Capitolo secondo

 

 

Analisi della società turca in epoche e settori diversi:  problemi aperti

 

 

 

 

 

1.      I rituali e la costruzione di genere

 

Nell’Islam c’è un principio fondamentale che risponde ad un legame continuo, consapevole e ininterrotto del fedele con Dio. Questo legame si esprime in cinque obblighi basilari: l’ammissione della fede in Dio e nel suo profeta Muhammad, l’esecuzione di cinque preghiere quotidiane, il digiuno rituale di Ramazan, l’elargizione di elemosine e il compimento del pellegrinaggio alla Mecca (hac). Per poter compiere la maggior parte di questi doveri, il fedele deve essere sicuro di avere la purezza rituale del corpo e il pieno controllo della mente. Mentre gli uomini possono raggiungere lo stato di purezza mediante le abluzioni, le donne durante il periodo mestruale e durante il puerperio sono impure e non possono dunque adempiere a gran parte delle fondamentali prescrizioni religiose, né nominare il nome di Dio, né toccare il Corano. Questa condizione estromette periodicamente le donne dai confini morali della ümmet, la comunità dei musulmani. Quindi, a differenza di come potrebbe sembrare, cioè che le obbligazioni si applichino nello stesso modo per tutti i credenti, nella realtà il concetto di purezza si applica in modo differente nei riguardi dell’uomo e della donna, data l’impossibilità per le donne di controllare lo scorrere dei fluidi del proprio corpo. Ne consegue, per esempio, che la festa di Ramazan, da un lato mette sullo stesso piano davanti a Dio tutti i credenti, dall’altro manifesta una grossa differenziazione di genere nella vita di ogni giorno. E le donne che vogliono intraprendere il pellegrinaggio alla Mecca, si trovano ad affrontare lo stesso problema. Poiché naturalmente le donne con problemi di purezza non possono partecipare ai riti, in genere è preferibile per loro andarci quando si è in periodo di menopausa. Per quel che riguarda le preghiere quotidiane, la differenza investe anche la questione dello spazio. Le donne cercano di trovare un po’ di tempo durante la giornata per pregare nella propria casa. Purtroppo le incombenze familiari spesso non permettono loro di fare le canoniche cinque preghiere. Gli uomini, invece, in genere pregano cinque volte e preferiscono farlo in moschea, quando ciò è possibile. La preghiera del venerdì a mezzogiorno alla moschea è molto attesa, specialmente nelle moschee che si trovano nel mercato centrale.

È attraverso la preghiera che i concetti di purezza assumono il ruolo centrale nella struttura della comunità islamica, la umma, ed è attraverso la legge della purezza che il genere diventa la base di tale struttura. La preghiera marca la differenza all’interno della comunità dei fedeli in tre modi diversi:

 

·    Mentre la preghiera si può fare ovunque, la preghiera del venerdì è d’obbligo farla alla moschea. Ma è evidente, per i motivi detti sopra, che la comunità che si reca alla moschea è prevalentemente maschile. Anche le preghiere prima delle grandi feste, per esempio la Festa del Sacrificio, sono obbligatorie solo per gli uomini. Ciascuna delle Feste importanti deve essere preceduta da una purificazione totale.

·    Durante la mestruazione e durante il puerperio le donne sono escluse dalla preghiera, perché non possono compiere i riti di purificazione. Anche un uomo può essere impuro e, naturalmente, può essere escluso dalla preghiera e dal toccare il Corano, ma poiché il suo stato è volontario, la sua impurità può essere rimossa. Il corpo maschile non presenta gli stessi problemi del corpo femminile, all’interno di questa logica.

·    Mentre da un lato è perfettamente legale pregare da soli, pregare in una moschea è meglio. Le donne generalmente pregano a casa, spesso da sole. «In Turkey there are no mosques specifically for women but there is usually a place within the mosque which is reserved for women worshippers»[1], di conseguenza alcune donne entrano in moschea, ma sono poche. Quando troviamo donne in gran numero, è sempre perché la moschea è stata edificata sulla tomba di un santo, come nel caso di Haci Bayram ad Ankara o Eyup Sultan ad Istanbul. È come se le donne entrassero nella moschea sotto la protezione del santo. In ogni caso, la Turchia si differenzia da altri Paesi dove le donne non sono mai ammesse oppure hanno i propri luoghi completamente separati.

