo di principale agente della modernizzazione. Il fatto che il popolo turco divenisse una nazione era concepito come strumento per entrare a far parte della civiltà contemporanea e costruire il proprio futuro nel consesso delle nazioni progredite dell’Occidente. Così il nazionalismo era interpretato nel senso di un progetto per l’avvenire.

In questo disegno non avevano posto né la legittimità dinastica, né tanto meno le basi religiose della coesione sociale. I kemalisti si erano serviti, durante la guerra d’indipendenza nazionale, della forza coesiva dell’Islam per mantenere unita la classe dominante e mobilitare le masse musulmane dell’Anatolia contro il nemico infedele. Ora però questi elementi rappresentavano una minaccia alla legittimità di uno Stato nazionale proiettato verso il futuro obiettivo di una propria integrazione nel mondo occidentale. In questo nuovo contesto l’Islam diventava un pericoloso strumento a disposizione delle forze reazionarie, che poteva essere utilizzato contro la nazione turca, capace di celare l’identità turca e di mantenere il popolo nell’arretratezza economica e culturale. L’ideologia nazionalista ridusse quindi l’Islam a pura fede religiosa.

Il progetto kemalista di società moderna introduceva elementi di disturbo nell’intero complesso delle manifestazioni tradizionali della mascolinità. Il modello di virilità proposto dal kemalismo s’ispirava genericamente a quello tipico delle classi medie francesi. Questo modello, ideato dai modernizzatori ottomani in modo del tutto astorico e decontestualizzato in un processo che aveva avuto inizio nella seconda metà dell’Ottocento, conteneva, al di là delle sue caratteristiche visibili (abbigliamento, portamento, comportamento), ben pochi elementi. La formazione psichica dell’uomo turco, i suoi rapporti con le figure dei genitori, le modalità dell’inserimento nello spazio pubblico, le relazioni con i coetanei, i valori costitutivi della società e la gerarchia sociale, erano tutti elementi che lo rendevano diverso dalla sua controparte francese. Queste differenze dovevano essere rielaborate.

Si cominciò dall’aspetto esteriore, con la cosiddetta “rivoluzione del cappello” (Kıyafet kanunu). Mustafa Kemal, appellandosi alla nazione, diceva che il popolo turco doveva dimostrare la propria civiltà attraverso la vita familiare, il modo di vivere e di vestirsi. I Turchi, nel loro abbigliamento, erano tenuti a rinunciare ai segni del passato, come il fez o, più ancora, il turbante sulla testa degli uomini e il velo sul viso delle donne.

La rimozione del velo dal viso delle donne era la conditio sine qua non per affermare l’avvenuta laicizzazione della Turchia. In uno dei suoi discorsi Atatürk affermava: «In alcuni luoghi incontro donne che mettendosi qualcosa sulla testa cercano di coprirsi la faccia e quando un uomo passa loro accanto gli girano le spalle o, addirittura, si accoccolano a terra. Signori, ditemi voi, madri e figlie di una nazione civile possono mai ridursi a tali comportamenti selvaggi? Queste cose rendono ridicola la nazione. Occorre cambiarle repentinamente»[2].

Le parole utilizzate e il tono paterno del discorso di Atatürk legano esplicitamente l’argomento della segregazione femminile al destino della nazione e nello stesso tempo tradiscono un’ansia di rassicurazione verso il sesso dominante: sono gli uomini, per salvare la nazione, a dover permettere alle donne di non ridursi a tali «comportamenti selvaggi». Mustafa Kemal sosteneva che la nazione per garantirsi un rapido progresso doveva mobilitare tutte le sue risorse e aveva bisogno del contributo delle donne, perché ogni società è fatta in eguale misura da uomini e donne: «Permettetemi di essere franco: ogni società è fatta in eguale misura da donne e da uomini. Se si concedessero tutti i diritti al progresso a una sola parte, lasciando l’altra senza diritti, che cosa succederebbe? È mai possibile che, mentre la metà della popolazione è incatenata, l’altra metà arrivi alle vette? Il progresso è possibile solo attraverso un comune sforzo; solo così possiamo superare con successo i vari stadi dello sviluppo»[3].

La realizzazione della società moderna doveva passare attraverso l’inclusione della donna nella sfera pubblica. La pur limitata partecipazione femminile alla guerra, la sospensione temporanea della tensione sessuale tra i sessi, impegnati a difendere la patria e i valori comuni, avevano aiutato a togliere il velo alle donne e ad includerle nella sfera dei combattenti. Ora la questione era quella di allargare le basi di questa partecipazione adattandola alle condizioni normali di vita della nazione. Questa emancipazione non era però priva di preoccupazioni maschili. Gli stessi intellettuali kemalisti temevano che la donna libera fosse strappata dalle proprie radici, confusa nei suoi valori. Ad entrare in crisi, ovviamente, era la manifestazione tradizionale del dominio maschile. Nell’immaginario collettivo la donna continuava ad essere una potenziale fitne, pericolo di disordine sociale. La sua immissione nella sfera pubblica equivaleva all’introduzione di un’incontrollabile tensione sessuale e gli uomini, data la mancanza di norme culturali e morali che regolassero le relazioni dei due sessi all’esterno, erano privi di strumenti per far fronte alle sue conseguenze e contenerne gli effetti.

In seguito, nel 1926, l’adozione del Codice civile svizzero, apportò radicali cambiamenti nella vita sociale turca e nei rapporti di genere. Il Codice civile riconosceva le donne come cittadini di pari diritto e dava loro visibilità giuridica e sociale. Le successive iniziative legislative concessero alle donne il diritto allo studio, l’accesso alle professioni e dal 1934 le donne turche – tra le prime in Europa – ottennero tutti i formali diritti politici.

In breve la giovane generazione di donne repubblicane, le pioniere della modernizzazione della società turca, per potersi incamminare verso l’emancipazione dall’assoluto dominio maschile della società tradizionale, dovevano accettare la tutela paterna, rispettarne la guida, apprezzarne la generosa protezione e mantenersi degne della sua approvazione. Il Padre della nazione, pur incoraggiando le donne turche a gettare via il velo, non dimenticò mai di ammonirle a non esagerare nel loro abbigliamento e comportamento e a non imitare l’esibizionismo tipico delle donne europee. Il regime, per cambiare l’immaginario collettivo nei confronti della donna liberata dai confini domestici, introduceva una figura di donna seria, impegnata, nazionalista. L’abbigliamento che il regime pretendeva da una donna, da una professionista o da una donna impegnata nell’amministrazione pubblica doveva esaltare le caratteristiche caste dei militanti nazionalisti. Con i corpi stretti in seri tailleur, i capelli tagliati corti, senza trucco, la donna entrava in una specie di uniforme. In un certo senso, l’emancipazione della donna proposta dal kemalismo prevedeva l’annullamento della sessualità femminile nello spazio pubblico. Anche la relazione sociale tra uomini e donne iniziava ad essere concepita, come estensione, sul piano sociale, dei rapporti di parentela. Nello spazio pubblico l’intera società figurava come un’unica famiglia nella quale alle donne ci si rivolgeva con i termini quali “zia”, “sorella”, “madre”.

Per quanto riguardava la famiglia, per alcuni anni fu una questione che non trovava soluzione. Le strutture religiose si opponevano fermamente all’introduzione di nuove regole e persino la Commissione parlamentare, incaricata di apportare modifiche alla legge sulla famiglia, arrivò alla conclusione di accettare la poligamia come un’istituzione socialmente utile, in quanto valida barriera contro la prostituzione e preziosa misura demografica, data la superiorità numerica delle donne (molti uomini infatti erano morti in guerra). Tale proposta lasciava insoddisfatti i quadri kemalisti. Atatürk, come si è già detto, scelse il Codice civile svizzero, e così permise di sottrarre la famiglia ai condizionamenti religiosi, sottoponendola esclusivamente a norme laiche. Il nuovo codice aboliva la poligamia e costringeva l’uomo turco ad accontentarsi di una sola moglie, vista anche la definitiva messa al bando della schiavitù. Poneva un limite di età, vietando ai minorenni di contrarre matrimonio senza esplicita e motivata richiesta parentale. Vietava il matrimonio con parenti stretti e per contrarne uno nuovo occorreva dimostrare la nullità della precedente unione per motivi di morte o di divorzio. Il divorzio diventava una possibilità per tutte e due le parti contraenti; le ragioni per divorziare erano l’adulterio, la violenza fisica e morale, l’immoralità palese, l’abbandono, la malattia mentale. Non appena le pratiche del divorzio avevano inizio, il giudice doveva provvedere alle necessarie misure per la protezione e il mantenimento della donna.