 

Nella vita di ogni giorno, comunque, è sempre la legge riguardante la purezza che permea la natura della preghiera. Attraverso tale legge, che governa le pratiche della fede, gli uomini e le donne apprendono le categorie di contaminazione che definiscono le donne come esseri che hanno bisogno di controllo. A causa della contaminazione sono proibiti i rapporti sessuali durante il periodo della mestruazione e per quaranta giorni dopo la nascita di un figlio. In un certo senso, come qualche studioso ha affermato, tutto ciò garantisce un «ordine sociale». Comunque, è importante sottolineare che il concetto di contaminazione, specialmente quello connesso alla mestruazione e al puerperio, costituisce solo un elemento nell’insieme del processo simbolico, attraverso cui il corpo si costruisce culturalmente. I concetti di contaminazione rientrano in quel processo che permette la formazione di una gerarchia di genere.

Bisogna distinguere il concetto di purificazione dal concetto di igiene: per una preghiera valida, il corpo deve essere pulito e dopo purificato. Le sostanze contaminanti sono: lo sperma, il sangue mestruale, l’urina, le lacrime e le feci. In altre parole, tutte le sostanze che attraversano il corpo dall’interno all’esterno, tranne il sudore e il latte materno. Il latte materno è escluso dalle sostanze contaminanti, perché è un liquido chiaro, come il sudore. Notiamo, però, che le lacrime rientrano nella categoria «sporca» e la spiegazione è che esse denotano mancanza di controllo, esprimono cioè un’eccessiva emotività.

Il sangue mestruale non può essere controllato: il suo flusso dall’interno all’esterno è indipendente dalla volontà, per cui i rituali per ripristinare la purezza non possono essere avviati prima che il flusso si fermi. Per l’uomo che entri in contatto con il sangue mestruale non è necessaria alcuna purificazione particolare, perché il sangue non è pericoloso per l’uomo. La differenza tra il sangue e lo sperma consiste nel fatto che l’emissione dello sperma può in genere essere controllata. Dunque, se l’uomo tramite abluzioni «potrà ristabilire l’integrità del proprio corpo e della mente, alla donna non è concessa la possibilità di controllare la sua periodica impurità, in quanto essa fa parte della sua natura»[2].

Si deve necessariamente riflettere sul fatto che il seme maschile è considerato sostanza impura, mentre il latte materno non lo è. Julie Marcus, nel suo studio antropologico appena citato (che è il primo studio teso a chiarire l’importanza dei concetti di purità e impurità nella costruzione di genere in Turchia), spiega ciò in base al fatto che la viscosità non è una caratteristica significante per le categorie di purità e impurità e il latte materno è considerato puro sulla base del suo colore: considerato o bianco o incolore, in ambedue i casi esso risulta puro. Invece il seme maschile è impuro. Il latte materno condivide con il seme la fluidità e il colore, ma, mentre il latte materno è una sostanza nutritiva, il cui impiego è limitato al rapporto madre-poppante, resta cioè nell’ambito femminile, il seme maschile è direttamente coinvolto nell’ambito sessuale. L’impurità non risiede tanto nell’atto sessuale, quanto nell’eiaculazione, avvenuta in qualsiasi modo: in un atto masturbatorio, durante il sonno, in un rapporto omosessuale o in un rapporto eterosessuale. Si evince che la fuoriuscita del seme è intimamente connessa con l’espressione di una passione fisica che porta l’uomo momentaneamente lontano da Dio, annullando così il suo totale abbandono in Lui. Il rapporto con Dio è molto importante, perciò l’uomo può e deve controllare i propri istinti sessuali quando è in relazione con Lui attraverso la pratica di purificazione, ristabilendo così l’integrità del corpo e della mente. La pratica di purificazione consiste nel far scorrere sul corpo acqua corrente o, in mancanza di essa, sabbia, terra secca o sassolini, facendo ben attenzione che l’agente purificatore non penetri dall’esterno all’interno del corpo.