Il Codice civile, pur comportando indubbi miglioramenti nel senso di un trattamento più paritario tra i contraenti, non demoliva la posizione dominante dell’uomo nella vita domestica. Molte delle norme riguardanti la famiglia mettevano le donne sotto la tutela degli uomini: l’uomo rimaneva il capo dell’unione familiare, decideva la residenza della famiglia, era responsabile del sostentamento della moglie e dei figli. In caso di disaccordo su una decisione riguardante i figli, la potestà spettava al padre[4]. La possibilità della donna d’intraprendere un’attività economica o d’impiegarsi in un lavoro dipendeva dall’esplicito permesso del marito. Il marito poteva invece chiedere alla moglie di contribuire al bilancio familiare. Dopo il matrimonio, la donna doveva prendere il cognome del marito, assumeva inoltre la responsabilità della gestione domestica.

Nel nuovo regime familiare, la madre diveniva un’autorità morale ed educativa, la cui influenza era riconosciuta come positiva e formativa in tutto il periodo di crescita per i figli di ambedue i sessi. I figli, dunque, anche dopo la pubertà, continuavano a rimanere sotto l’influenza materna. La moderna donna turca, istruita e libera, diventava la garante della fortificazione dell’intera nazione. Lo Stato aveva provveduto all’apertura di Istituti professionali femminili per la creazione di una vasta sfera borghese di donne preparate ad un’economia domestica razionalizzata.

Nel regime repubblicano fu creato e rafforzato il culto della sfera domestica: gli uomini furono spinti a passare il loro tempo libero in casa, insieme ai membri della famiglia. Questa inclusione dell’uomo nella vita casalinga, senza il previo superamento delle barriere mentali e psicologiche, introduceva la conflittualità uomo-donna in una sfera finora protetta. Per la donna, la presenza dell’uomo rappresentava un’intrusione nel proprio regno e implicava una forte riduzione della sua sfera di dominio; per l’uomo, determinava un’incertezza circa la propria mascolinità, ambiguità dovuta alla sua re-introduzione nella sfera femminile.

Nonostante il sorgere di queste difficoltà, non si può assolutamente negare che le riforme di Atatürk abbiano segnato un’importante linea di demarcazione con il passato: è stato l’inizio di un diverso modo di concepire il rapporto tra i generi. Molto, però, resta ancora da fare e non soltanto in Turchia. C’è ancora molto da rinnovare e da cambiare, soprattutto nella mentalità.

 

 

2. L’ingresso in Parlamento per 18 donne

 

Durante la prima Repubblica, le donne «achieved their highest level of representation in parliament»[5]. Nel 1937, durante le elezioni generali, a seguito del diritto di suffragio delle donne conseguito nel 1934, furono elette deputate 18 donne, che rappresentavano così il 4,5% dell’Assemblea Nazionale. È interessante notare che, nello stesso periodo, alle donne francesi non era stato ancora concesso il diritto di suffragio e che le donne inglesi, che avevano combattuto violentemente per i loro diritti politici, avevano raggiunto soltanto una piccola rappresentanza in Parlamento, tra lo 0,1% e il 2,4% nel periodo 1918-1935[6]. Questo numero così alto, però, non fu mai più raggiunto nelle elezioni successive. Questo livello di rappresentanza si ridusse in modo costante, specialmente dal 1946 in poi, dopo il passaggio ad una democrazia multi-partitica. Dopo la Seconda guerra mondiale ci furono varie pressioni sulle autorità turche per avviare un sistema multipartitico. Ciò fu fatale per la rappresentanza femminile. Le donne persero la possibilità di venire elette quasi automaticamente, come avveniva quando era un solo partito a fissare le regole. La competizione tra più partiti per più seggi in Parlamento costituiva uno svantaggio per le donne. L’ideologia conservatrice del nuovo nato DP (Partito Democratico) ebbe un impatto negativo sulle donne attive in politica. Questa attitudine conservativa verso le donne sarebbe stata ereditata dal partito AP (Partito della Giustizia) dopo il colpo di stato del 1960. Il vecchio “rivoluzionario” CHP (Partito del popolo repubblicano) fu così costretto a cambiare le sue politiche elettorali verso le donne. È difficile, naturalmente, comprendere le vere ragioni di questo calo di rappresentanza femminile. Certo è che alcune iniziative di aggregazione femminile furono vivamente scoraggiate. La prima azione in questo senso fu il rifiuto di autorizzare il Partito dei Popoli delle Donne, fondato nel giugno del 1923. Veramente ciò coincideva con la fondazione del Partito dei Popoli Repubblicani ed era quindi considerato causa di possibili inopportune divisioni. Nonostante la successiva nomina da parte delle donne di un rappresentante maschile come leader del loro partito, Ankara negò il suo consenso e consigliò loro di fondare un’associazione[7]. Questo permise la creazione della Federazione delle Donne Turche nel 1924, che fu sciolta nel 1935, due settimane dopo aver ospitato il dodicesimo Congresso della Federazione Internazionale delle Donne. La scelta di İstanbul come sede per il Congresso era chiaramente ispirata dal raggiungimento del suffragio delle donne in Turchia e si voleva sottolineare a livello internazionale quanto fosse importante questo evento. Infatti, tutte le delegate straniere, compresa l’egiziana Huda Sharawi, esprimevano la loro gratitudine ad Atatürk per il suo interesse riguardo ad un confronto internazionale fra le donne.

Com’è possibile spiegare l’auto-eliminazione della Federazione, sotto le direttive di Ankara, in un tempo così breve e dopo un successo così evidente? Z. Toprak mette in evidenza che uno dei maggiori temi del Congresso era la Pace e che le delegate turche erano influenzate dagli appelli pacifisti delle delegate inglesi, americane e francesi che dominarono il Congresso. La Germania e l’Italia non vi parteciparono. La Turchia era stata fatta inconsapevolmente strumento di propaganda delle Potenze Alleate attraverso la piattaforma femminista del Congresso[8]. Alla vigilia di una maggiore conflagrazione in Europa e in un periodo in cui le spese per la difesa stavano aumentando la loro quota del budget nazionale, la presa di posizione delle femministe turche sul disarmo era inopportuna.

La spiegazione pubblica data dal suo presidente, Latife Bekir, per la chiusura della Federazione, è abbastanza chiara, ma un po’ sui generis: dal momento che le donne turche avevano acquisito la parità totale con gli uomini e godevano di tutte le garanzie costituzionali, veniva a cadere la giustificazione per mantenere in vita la Federazione.

Non conosciamo ancora i veri motivi di questi avvenimenti, se ci siano state o meno delle macchinazioni, poiché ancora c’è molto da indagare, ma soprattutto perché «a separate history of Turkish women’s movements still remains to be written[9].

 

 

 

3. Donne nella società turca: un’eterna contraddizione

 

Quando la gente parla delle donne turche, spesso incorre in luoghi comuni ed in stereotipi. Se il discorso verte sulle migranti, ci si concentra sulle differenze, per esempio sul velo, e le si considera come fuori da qualsiasi sviluppo storico, come schiave della tradizione. Quando, per esempio, si parla di una “ragazza turca”, il pensiero va subito al fatto che lei è “chiusa in casa”, che è “vergine fino al matrimonio” e che non può frequentare la scuola perché si deve occupare dei suoi fratelli e sorelle più piccoli di lei. Questi modi stereotipati di vedere le ragazze e le giovani donne turche, portano al fatto che, se esse vestono diversamente da come ci si aspetta da loro, se non indossano il velo, se hanno occhi blu o un lavoro interessante, sono descritte come “non tipiche” o “già integrate”. Sembra quasi «impossible for a Turkish woman to define herself in a way that does not correspond to a stereotipe»[10].

In una sua ricerca, la filosofa femminista Sandra Harding dimostra che, mentre le donne nere sono incoraggiate a parlare della loro vita in particolare, le donne bianche si attribuiscono il diritto di descrivere la vita delle donne. Secondo la Harding, ciò crea semplificazioni e distorsioni ideologiche[11]. La stessa cosa può essere detta sui vari modi in cui le migranti turche sono descritte negli studi sulle donne. Nella maggior parte di questi studi, le migranti turche, sia nei loro paesi d’origine sia, per esempio, in Germania, sono descritte come vittime delle circostanze; segni di resistenza sono ignorati o trascurati, o, se sono notati, sono ridotti ad un fenomeno marginale.

In Germania, le ricerche sulla vita delle migranti sono spesso finanziate da Amministrazioni locali o da Fondazioni private. Questi progetti hanno la finalità di portare alla luce quei fattori che inibiscono l’integrazione: tali fattori sono evidenziati come la causa del problema e, nello stesso tempo, si trae la conclusione che l’integrazione è resa difficile da specifiche differenze culturali.

Come risultato, le migranti turche sono diventate l’oggetto di ricerche paternalistiche, che dicono poco di rilevante per comprendere la situazione attuale delle donne turche; in breve, esse sono un’espressione del collettivo sogno occidentale dell’Oriente.