 

 

 

2.      Il corpo e la sessualità

 

Per la religione musulmana il corpo non è un luogo di peccato e la sessualità non è in sé illegittima o pericolosa. L’importante è avere cura del proprio corpo: attraverso le pratiche di purificazione i musulmani partecipano alla costruzione dei loro corpi simbolici in maniera regolare e forte, sottomettendosi quotidianamente alla divinità. Nella comunità musulmana, il desiderio sessuale è riconosciuto e accettato, ma deve essere regolato, quindi necessita di controllo. Il fatto che le donne siano, per loro natura, impossibilitate a esercitare tale controllo, costituisce la  ragione più importante della loro percezione come delle potenziali minacce per l’ordine della comunità. La difesa della comunità è perciò affidata agli uomini, i quali, mantenendo sotto controllo il corpo delle donne, assicurano l’integrità morale e la purità rituale della  ümmet. La perdita di controllo sul corpo e sulla sessualità femminile rappresenta la più importante paura ancestrale della comunità musulmana: la fitne. Secondo l’ideologia tradizionale, una donna che si comporta senza modestia e pudore è capace di provocare  istinti incontrollabili negli uomini. Fitne implica disordine, caos, rivolta[3].

Il rapporto tra uomini e donne è fatto poggiare su una complementarietà di tipo biologico: gli uomini, grazie alla capacità di esercitare un controllo sul proprio corpo, sviluppano una sessualità protesa alla volontà di potere e di conquista; le donne, impossibilitate a esercitare questo controllo, esprimono la propria sessualità come desiderio di essere conquistate, dominate e soggiogate.  

Secondo Fatima Mernissi, nell’Islam, alla base delle relazioni tra i due sessi, c’è la preoccupazione di evitare la realizzazione di un’unione eterosessuale completa, che soddisfi cioè non solo i bisogni sessuali, ma anche quelli emotivi e intellettuali di entrambe le parti. Un legame di questo tipo tra l’uomo e la donna ostacolerebbe, infatti, il totale abbandono dell’uomo in Dio. La morale islamica chiede al fedele di rimanere lontano dai richiami del mondo materiale, e l’oggetto da evitare non è tanto la materia in sé, ma la sua eco interna: il desiderio che suscita, le emozioni che provoca, il coinvolgimento emotivo che crea. Il Corano elenca «donne, fanciulli, cavalli, oro, argento, greggi e seminato» come i beni materiali il cui godimento è permesso da Dio purché si riesca a stabilire una giusta misura nel desiderio e nella fruizione di questi beni. Nella cultura turco-ottomana, se possedere molte donne è considerato segno di ricchezza, potere e virilità, sono invece derisi e criticati un’eccessiva dipendenza, una manifesta passione, un coinvolgimento incontrollato nei loro confronti.

Nell’Islam la distinzione tra il bene ed il male sorge quando si considera la funzione dell’uomo all’interno della comunità. Dunque la costruzione del genere prende le mosse dai connotati sociali della separazione tra gli spazi di vita degli uomini e delle donne e dalla forte regolamentazione del rapporto tra i sessi.

La vita sessuale è circoscritta al matrimonio, al di fuori di esso il sesso è un crimine verso la comunità. Dal momento che lo stesso corpo umano è di per sé un’entità sessuale, esso deve essere coperto agli occhi degli estranei. Le donne, nascondendo agli occhi degli estranei le sinuosità del corpo e i capelli, mettono simbolicamente in evidenza il controllo esercitato dall’esterno sulla loro sessualità, altrimenti incontrollabile. La pratica di hicab, cioè di portare il velo e il copriabito, ritenuta obbligatoria nel Corano solo per le mogli del Profeta (all’inizio), si è estesa poi a tutte le donne musulmane.

L’identità sessuale è considerata in relazione alla funzione sociale svolta da un individuo e al posto da lui occupato, per età o posizione, nella gerarchia comunitaria. Da un individuo ci si aspetta un comportamento consono alla propria identità sessuale socialmente costruita. Non esistono studi sistematici su questo argomento, però Leslie P. Peirce fa una riflessione interessante riguardo alla costruzione di genere. La studiosa, analizzando i registri dei tribunali e i divieti emessi dai sultani, dimostra che nella società ottomana l’identità di genere era in continua trasformazione nel ciclo di vita di un individuo, il quale dallo status di oggetto del controllo sociale, finiva con il divenirne garante a vari livelli. Secondo Peirce, «in legal discourse, children of both sexes were usually identified as “minors”»[4]. Sia i ragazzi che le ragazze pubescenti potevano essere “carnalmente desiderabili” (müşteha) e di conseguenza il potenziale oggetto di desiderio di adulti maschi. Una sostanziale differenza tra maschile e femminile risiede nelle implicazioni della desiderabilità sessuale per la capacità di essere un individuo autonomo nella società. Tra maschile e femminile c’è tuttavia una differenza sostanziale: «For the female, to be the object of male sexual interest was not incompatibile with social maturity […]. Not so for the male, for whom the quality of being sexually desiderable was incompatibile with social maturity, and for whom the passage from pubescence to mature adulthood was more problematic»[5].

La costruzione socio-sessuale di un maschio adulto richiede che il maschio adulto sia un penetratore (desiderante) piuttosto che penetrato (desiderabile). Per un maschio adulto permettere di essere «penetrated was considered aberrant, indeed patological»[6].

 L’ingresso definitivo del figlio maschio nel mondo degli uomini è sancito dalla cerimonia di circoncisione e dalla pubertà. La cerimonia della circoncisione coincide in genere con l’età di otto-nove anni, ed è una pratica che da un lato esalta la virilità, dall’altro simbolicamente mette in atto una castrazione. Fino a questo momento il ragazzo era vissuto immerso nel mondo femminile, perché l’infanzia è un periodo in cui i bambini, maschi e femmine, vivono nell’ambito femminile, all’interno del mondo delle donne. In questo mondo tutto femminile il figlio maschio ha un posto particolare: da un lato egli è la garanzia del potere materno, dall’altro è un bersaglio inconsapevole della rabbia e della frustrazione della madre sottoposta all’indiscussa autorità maschile. Il bambino gode quindi dell’incondizionata venerazione materna verso la sua virilità e contemporaneamente soffre dei sottili meccanismi che ella mette in atto per depotenziarla. Il bambino, dunque, da un lato, per entrare nel mondo maschile, deve differenziarsi dalla madre e costruire un’identità opposta alla sua, dall’altro sviluppa una virilità modellata sul vissuto dell’autorità maschile nel mondo femminile, intriso di paura, di rabbia e di frustrazione, nonché dipendente dai sarcasmi e dalle maliziose allusioni di figure materne verso le sue capacità.

Bisogna dire però che da qualche anno si preferisce circoncidere il bambino quando ha pochi mesi; in questo modo la pratica della circoncisione diviene molto più semplice. E comunque quando il bambino ha otto-nove anni si festeggia quel rito fatto anni prima.

Un’altra circostanza che segna la separazione del ragazzo dal mondo delle donne è la sua cacciata dal bagno pubblico femminile (hamam) in seguito alla scoperta, da parte del pubblico di donne, della sua maturità sessuale. Ma il nuovo mondo maschile è troppo difficile per lui: i maschi adulti rappresentano ancora una realtà lontana, minacciosa e dura. Per ritagliarsi uno spazio nella gerarchia maschile deve dimostrare la sua forza fisica e affermare la sua virilità. Nella formazione di un’identità egemonica maschile, il gruppo dei coetanei svolge un ruolo molto importante. Quando il bambino esce dal protettivo e chiuso mondo femminile, è inserito nella rete sociale primaria, costituita dal quartiere. In base alla documentazione storica risalente al XIX secolo, un tipico mahalle (quartiere), costituisce una comunità per molti aspetti autosufficiente, chiusa e con un forte senso di identità comune e territoriale. In un quartiere gli abitanti sono reciprocamente garanti dell’onore e della rispettabilità comuni.