Il risultato è che l’Oriente è definito come fondamentalmente differente dall’Occidente, valutando differente non come un termine neutrale, ma confermando la superiorità culturale, economica e sociale dell’Occidente stesso. Si dà per scontato che tutte le donne turche siano oppresse e poste sotto la dominazione di un membro maschile della famiglia, e che ciò sia il risultato della fede religiosa, che nega loro pari diritti in ogni campo. Questo assunto dà anche per scontato che in tutti i Paesi europei la situazione delle donne sia ottimale e che esse godano delle stesse opportunità di cui godono gli uomini, sia sul terreno politico sia su quello sociale e culturale. Non possiamo dire che le cose stiano esattamente così. Bisogna sempre considerare le due sfere, del pubblico e del privato, che marcano, anzi segnano profondamente, la vita delle donne. Se nella realtà esterna, nelle professioni e nel lavoro in generale si sta arrivando ad un azzeramento delle differenze tra i generi, la stessa cosa non può dirsi per la sfera domestica, dove ancora i ruoli sono definiti da stereotipi e spesso viaggiano su binari invisibili.            

Qualcuno potrebbe pensare che in Turchia non esista il femminismo o che sia irrilevante. Esiste, invece, un gran fermento di idee e di movimenti femminili. Dalla nascita della Repubblica fino ai nostri giorni, tante e varie sono state le associazioni. Spesso, le idee portate avanti dalle donne sono state incanalate in un’ideologia di partito. Le donne, però, hanno voluto affrancarsi da un marchio politico e hanno deciso di lottare al di fuori di un canale prestabilito per far emergere problemi comuni a tutte. Una delle più grandi manifestazioni, a cui parteciparono oltre 3.000 donne, si tenne ad İstanbul nel 1987 per protestare contro la violenza fisica (spesso bastonate) sulle mogli. Per la prima volta le donne protestavano contro qualcosa che le riguardava direttamente e non contro la guerra, il fascismo ed altro. Queste proteste continuarono con una campagna di condanna per le molestie sessuali nei confronti delle donne per la strada, sul posto di lavoro e a casa. Nel 1989 ad Ankara si tenne il Primo Congresso Femminista, che stilò un documento, in cui si affermava che l’oppressione femminile è molteplice e che tutte le istituzioni sociali dominate dall’uomo – famiglia, scuola, stato e religione – hanno soggiogato il potere delle donne, i loro corpi e le loro identità.   

Il femminismo, comunque, non è nato nel secolo appena passato, ma bisogna dire che l’ultimo periodo dell’Impero ottomano rivelava già un fermento eccezionale riguardo ai diritti delle donne. A causa della trasformazione dell’alfabeto, con la sostituzione delle lettere arabe con le lettere latine, le giovani generazioni di oggi non hanno accesso a parti importanti della loro storia, perché non sono in grado di leggere quella letteratura, ed è difficile per i giovani immaginare quanto fossero impegnati e soprattutto coraggiosi quei movimenti di donne e quante similarità ci fossero con i movimenti femministi di oggi.

Varie riviste femminili, sia di tendenza islamica sia laica, affrontano i problemi della differenza di genere. Le riviste islamiche femminili condividono largamente con le altre riviste il concetto di uguaglianza di genere e parlano di complementarietà dei sessi. Nell’Islam non è l’uguaglianza che è importante, ma la giustizia. Però, sulle riviste islamiche, non sono mai affrontati argomenti che contestano le regole dell’Islam, tipo il diritto dell’uomo di punire fisicamente la moglie, la poligamia, la testimonianza di due donne equivalente a quella di un solo uomo[12].

Nonostante  il proliferare dei movimenti femministi, si registra ultimamente un numero maggiore di ragazze che scelgono di indossare il velo e di seguire rigorosamente le regole dell’Islam. Sembrerebbe un’inspiegabile contraddizione, ma sono state date delle risposte disarmanti e sconvolgenti alla domanda: “Perché avete fatto questa scelta?”. Un buon numero di studentesse universitarie in Turchia, addirittura, ha affermato che un ritorno all’Islam significa dare più libertà alle donne, dal momento che possono vedere le loro madri come donne veramente oppresse, con troppe responsabilità soltanto sulle loro spalle: gestione della casa, lavoro, cura dei figli. Secondo queste ragazze, ciò non è imputabile all’Islam, dal momento che l’Islam non obbliga le donne a servire i loro mariti e ad espletare le faccende domestiche: il solo obbligo che l’Islam dà alle donne è quello di partorire i figli. D’altra parte, nel Corano è prevista la schiavitù, per cui si delegavano gli schiavi a fare le faccende domestiche!

Capire cosa motiva veramente queste donne a seguire e propagandare un’ideologia che relega le donne in una posizione secondaria è oltremodo difficile. Si potrebbe azzardare una risposta, che avrebbe, a mio parere, una buona percentuale di verità. Le donne, in Turchia, hanno visto che le promesse di eguaglianza politica e sociale, non sono state trasferite nella vita di ogni giorno, spesso rimangono parole senza significato, soprattutto nelle piccole città e nelle zone rurali. Esse non trovano alcun riscontro nella loro sfera personale e nella propria esperienza. Ecco allora che le donne cercano qualcosa che possa risolvere il loro dilemma e che le faccia sentire importanti nel fare qualcosa (le mogli e le madri), ruolo glorificato dall’Islam. Ciò permette loro di non sentirsi insoddisfatte se sono costrette a rimanere in casa, perché magari non trovano un lavoro[13].

Certamente non si può dare una sola risposta ad una domanda così complessa. La Turchia è varia sia per quanto riguarda le lingue, sia per quel che riguarda la gente che la abita. Non possiamo parlare di popolo turco, ma di “popoli” turchi. Forse in nessun’altra nazione riscontriamo tanti incroci di etnie, di culture e di tradizioni come in Turchia ed è innegabile che tutto ciò debba essere tenuto presente quando ci si accosta allo studio di una realtà così variegata.

 

 

 

4. Il lavoro femminile.

 

Si è già detto che è l’uomo ad avere il dovere di mantenere la famiglia e di conseguenza anche la propria moglie. Secondo le regole dell’Islam, la donna non ha alcun obbligo di lavorare. Ma il rovescio della medaglia ci dice che non ne ha neanche il diritto. Ciò non toglie che in alcuni periodi, anche prima della riforma di Kemal Atatürk, le donne lavorassero, e parecchio.

Già verso la fine dell’Ottocento l’assoluta tutela economica delle donne, fino ad allora garantita dagli uomini, cominciava a difettare a causa della crescente povertà e della morte degli uomini sempre più spesso mandati in guerra. Le richieste per l’educazione e per l’opportunità di lavoro delle donne ottomane politicamente impegnate, portavano con sé una domanda di legittimazione della presenza femminile nello spazio pubblico. Presenza resa possibile soprattutto dalle condizioni create dalle continue guerre tra gli anni 1912-1922. Nel 1913, per esempio, nell’industria tessile più del 50% della forza lavoro era costituita da donne e bambini; nella produzione della seta la percentuale arrivava addirittura fino al 95%[14]. Anche nel settore agricolo, per esempio nella produzione di tabacco, frutta secca e cotone, le operaie costituivano la maggioranza. L’ingresso delle donne nell’amministrazione civile rappresentava poi una seconda rivoluzionaria novità.

Con il passare degli anni, il diritto delle donne al lavoro si è aggiunto al dovere dei compiti di gestione domestica, sia nelle aree urbane sia in quelle rurali. Nelle aree rurali lavora un maggior numero di donne rispetto alle aree urbane. Nel 1985, l’85% delle donne lavoratrici svolgevano un lavoro familiare non pagato nel settore dell’agricoltura[15]. Le statistiche, tuttavia, indicano che in tendenza il numero delle lavoratrici a titolo gratuito nell’ambito familiare sta diminuendo, a vantaggio di occupazioni retribuite.

Al contrario, le donne delle aree urbane, sono marginalizzate dal mercato del lavoro, e quindi è chiaro che la loro partecipazione nella vita economica è molto limitata.

La struttura della popolazione economicamente attiva nei settori non agricoli (industria e servizi), è estremamente sbilanciata in termini di differenziazione dei sessi:

 

·   Nei settori non agricoli, solo il 12% degli impiegati erano donne nel 1985, paragonate al 9% nel 1960.

·   Degli impiegati nell’industria, il 14% erano donne nel 1985. Nel 1960 erano il 15%.

·   Solo l’11% degli impiegati nei servizi erano donne nel 1985. Nel 1960 erano il 6%.