La cultura ottomana teme i giovani adulti scapoli, considerandoli un potenziale pericolo, perché privi di legami, di lealtà comunitaria, dunque facile preda dei propri istinti e appetiti sessuali. L’energia del giovane, non incanalata in modo positivo, diventa una minaccia per l’ordine sociale. Per una cultura urbana, che cerca di preservare l’ordine sociale, l’energia non contenuta di giovani uomini, che minaccia di esprimere se stessa in aggressione sessuale, è una potenziale minaccia. La responsabilità, il requisito principale della mascolinità, è acquisita tramite il matrimonio. Questa istituzione è la pietra miliare che segna per uomini e donne il passaggio all’età adulta, passaggio che culmina con la nascita dei figli. Con il matrimonio l’uomo diviene capo di una famiglia, di cui deve difendere l’onore. Per l’uomo, infatti, l’onore non è limitato alla reputazione personale, ma anche all’integrità della sua intera famiglia.

Per quanto riguarda la bambina, la transizione dalla fanciullezza all’età adulta si presenta con più linearità: la bambina quando raggiunge la maturità fisica e sessuale, è fatta sposare e per lei inizia così la seconda fase della vita (kadın, avrat), quella adulta. La novella sposa (gelin), è ancora considerata un individuo d’incerta identità: un’estranea, una nuova affiliata alla famiglia del marito. Con la nascita del primo figlio lei, divenuta una madre, acquisisce la sua piena identità sessuale.

I manuali della Şeriat riguardanti le regole del consenso femminile al matrimonio, ritengono sufficiente il silenzio della vergine, mentre richiedono il consenso verbale della donna che è stata già sposata in precedenza, perché ha già conosciuto l’uomo. La verginità è altamente valorizzata e tale valorizzazione è legata alla preoccupazione della purezza della discendenza patrilineare. La qualità ideale richiesta alla donna sposata è l’onore, definito come modestia e castità. Come dice «the proverb “a woman is governed, not by her husband, but by her honor” and the curse “you whose wife I fucked”. Honor for women was definied as modesty and chastity, and was tied to strict observance of rules regulating gender segregation»[7].

La necessità di preservare l’onore porta, però, a degli eccessi. In una missione in Turchia, nel luglio del 1993, Human Rights Watch si interessò della prevalenza e della frequenza di esami forzati per controllare la verginità e cercò di capire quanto il governo fosse implicato nel tollerare questa situazione. Sebbene fosse impossibile comprenderne la vera entità, tuttavia interviste con dottori, avvocati e attiviste locali per i diritti umani, rivelarono che la minaccia di tali esami segue le donne attraverso la loro vita[8]. Alla base di tutto ciò, c’è la convinzione che la verginità femminile è un legittimo interesse della famiglia, della comunità e dello Stato. In fondo è un modo per gli uomini di controllare le donne.

Perché gli uomini vogliono che le donne siano intoccate? È una questione di potere. Per molte donne in Turchia, una reputazione danneggiata, quasi sempre mette fine alla possibilità di matrimonio. Inoltre, ogni rottura fisica dell’imene, anche se è avvenuta per cause non connesse con l’attività sessuale, è considerata evidenza di verginità perduta. I medici che esaminano le donne negli uffici della polizia preparano dei rapporti in cui definiscono i segni di un imene rotto come mancanza di verginità. I rapporti medici ottenuti da Human Rights Watch indicano che qualora i dottori trovino segni di vecchie rotture nell’imene, la cui causa non può essere determinata, etichettano le donne esaminate in questo modo: “non vergine”.

Non si pone la stessa enfasi sulla verginità maschile: non è importante che l’uomo sia vergine prima del matrimonio. Ne consegue che sono applicati standard differenti per gli  uomini e per le donne e mentre un comportamento è stigmatizzato, l’altro non è neanche indagato. Le norme sociali incoraggiano le famiglie ad agire in difesa del loro onore e le norme legali spesso lo permettono. L’onore, sia dell’uomo sia della donna, risiede nel mantenimento della castità femminile.

 I controlli discriminatori forzati della verginità femminile contrastano con il diritto della donna all’integrità del proprio corpo e alla privacy, sottomettendola ad un atto invasivo e violento. Talvolta sono le famiglie a richiedere questo tipo di esami, quando la comunità sospetta che la promessa sposa non sia vergine, ed il certificato medico rappresenta una risposta inequivocabile. La visita potrebbe anche dimostrare che vecchie rotture dell’imene non sono riconducibili a rapporti sessuali, ma ad altre cause.