 

Come si nota, il settore dei servizi è quello che rivela una crescita maggiore in percentuale, crescita che sicuramente è destinata a salire, ma nello stesso tempo aumentano in proporzione anche gli uomini. Questa tendenza è perfettamente in linea con la tendenza generale del lavoro femminile, a qualunque nazione ci si voglia riferire. Pierre Bourdieu[16] osserva che si assiste a un forte aumento della presenza delle donne nelle professioni intellettuali, nell’amministrazione e nelle diverse forme di vendita dei servizi simbolici – giornalismo, televisione, cinema, radio, pubbliche relazioni, pubblicità, arredamento – come pure un intensificarsi della loro partecipazione alle professioni vicine alla definizione tradizionale delle attività femminili (insegnamento, assistenza sociale, attività paramediche). Resta il fatto che le diplomate hanno avuto come principale sbocco le professioni d’intermediazione medie (quadri amministrativi medi, tecnici, membri del personale medico e sociale, ecc.), ma restano praticamente escluse, salvo rare eccezioni, dai posti di autorità e di responsabilità, in particolare nell’economia e nella finanza, oltre che nella politica. L’accesso alle diverse professioni è regolato con una logica che fa sì che i progressi delle donne potrebbero dissimulare quelli corrispondenti degli uomini, col rischio di non vedere che permane sempre lo scarto, la distanza.

I cambiamenti stessi della condizione femminile obbediscono sempre alla logica del modello tradizionale della divisione sociale tra il maschile e il femminile. Gli uomini continuano a dominare lo spazio pubblico e il campo del potere (in particolare quello economico, della produzione), mentre le donne si orientano (in modo prevalente) verso lo spazio privato (domestico, luogo della riproduzione), in cui «si perpetua la logica dell’economia dei beni simbolici, o verso quelle specie di estensioni di tale spazio che sono i servizi sociali (ospedalieri soprattutto) ed educativi, oppure ancora verso gli universi di produzione simbolica (campo letterario, artistico, giornalistico ecc.)»[17].

Tre principi pratici permeano le scelte delle donne e delle persone che le circondano. In base al primo di tali principi, le funzioni adatte alle donne si situano nel prolungamento delle funzioni domestiche – insegnamento, assistenza e servizi. Il secondo principio vuole che una donna non possa avere autorità su uomini e che quindi abbia buone probabilità, a parità di condizioni, di vedersi preferire un uomo in una posizione d’autorità e di essere relegata a funzioni subordinate di assistenza. Il terzo principio conferisce all’uomo il monopolio della manipolazione degli oggetti tecnici e delle macchine.     

Ritornando alla Turchia, la limitata partecipazione delle donne nelle attività economiche urbane è stata spiegata generalmente in termini del loro ruolo familiare e delle relazioni patriarcali nella famiglia. Inoltre, il lavoro fuori casa delle donne non è mai stato una priorità: in genere ha assunto sempre il carattere di un lavoro temporaneo, svolto nei periodi di difficoltà economica. La priorità resta sempre la casa e la maternità. Ciò si verifica specialmente nei periodi di crisi economica, in cui la disoccupazione tende a salire, per cui le donne quasi sempre rinunciano a competere con i loro uomini per un posto di lavoro dal momento che esse hanno già il loro bel fardello giornaliero (casa, cura dei figli, del marito ed eventualmente dei genitori anziani). Il sistema patriarcale permane con tutta la sua forza. Sebbene tale sistema potrebbe cambiare col tempo, la marginalità delle donne è rafforzata soprattutto dai meccanismi seguenti:

 

·   Il mantenimento di un basso livello d’istruzione formale, più per le donne che per gli uomini, e la mancanza di formazione professionale per posti di lavoro specializzato (come l’apprendistato e i corsi di formazione).

·   L’esclusione delle donne da professioni e lavori specifici (come banca, uffici delle tasse e amministrazioni locali).

·   Il mantenimento di una quota fissa di donne in professioni e lavori specifici (come nelle forze armate).

·   Discriminazione nel reclutamento e sul posto di lavoro (come la preferenza per le single piuttosto che per le coniugate), trattamento differente tra donne e uomini come lavoratrici non specializzate e lavoratori specializzati.

·   Discriminazione sessuale riguardo ai salari (rinforzando i differenziali salariali attraverso cambiamenti nella descrizione del lavoro).

·   Licenziamento per matrimonio e per gravidanza.

·   Licenziamento delle donne prima degli uomini in tempo di crisi, con indennizzo.

·   Legislazione protezionistica che impedisce alle donne di accedere ad alcuni lavori.

·   Discriminazione dei sindacati nei riguardi delle donne e  loro scarsa rappresentanza nei quadri amministrativi.

 

Tutti questi problemi spingono le donne verso attività informali. La crisi dell’occupazione e un basso reddito fanno sì che un rilevante numero di donne (su cui tuttavia non si hanno informazioni precise, proprio perché il settore è informale), faccia dei piccoli lavori, come la pulizia, il baby-sitting, talvolta anche delle produzioni artistiche o semplici manufatti a domicilio che poi sono venduti al mercato[18].

Uno dei settori produttivi di non trascurabile importanza è quello della lavorazione dei tappeti. Sono state condotte alcune ricerche riguardanti le disuguaglianze di genere in questo campo; sono, comunque, ancora dei risultati che si riferiscono ad un territorio limitato rispetto alla realtà della Turchia nel suo insieme.

È stato studiato che la lavorazione dei tappeti costituisce la fonte di un reddito aggiuntivo per le finanze di un’unità familiare e che tale lavoro spesso è controllato dal dominio maschile. Gli uomini hanno cominciato a «pressure women to work longers hours to complete carpets earlier, and daughters were deprived of schooling»[19]. Per giunta, la relazione indiretta delle donne con l’economia in contanti è continuata, da quando i tappeti sono venduti dagli uomini e i filati sono comprati dagli uomini. In alcuni casi essi si poggiano esclusivamente sul lavoro delle loro mogli, occupandosi essenzialmente del commercio dei manufatti. In ogni caso la direzione è una sola: lo sfruttamento del lavoro femminile e minorile. Questo succede sia che la lavorazione avvenga in casa, sia che avvenga in un negozio, perché si è visto che il proprietario del negozio è quasi sempre un parente delle lavoratrici. Bisogna notare un particolare non da poco: se il lavoro è svolto in casa, il tempo necessario è ricavato tra una faccenda e l’altra, se è svolto fuori casa, gli orari diventano rigidi. In quest’ultimo caso, però, il lavoro femminile acquista più valore, è cioè visto come fonte di guadagno, mentre quello nello spazio domestico è considerato qualcosa che si fa nel tempo libero, quasi come un’attività divertente che rilassa dalle incombenze domestiche. Certo, se si tratta di una famiglia nucleare, è più facile che il lavoro venga svolto in casa, poiché quello svolto in un negozietto vede la partecipazione di madri, sorelle e figlie; esse si dividono i compiti e riescono contemporaneamente a svolgerli tutti aiutandosi a vicenda: in genere le più giovani si specializzano nella lavorazione e le più mature nella ri-produzione. A questo punto è necessario dire che le donne giovani sono controllate non soltanto dagli uomini, ma anche dalle donne più anziane, a cui del resto sono soggette anche per il fatto che affidano loro i bambini piccoli e quindi sono doppiamente inserite in un controllo che continua a far parte del sistema patriarcale dove tutto è ben ordinato.

In Turchia, come in qualsiasi parte, l’integrazione delle donne nel processo di sviluppo come partners degli uomini in completa parità «is confronted with serious obstacles»[20]. Alcuni di questi ostacoli sono politici, altri attitudinali. La resistenza ad una più grande partecipazione femminile nella vita politica ed economica è generalmente più forte tra i gruppi più esposti ad un rapido cambiamento sociale e più ambivalenti rispetto a ciò. Ancora, altri ostacoli sono concettuali, per esempio, l’impiego delle donne è in larga misura considerato supplementare a quello degli uomini. Un’altra idea sbagliata è quella che si riferisce al lavoro delle donne e degli uomini. Un esempio di quest’affermazione è quello di una donna che lavora in famiglia ma che non è retribuita. L’eliminazione degli stereotipi di genere è necessaria per avviarsi verso un sistema democratico, che cambi le situazioni di fatto e non solo a parole.

Ora, se diamo un rapido sguardo ad alcune professioni prestigiose, potremo trovare delle novità interessanti. In Turchia, notiamo un alto (sempre relativamente) numero di donne in queste due professioni: avvocato e medico. Uno su ogni cinque praticanti avvocati è donna. Uno su ogni sei praticanti medici è donna. Questo è strano in ragione del fatto che Legge e Medicina sono tradizionalmente stati bastioni di un’esclusività maschile nelle società occidentali industrializzate e, fino a tempi molto recenti, un numero veramente esiguo di donne è riuscito a penetrare le loro roccaforti[21].

A differenza di alcune professioni meno prestigiose, come infermiera ed educatrice, le scuole di legge e di medicina sono state a lungo considerate territorio della classe maschile, e nonostante il rapido movimento verso l’integrazione sessuale nelle scuole professionali, i medici donne e gli avvocati donne si ritrovano in netta minoranza rispetto ai loro colleghi maschi  ed è plausibile che ci vorrà ancora un po’ di tempo per arrivare ad una rappresentanza paritaria dei due sessi.

L’alta incidenza di praticanti donne in legge e medicina in Turchia appare anomala non solo in contrasto con i patterns osservati nell’Occidente, ma anche in considerazione del basso livello d’istruzione femminile e della scarsa partecipazione delle donne nella forza-lavoro. Le donne costituiscono circa il 10% della forza lavoro urbana in Turchia e approssimativamente metà delle donne al di sopra dei 15 anni nelle aree urbane in Turchia non hanno mai finito la scuola elementare[22]. Come possiamo, allora, spiegare l’alta percentuale di donne in professioni tanto prestigiose come il medico e l’avvocato? Se si esamina più a fondo  la questione, si può notare che la percentuale di donne che accedono a queste professioni sale fino ad arrivare al 21% nelle grandi città come Ankara, İstanbul ed İzmir, per scendere all’8% nelle città più piccole fino ad arrivare a percentuali ancora più basse nelle aree rurali.

Non si deve dimenticare comunque che, ad ostacolare l’eliminazione del disavanzo che continua ad esserci tra i generi, in questo caso per quanto riguarda le professioni, sono le certezze accumulate in millenni di dominazione maschile le cose difficili da mandar via; spesso queste certezze fanno parte di noi, non ci si rende conto che si parte da presupposti falsi, già viziati da errori millenari.

In una ricerca del 1973 in Turchia è stato chiesto ad un buon numero di madri  tra i 15 e i 49 anni quale occupazione preferissero per i loro figli e le loro figlie. In entrambe le aree, sia rurale che urbana, un quarto delle madri hanno risposto che preferivano per le loro figlie un lavoro come insegnanti. La seconda occupazione scelta era la casalinga (in verità questa seconda occupazione è stata scelta più nell’area rurale che nell’area urbana). In generale, comunque, le risposte, eccetto per la professione di casalinga, sono state: insegnanti, infermiere, ostetriche o sarte. Per i figli maschi invece le risposte sono state molto diverse: medici, insegnanti, ingegneri e architetti.

Questo non fa che confermare il sistema «delle “attese oggettive” inscritte, soprattutto allo stato implicito, nelle posizioni offerte alle donne dalla struttura, ancora fortemente sessuata, della divisione del lavoro che le disposizioni dette “femminili”, inculcate dalla famiglia e da tutto l’ordine sociale, possono compiersi, o persino espandersi, e trovarsi nello stesso tempo ricompensate, contribuendo così a rafforzare la dicotomia sessuale fondamentale»[23].

Questa dicotomia esiste anche tra le diverse attività, che possono essere nobili e difficili quando sono realizzate da uomini, insignificanti e impercettibili, facili e futili quando sono esercitate da donne – come risulta dalla distanza che separa il cuoco dalla cuoca, il sarto dalla sarta: basta che gli uomini si assumano compiti considerati femminili e li svolgano fuori dalla sfera privata perché tali compiti vengano come nobilitati e trasfigurati. Ciò risponde al criterio del doppio standard, come dicono gli anglosassoni, che instaura un’asimmetria radicale nella valutazione delle attività maschili e femminili. 

 

 

 

5.      Effetti dell’emigrazione sulle donne che rimangono in Turchia

 

Si è cominciato ad avviare degli studi sull’emigrazione e precisamente Ulla-Britt Engelbrektsson ha cercato di esaminare la situazione in cui l’uomo emigra e la donna resta nel proprio paese. Naturalmente è stato necessario restringere il campo e così la scelta è caduta su due villaggi dell’Anatolia Centrale. I due villaggi presentavano differenti patterns di emigrazione, specialmente rispetto al numero delle donne coinvolte. In uno dei due villaggi c’era un piccolissimo numero di donne migranti, nell’altro invece il numero delle donne e quello degli uomini era quasi equivalente. In entrambi i casi, tuttavia, il fattore decisivo pro o contro l’emigrazione delle donne è uno e sempre lo stesso: il volere dichiarato dell’uomo.

Nel primo villaggio gli uomini avevano deciso che le donne avrebbero dovuto restare a casa, mentre nell’altro avevano scelto di condurle con sé. A noi interessa il primo villaggio, Alihan. Alihan è situato a circa 100 kilometri a sud di Konya. Quando l’emigrazione cominciò nella metà degli anni Sessanta, Alihan aveva una popolazione stimata di 650 persone. Fino al 1977, 135 adulti avevano lasciato il villaggio per andare in Europa, ma tra questi c’erano solo 15 donne. Di conseguenza il villaggio provò un esodo di massa di uomini giovani e di età media, con una maggioranza di donne che rimanevano nel paese. Ciò creò una situazione per cui la maggior parte delle famiglie del villaggio erano spazialmente separate. La decisione se le donne dovevano andare o rimanere indietro era presa «by the men and not by the women themselves»[24].

 La maggior parte delle donne volevano accompagnare i loro mariti in Europa, ma la maggior parte degli uomini non era d’accordo. A noi interessa sapere se le donne rimaste nel villaggio erano riuscite almeno a prendere delle decisioni per se stesse e per gli altri membri della famiglia; è interessante capire se l’emigrazione dei mariti abbia avuto degli effetti positivi sulla gestione dell’unità familiare. Ma non è da tralasciare un’altra questione: «Have the men’experiences of women’s position in western cultures altered their view of the role of women?»[25].

Gli osservatori della vita del villaggio turco concordano nel ritenere che sia comune da un capo all’altro del paese per gli uomini avere l’ultima parola su ogni decisione. Nello stesso tempo, gli uomini sono soliti lasciare una larga parte delle decisioni concernenti la vita quotidiana dell’unità familiare e l’educazione dei figli alle donne. Le decisioni che riguardano gli affari e le relazioni con il mondo al di fuori del villaggio, così come le decisioni concernenti cambiamenti importanti da fare in famiglia, sono considerati affari di uomini. Comunque si è spesso visto che le donne trovano il modo di influenzare i loro uomini, anche in quelle sfere. L’ultima parola deve rimanere ai mariti (o ai padri o ai fratelli), in modo da far apparire che sono gli uomini a prendere le decisioni.

Anche prima dell’emigrazione, le due sfere, maschile e femminile, erano abbastanza distinte e gli uomini non avevano nessun interesse a colmare la distanza esistente. È ovvio che, dopo l’emigrazione, diventa ancora più difficile per le donne influenzare i loro mariti che si trovano a migliaia di chilometri di distanza oppure quando sono in vacanza per poche settimane l’anno, oppure ogni due o tre anni.

La maggior parte delle donne di Alihan ha grandi difficoltà nello scrivere lettere. Molte di loro, specialmente quelle più anziane, non sono capaci di scrivere e devono chiedere a qualcuno di scrivere per loro. Pochissime lettere sono scambiate, anche se l’emigrazione dura molto tempo. «The men in Europe tend to comunicate with some male relative back home rather than directly with their wives. In fact a young man who writes directly to his wife expresses ‘too much interest’ in her and is considered to be a somewhat suspect person; what a man has to say to his wife should be said via the patriarch»[26]. Anche se ci sono alcune comunicazioni attraverso le lettere, è ovvio che la maggior parte di queste contengono pochissime informazioni dirette e difficilmente pensieri personali, ma sono un concentrato di frasi scontate e saluti vari. Quindi tali lettere rappresentano difficilmente un modo di comunicare veramente con i loro mariti e ancor meno una via di esercitare una qualche influenza sui loro uomini.

Con la maggioranza degli uomini all’estero, qualche donna è riuscita ad assumere le funzioni di capo-famiglia, tuttavia sempre nelle sfere ritenute comunemente femminili, tipo la cura dei figli e i problemi giornalieri della casa. Raramente riesce ad assumere il controllo diretto su tutti i lavori concernenti l’agricoltura. In questo settore gli uomini danno la responsabilità ad un parente maschio oppure ad un conoscente residente nel villaggio. Nei tempi passati la maggior parte degli affari con il mondo fuori del villaggio era tenuta dagli uomini; le donne raramente lasciavano il villaggio ed in nessun caso lo facevano senza una scorta maschile. Oggi, talvolta, se le donne vanno in città per spese di una certa importanza, sono accompagnate da un parente maschio, vecchio o giovane non ha importanza. Se non c’è alcun parente maschio a disposizione, e devono andarci per una ragione importante, ci vanno con altre donne, mai da sole. Questa non è soltanto una questione di sicurezza, ma anche la consapevolezza del fatto che senza un uomo che sbrighi gli affari o che guardi i loro interessi, le donne spesso si trovano in una fragile posizione in città, dal momento che si trovano in mezzo ad una moltitudine di uomini che hanno una bassa considerazione delle donne provenienti da un piccolo villaggio.

La maggior parte delle donne del villaggio sicuramente ha più denaro oggi rispetto a prima (la ricerca è stata pubblicata nel 1983), denaro che esse possono maneggiare; però questo denaro copre tutte le spese e a loro non rimane quasi niente per le necessità personali. Alcuni degli uomini che stanno all’estero sembra non si rendano conto che il costo della vita  in Turchia sia cresciuto enormemente negli ultimi tempi a causa dell’inflazione. Così accusano le donne di non sapere gestire il denaro, di spenderlo in vestiti e in altri beni non necessari, mentre loro vivono fuori di casa in cattive condizioni, lavorando duramente per assicurare un futuro migliore alla famiglia. Le donne sono considerate consumatrici di ciò che gli uomini producono, piuttosto che come una parte vitale nella stessa produzione. Bisogna considerare che all’inizio del secolo scorso, donne e uomini si dividevano il lavoro dei campi, perché le operazioni erano fatte manualmente e c’era bisogno di molte braccia. Col passare degli anni, anche con i guadagni realizzati dai lavoratori all’estero, l’agricoltura si è andata pian piano meccanizzando e così è risultato sempre meno necessario il lavoro continuativo delle donne nei campi. In questo modo, le donne sono state estromesse sia dal lavoro produttivo nell’agricoltura, sia dal lavoro all’estero. La maggior parte delle donne presenti nel villaggio si occupa della gestione dell’unità familiare, senza ricavarne alcun denaro. Così gli uomini che risiedono all’estero non beneficiano in alcun modo del lavoro di cura delle donne e, in più, sono costretti a tenere in ordine la propria casa e a svolgere tutti quei compiti che sono considerati esclusivamente femminili. Questo è visto come una lesione dell’integrità e della dignità maschile. Inoltre, molti dei manufatti che le donne realizzano in casa, come calze di lana, guanti, vestiti, non sono più ben visti dagli uomini che vivono fuori, che ormai si sono abituati a vedere cose più moderne, per cui denigrano e disprezzano tali oggetti e non danno loro neanche il giusto valore in termini di tempo occorso a realizzarli.

Un altro grosso problema che tende a svalutare le donne agli occhi dei loro uomini è l’educazione dei figli. Nei tempi passati, sembra che gli uomini non avessero alcuna difficoltà ad ottenere rispetto dai loro figli. Anche se si dovevano assentare per un periodo, gli occhi degli altri uomini del villaggio erano tutti sui giovani, che si sentivano giudicati per il loro eventuale cattivo comportamento. Ora, con la mancanza di tanti padri, i giovani maschi non portano un gran rispetto per le loro madri, non frequentano i luoghi in cui vanno gli uomini più maturi, anzi si spostano a Konia per vedere i film americani ed europei. Essi si sentono superiori alle donne e tutto naturalmente tende a farli convincere di ciò; questo causa  disobbedienza nei confronti delle madri. Come in un circolo vizioso, le donne sono accusate di non sapere più educare i loro figli.

Inoltre, mentre negli anni passati l’unità familiare era allargata, e la nuova coppia di sposi viveva con i genitori, ora l’uomo che sta all’estero, cerca di comprare una casa indipendente in città, non nel villaggio. Questo, lungi dall’essere una liberazione per le donne, si presenta come una maggiore costrizione; nel villaggio la donna aveva la possibilità di muoversi se pure limitatamente e in compagnia, in città è più controllata. Mentre da una parte l’uomo che è stato all’estero si considera un esperto della vita in città e a volte deride il vecchio modo di abbigliarsi delle donne al villaggio, nello stesso tempo impedisce l’inserimento effettivo della moglie nella nuova città. I contatti avuti con donne europee da parte degli uomini turchi, sembra abbia prodotto un doppio ideale di donna. Essi prediligono la donna europea come compagna e come partner sessuale, mentre non la sceglierebbero mai come moglie. Al loro ritorno essi si vantano di avere avuto contatti intimi con donne europee e non cercano assolutamente di nasconderlo. Le mogli rimaste ad Alihan, invece, devono stare molto attente persino nel guardare un altro uomo. Esse non hanno possibilità di scelta: devono accettare anni di separazione involontaria e di astinenza sessuale; in genere non esprimono dispiacere riguardo al fatto che i loro uomini abbiano dei brevi coinvolgimenti con donne europee, ma spesso sono preoccupate di non riuscire a soddisfare come donne i loro uomini, ed hanno paura del fatto che i loro mariti potrebbero innamorarsi delle straniere ed instaurare con loro delle relazioni durature. Esse temono questo perché si sentono inferiori alle europee, soprattutto perché non hanno la possibilità di competere con loro, sia perché non sono presenti, sia per le esperienze, sia per l’istruzione[27].

Questi timori non sono sempre infondati, perché il numero dei divorzi è in aumento ad Alihan: ciò rappresenta una catastrofe per le donne. Una donna ridiventata single non è ben vista e deve ritornare nella casa del padre o di qualche fratello e aspettare che sia combinato un nuovo matrimonio per lei, sicuramente a condizioni meno favorevoli del primo. Eventi come questi dimostrano l’estrema vulnerabilità delle donne di Alihan come mogli di emigranti.

Sono situazioni molto particolari e di non facile soluzione, che hanno messo sul tappeto molti problemi. Forse solo il tempo ed una diversità di approccio ai generi, specialmente per tutto ciò che riguarda il campo dell’educazione, potranno contribuire a realizzare i cambiamenti necessari ad una pari opportunità, ma soprattutto alla pari dignità.

 

 

 

6.            Spazio privato e spazio pubblico

 

La lettura dello spazio sociale è qualcosa che ultimamente va di moda tra i sociologi, gli antropologi, i geografi ed altri studiosi. Tuttavia, è un problema da affrontare con estrema cautela, poiché spesso è letto come culturale qualcosa che è soltanto il frutto dell’azione umana[28]. La cultura, secondo Giddens e Bourdieu, è la somma totale delle pratiche individuali forzate dalle gerarchie di potere, genere, classe o località. Queste pratiche sono riprodotte da ciò che Bourdieu chiama habitus e Giddens strutturazione. Per studiare la divisione dello spazio sociale tra i generi e il modo differente di usufruirne, è necessario contestualizzare il tutto nella situazione reale dell’ordine sociale. Le divisioni costitutive dell’ordine sociale, più precisamente, i rapporti sociali di dominio e sfruttamento istituiti tra i generi, s’inscrivono in due classi di habitus differenti, sotto forma di principi di visione e di divisione «che portano a classificare tutte le cose del mondo e tutte le pratiche secondo distinzioni riconducibili all’opposizione tra maschile e femminile»[29].

 Spetta agli uomini, situati dalla parte dell’esterno, dell’ufficiale, del pubblico, del secco, dell’alto, del discontinuo, compiere tutti gli atti insieme brevi, pericolosi e spettacolari che segnano una rottura nel corso ordinario della vita. Le donne, invece, essendo situate dalla parte dell’interno, dell’umido, del basso, del curvo e del continuo, si vedono assegnare tutti i lavori domestici, cioè quelli privati e nascosti, se non invisibili o vergognosi, come la cura dei bambini e degli animali, nonché tutti i lavori esterni e in modo particolare i più monotoni e i più umili. Le donne possono soltanto divenire ciò che sono, devono dedicarsi alla cura domestica per garantire un ordine immutabile. Gli uomini (e le donne stesse) possono solo ignorare come sia «la logica del rapporto di dominio che riesce a imporre e a inculcare nelle donne, insieme alle virtù che la morale fa loro perseguire, tutte le proprietà negative che la visione dominante attribuisce alla loro natura, come l’astuzia o, per prendere un tratto più favorevole, l’intuizione»[30].

Le strutture di dominio sono il prodotto di un lavoro incessante (quindi storico) di riproduzione cui contribuiscono agenti singoli (fra cui gli uomini, con armi come la violenza fisica e la violenza simbolica) e istituzioni, famiglie, chiesa, scuola e stato. Il problema è che i dominati applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali. E ciò può portare ad una sorta di autosvalutazione, se non di autodenigrazione sistematica. Per esempio, se alle donne è vietato entrare in un certo luogo, col tempo esse stesse vi rinunciano e alla fine si autoescludono, facendo rientrare tutto ciò nell’ordine naturale delle cose.

Molti studi sono stati fatti, come è stato detto, da specialisti in tanti campi del sapere, dalla sociologia all’antropologia, dalla geografia alla filosofia. Anche le filosofe femministe hanno cercato di delineare i confini tra l’ambito interno e quello esterno, dando delle spiegazioni filosofiche al problema, talvolta facendo risalire a Platone la differenza tra dentro e fuori, tra luce e buio: infatti definiscono la caverna del mito del filosofo come lo spazio femminile e quello che c’è fuori come lo spazio maschile. Il buio è l’ignoranza, la luce è la sapienza. Il vuoto è il femminile, il pieno è il maschile. La questione è, dal mio punto di vista, stabilire quanto nella storia si è voluto che le due sfere fossero complementari e quanto invece rappresentino la gerarchia di genere.

La sfera della casa, ad ogni modo, rimane uno spazio riservato alle donne. L’importante è cercare di capire se negli spazi pubblici, principalmente la scuola, il sistema cambia oppure se perpetua e avalla un certo modo di pensare, se anche nella scuola è continuata e giustificata la gerarchia di genere. Secondo Bøggild Mortensen Lotte, la scuola primaria non è in grado di giocare un ruolo importante nel permettere alle donne di adattarsi ad una società che cambia velocemente. L’educazione ricevuta a scuola nei primi cinque anni, «is not capable of altering the traditional role attributed to women by society»[31].

Talvolta, nei piccoli villaggi turchi non si dà molta importanza alla scolarizzazione e se si tratta di bambine se ne dà ancora meno. Nei villaggi, se qualche valore è dato all’istruzione, è perché spesso le madri dei ragazzi vogliono una ragazza ben istruita per i loro figli, in modo che potranno essere delle buone madri per i piccoli che nasceranno. Una buona istruzione per le ragazze dipende, in moltissimi casi, dal modo di pensare dei padri. In questo caso, il padre sceglierà di abitare in un paese più grande, dove c’è la possibilità di mandare tranquillamente a scuola i propri figli.

Il pensiero dominante resta sempre quello che è l’uomo a dover mantenere la famiglia, quindi le sue responsabilità sono maggiori e ben più importanti di quelle della donna. Eppure non pochi sono i casi in cui l’uomo rimane senza lavoro per un certo periodo di tempo ed allora può capitare che le uniche entrate derivino dal lavoro della donna. Anche quando la situazione è evidente, l’uomo rimane il responsabile degli affari all’esterno della casa. Infatti, la moglie non vuole che il marito si senta umiliato, che perda la sua identità maschile, derivatagli dal suo potere e dovere di essere il responsabile della famiglia. Ancora una volta la sfera esterna non coincide con quella interna, anzi, in questo caso, la donna si ritrova ad essere la responsabile dei due domini, in quanto la gestione della casa rimane sempre compito della moglie.   

 

 

 

7.            La Turchia verso l’Unione Europea

 

Cosa separa la Turchia dall’ingresso nell’Unione Europea? Le risposte possono essere tante, non ultimo il problema delle minoranze. Ci si chiede se la Turchia possa essere un Paese europeo e quindi se sia plausibile annetterla nel novero degli aderenti all’Unione Europea.

Potremmo analizzare la questione su tre livelli differenti: etnografico, storico e politico. Facciamo prima una breve premessa. Noi europei vogliamo costruire un nuovo soggetto storico e giuridico. Tale soggetto è la costruzione, entro tempi che saranno forse molto lunghi, di una Grande Patria comune europea, che non annullerà le identità  precedenti, ma che dovrà anzi esaltarle e sintetizzarle. Nella storia non esiste nessun cammino necessariamente e determinatamente segnato. Sono gli europei che hanno scelto di unirsi e di percorrere un cammino comune, non perché sia stato stabilito da qualche parte. L’Europa unita è frutto di una scelta condivisa, i suoi confini saranno cambiati in continuazione e nuove nazioni entreranno a far parte di questa grande casa.

Ora, esaminiamo la questione secondo i tre livelli:

 

·       Livello etnografico: i confini tradizionali dell’Europa oscillano tra il Caucaso, come diceva Erodoto, e il Bosforo, come la tradizione antica e medievale indicava. Erano i confini di una delle tre parti del mondo, dette continenti, in cui i Greci e i Romani distinguevano l’ecumene, cioè l’insieme delle terre emerse e abitate. Questa era una visione culturale e convenzionale, non obiettiva. Altre culture, invece, come l’araba e la cinese, consideravano l’ecumene distinto non in continenti, ma in fasce climatiche. È evidente che gli europei stanno costruendo un processo di unificazione non per confermare antiche teorie, ma per rendere reale, come è stato già detto, una loro volontà. Ed è ancora più evidente che fino al XIV secolo, un popolo uralo-altaico, i Turchi appunto, si sono insediati a sud-est del continente europeo, dai Balcani alla regione che gli antichi chiamavano Tracia, costituendo la cosiddetta Turchia europea. D’altra parte, in Europa sono presenti popolazioni uralo-altaiche affini ai Turchi: i Finlandesi e gli Ungheresi.

·       Livello storico: la nostra Europa si riconosceva, fino a pochi mesi fa, nei confini tradizionali determinati storicamente dall’espansione medievale della Chiesa latina – grosso modo i confini della cristianità europea cattolica e riformata e del vecchio Sacro Romano Impero. Ma l’estensione dell’Europa dei venticinque ha definitivamente superato questi confini, obbligandoci a ridefinire la nostra coscienza identitaria: oggi l’Europa ha due polmoni. Uno è occidentale, di radice religiosa catto-protestante ed etnica latino-celto-germanica; l’altro polmone è orientale, cioè di radice ortodossa e greco-illirico-slava, con in più una non trascurabile componente musulmana (già balcanica prima che turca: a parte l’Islam europeo dei convertiti e dei neocittadini). Inoltre, la Turchia ha avuto nella sua storia molti rapporti con l’Europa, rapporti fatti di guerre e d’inimicizie. Le guerre, però, non sono mai state estranee al continente europeo. Se dovessimo ricordare tutte le guerre che hanno devastato il continente europeo, guerre fatte dagli stessi europei, tanto varrebbe non provarci. Per secoli inglesi e francesi, spagnoli e inglesi, francesi e spagnoli, tedeschi e francesi, si sono odiati e combattuti. Quanto alla Turchia, per circa quattro secoli (dal XV al XVIII) essa si è opposta non tanto all’Europa, quanto al Sacro Romano Impero nei Balcani, a Venezia nell’Adriatico e nell’Egeo, alla Spagna nel Mediterraneo. È naturale che, in tempi nei quali il processo di laicizzazione era già avviato ma non così perentorio come in seguito, questi episodi militari assumessero una forte connotazione religiosa. Tuttavia non divennero mai guerre di religione alla stregua di quelle combattute tra cattolici e ugonotti nella Francia del Cinquecento e fra cattolici e protestanti nell’Europa della guerra dei Trent’anni. L’Europa cristiana non combatteva la Turchia per convertirla, né viceversa. E, del resto, la cristianissima Francia e Inghilterra furono costantemente alleate del Sultano contro Spagna e Impero. D’altronde, l’Impero turco-ottomano aveva per l’Europa un forte interesse culturale che fece cominciare fra Balcani e Anatolia, e soprattutto a İstanbul, un processo di europeizzazione che si tradusse in un forte afflusso di tecnici, di diplomatici, di capitali. Anche sotto il profilo giuridico l’Impero guardava all’Europa. «Il più grande sultano del Cinquecento, quel Solimano che conosciamo come “il Magnifico”, è conosciuto nei paesi musulmani come al Kanuni, cioè il restauratore di Kanun. Che altro non è se non la legge imperiale giustinianea, se pur con gli adattamenti musulmani del caso»[32]. È da queste radici profonde che ha preso avvio la riforma di Atatürk, che ha tolto l’Islam dalla vita pubblica e istituzionale turca. Quanto è stato detto, è sufficiente a permetterci di concludere che «le preclusioni nei confronti dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea fondata su ragioni contrabbandate come storico-religiose o storico-culturali, sono inconsistenti, ridicole e inammissibili»[33].

·       Livello politico: Esso si deve considerare a due livelli – i diritti umani e i rapporti della Turchia con potenze extraeuropee. Non si tratta di problemi insolvibili, certo ci vorrà del tempo per arrivare ad una soluzione. I diritti umani riguardano problemi delicati connessi con la legislazione penale e la prassi poliziesca e carceraria, ma anche il trattamento delle minoranze etniche e specialmente la questione curda. Esiste poi il problema relativo ai rapporti diplomatici, economici e finanziari con gli Stati Uniti d’America. Essi sono, allo stato attuale delle cose, tanto stretti da far capire molto bene che le insistenze dell’attuale governo statunitense affinché l’ingresso della Turchia nell’Unione sia facilitato e accelerato il più possibile sono motivate da una volontà di stringere al massimo il controllo statunitense sull’Unione. Ovviamente gli USA non vedono di buon occhio la crescita politica dell’Unione Europea da essi davvero indipendente e cercano di ostacolarla. Come del resto non possono essere contenti di un’Europa che possa in futuro condurre una sua politica estera e pensare alla propria difesa autonomamente, senza dover ricorrere al loro aiuto. Quindi gli europei devono premunirsi affinché la Turchia non diventi un cavallo di Troia di Washington all’interno dell’unione. Precauzioni che nascono già compromesse o sono addirittura velleitarie. In termini di autonomia la vita dell’Unione è già compromessa sul nascere. Vediamo il Progetto per la Costituzione europea adottato per consenso dalla Convenzione europea il 13 giugno e il 10 luglio 2003 e trasmesso al Presidente del Consiglio europeo a Roma il 18 successivo. L’edizione italiana è curata a Lussemburgo nello stesso 2003. Se andiamo alla Parte I, Titolo V (Esercizio delle competenze dell’Unione), Capo II (Disposizioni particolari), Articolo 40 (Disposizioni particolari relative all’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune), Comma 2, pagina 38, ci rendiamo conto che la politica di difesa comune dell’Unione è collegata e subordinata ai rapporti con la NATO, cioè con un’organizzazione politico-militare in parte extraeuropea e gli Alti Comandi della quale sono gestiti da una potenza extraeuropea. L’Articolo 40 rischia così di essere una vera e propria Dichiarazione di Dipendenza. C’è molto lavoro da fare prima di veder nascere un’autentica Patria Comune.

 

È necessario, però, che questo lavoro sia fatto da tutte le parti in causa. La Turchia si deve sforzare in tutti i modi di far rispettare nel suo territorio i diritti umani, quelli delle minoranze e quelli delle donne che, se la Costituzione li garantisce, tuttavia non sono rispettati ovunque. Per esempio, dal 2001 le donne non hanno più bisogno di chiedere il consenso del loro coniuge per poter lavorare, ma non tutte le donne hanno la possibilità di esercitare questo diritto. La scuola è obbligatoria dal 1994, però c’è il problema delle zone rurali. Qui la maggior parte delle donne sono analfabete, precisamente il 62% delle donne non è mai andato a scuola o l’ha dovuta abbandonare molto presto. In queste regioni remote il messaggio turco non riesce a passare e non è compresa l’importanza dell’istruzione. Le leggi ci sono, ma gli atteggiamenti non cambiano facilmente. Bisogna dire che da un pezzo in Turchia è caduto il muro del silenzio, quello che occultava la condizione reale della donna, la violazione dei suoi diritti. I mass media pubblicano in continuazione storie di donne violentate, percosse, umiliate. Le donne turche, sempre più parte della vita urbana attiva e sempre più coscienti dei loro diritti, lottano.

È proprio questa realtà a rendere priva di senso la questione se la Turchia sia degna o meno  di entrare in Europa: questo stesso obiettivo e la lotta delle donne turche per i loro diritti è la migliore risposta alla più inutile delle domande. Questo gioco dell’esclusione, del dentro e del fuori dall’Europa, «contribuisce soltanto a rallentare l’emancipazione delle donne turche»[34].   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

[1] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 153.

[2] M. S. İMECE (a cura di), Atatürk’ün şapka devriminde Kastamonu ve İnebolu seyahatleri (1925), Ankara, 1959, in SARAÇGİL Ayşe, op. cit., p. 174.

[3] M. S. İMECE (a cura di), Atatürk’ün…, cit., in SARAÇGİL,op.cit., p. 174.

[4] Ricordiamo che in Italia la patria potestà è stata abolita nel 1975 con il Nuovo Diritto di Famiglia. In caso di disaccordo tra i genitori su questioni riguardanti i figli minori, viene incaricato un giudice tutelare per dirimere la questione.

[5] KANDİYOTİ Deniz, End of Empire: Islam, Nationalism and Women in Turkey, in KANDİYOTİ Deniz (a cura di), Women, Islam & the State, Macmillan Press Ltd, London, 1991, p. 41. Traduzione: «Raggiunsero il loro livello più alto di rappresentanza in parlamento».

[6] TEKELI Şirin, Women in Turkish Politics, in ABADAN UNAT Nermin, Women in Turkish Society, Leiden, 1981, p. 299.

[7] Cfr. KANDİYOTİ Deniz, End of Empire…,  cit., p. 41.

[8] Cfr. KANDİYOTİ Deniz, End of Empire…,  cit., p. 42.  

[9] KANDİYOTİ Deniz, End of Empire…, cit., p. 43. Traduzione: «Una storia separata dei movimenti delle donne deve ancora essere scritta».

[10] AKKENT Meral, Foreward. A Necessary Correction, in TEKELI Şirin (a cura di), Women in modern Turkish Society, Zed Books ltd, London  and new Jersey, 1995. Traduzione: «Impossibile per una donna turca definire se stessa in un modo che non corrisponda a uno stereotipo».

[11] Cfr. AKKENT Meral, Foreward. A Necessary...,  cit., p. VII.  

[12] ACAR Feride, Women and Islam in Turkey, in TEKELI Şirin, Women in Modern...,  cit., p. 53.

[13] ACAR Feride, Women and Islam in Turkey, in TEKELI Şirin, Women in Turkey...,  cit., pp. 61-62.

[14] Cfr. SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p.122.

[15] ECEVIT Yıldız F., The Status and Changing Forms of Women’s Labour in the Urban Economy, in TEKELI Şirin, Women in Modern..., cit., p. 81. 

[16] BOURDIEU Pierre, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 106.

[17] BOURDIEU Pierre, Il dominio maschile, cit., p. 110.

[18] Cfr. ECEVIT Yıldız F., The Status and Changing…,   cit., pp. 82-84.

[19] BERİK Günseli, Towards an Understanding of Gender Hierarchy in Turkey: A Comparative Analysis of Carpet-Weaving Villages, in TEKELI Şirin, Women in Modern..., cit., p. 115. Traduzione: «Fare pressione sulle donne per farle lavorare per più ore per completate prima i tappeti, e le figlie sono state private della possibilità di andare a scuola».   

[20] ABADAN UNAT Nermin (a cura di), Part two – Labour force Participation, Education, Planning, Introduction, in ABADAN UNAT, Women in Turkish Society, Leiden, 1981, p. 129. Traduzione: «Si confronta con seri ostacoli».

[21] ÖNCÜ Ayşe, Turkish Women in the profession: Why so many?, in ABADAN UNAT Nermin (a cura di), Women..., cit., p. 181.

[22] Idem, p. 181.

[23] BOURDIEU Pierre, Il dominio maschile, cit., p. 70.

[24] BRITT ENGELBREKTSSON Ulla, Women left behind: a case study of some effects of turkish emigration, in Women in Islamic societies: social attitudes and historical perspectives, London-Malmö-Curzon Press, 1983. Traduzione: «Dagli uomini e non dalle stesse donne».

[25] BRITT ENGELBRETSSON Ulla, Women left…, cit. La traduzione è: «Le esperienze degli uomini sulla posizione delle donne nelle culture occidentali hanno modificato il loro modo di vedere il ruolo delle donne?».

[26] BRITT ENGELBREKTSSON Ulla, Women left behind…, cit. Traduzione: «Gli uomini in Europa tendono a comunicare con alcuni parenti maschi rimasti a casa piuttosto che direttamente con le loro mogli. Infatti, un giovane uomo che scrive direttamente a sua moglie esprime “troppo interesse” su di lei ed è considerata una persona alquanto sospetta; quello che un uomo ha da dire a sua moglie dovrebbe essere detto attraverso il patriarca».

[27] Cfr. BRITT ENGELBREKTSSON Ulla, Women left behind…, cit.

[28] Cfr. RIZK KHOURY Dina, Slippers at the Entrance or Behind Closed doors: Domestic and Public Spaces for Mosuli Women, in ZILFI M. (a cura di), Women in the Ottoman Empire, Leiden-New York- Köln, 1997, p. 105.

[29] BOURDIEU Pierre, Il dominio maschile, cit., p. 40. 

[30] Idem, p. 41. 

[31] BØGGILD MORTENSEN Lotte, The influence of socialisation and formal education on the position of Turkish Women, in Women in Islamic societies: social attitudes and historical perspectives, London-Malmö-Curzon Press, 1983. Traduzione: «Non è capace di modificare il ruolo tradizionale attribuito alle donne dalla società».  

[32] CARDINI Franco, La Turchia in Europa?, in www.identitaeuropea.org

[33] Idem.

[34] NEGRI Alberto, È la donna il «pass» turco per la Ue – Le contraddizioni di una società arretrata e insieme moderna, in «Ilsole24ore», Domenica 27 marzo 2005 – n. 85, p. 5.