È data tanta importanza a tale questione che, addirittura, la legge turca riduce la pena per assassinio quando questo è commesso «against a newly born child with the purpose of protecting the dignity and reputation of the offender or of his wife, mother, daughter, grandchild, adopted daughter or sister»[9]. Quando sono implicate donne adulte, accade la medesima cosa: neanche loro sono in grado di rifiutare questi esami, perché sarebbe un’ammissione di colpevolezza. Persino i medici, spesso, anche se conoscono bene i diritti delle donne, non sono in grado di rifiutarsi quando è loro chiesto di fare questi esami. Secondo le informazioni delle associazioni per i diritti umani, solo gli sforzi di alcuni medici, che informano le donne e gli stessi medici, e che pertanto si comportano di conseguenza, rispettando la propria e l’altrui dignità, possono far ben sperare in un cambiamento.

 Per ora, la legge turca e lo Stato mantengono questa situazione. Il Codice penale turco è basato sul Codice penale italiano del 1889, che fu adottato dalla Turchia nel 1926. Il codice è stato in parte emendato e la maggior parte degli articoli è stata cambiata. Rimane il fatto che la violenza sessuale può essere riparata con il matrimonio, anche senza la volontà della ragazza, e il fatto ancora più grave è che si fanno delle differenze sostanziali. I crimini commessi contro non-vergini sono percepiti come meno gravi di quelli commessi contro vergini, in quanto il danno potenziale all’ordine della famiglia è meno grave. Fino agli anni Ottanta, per esempio, l’articolo 438 del Codice penale turco stabiliva pene ridotte per uomini accusati di stupro e sequestro di persona, se si provava che la vittima era una prostituta[10]. Alla fine del 1989, la Corte Costituzionale aveva preso una decisione in base all’articolo 438. La Corte aveva deciso che questo articolo, che riduceva dei due terzi la pena in caso di stupro contro una donna non onesta, non era in contrasto con la Costituzione che prevede la parità dei sessi, ma protegge le donne oneste. Ci fu una ribellione generale da parte dei gruppi femministi che lanciarono slogans tipo: “Siamo tutte prostitute”. Molti opinionisti si schierarono a fianco delle femministe, contro le decisioni della Corte. Alla fine, l’Assemblea Nazionale dovette abolire questo articolo[11]. Per quanto riguarda il Codice penale italiano, da cui la Turchia ha preso ispirazione, ultimamente ci sono stati dei cambiamenti. Il reato di violenza sessuale, introdotto dalla Legge n. 66 del 1996 e regolato dall’art. 609 bis e segg. del Codice penale, accorpa i preesistenti reati di violenza carnale (art. 519 c. p.) e di atti di libidine violenta (art. 512 c. p.). Pertanto, anche la nostra nuova normativa ha introdotto, pur con un notevole ritardo rispetto alla Turchia, un’importantissima modifica: la violenza sessuale non è più classificata tra i reati contro la moralità pubblica, ma tra quelli che colpiscono la libertà personale.

 Come possiamo notare, si è dovuto aspettare fino al 1996 per avere una legge che consideri le donne come persone aventi diritto all’integrità del proprio corpo, come individui detentori dei diritti stabiliti dalla nostra Costituzione.

In Turchia (ma non solo!) le donne che hanno ricevuto violenza di questo tipo sono giudicate, sezionate quasi, per il loro modo di vestire, per le loro scelte di vita. Alcuni medici e avvocati, attivisti per i diritti umani, concorrono nel ritenere che gli esami vaginali dovrebbero farsi solo nel caso di crimini, quando la donna vuole portare le prove contro il suo aggressore e inoltre devono essere ordinati da un giudice. Purtroppo, però, questi esami sono fatti anche quando non c’è la necessità: nel caso di detenzione da parte della polizia per vari motivi – politici, comuni o altro – diventa quasi la norma sottoporre le donne a questa vergogna, prima e dopo la detenzione, con la giustificazione che colei che è stata in prigione non può dire di essere stata violentata dalla polizia.

La polizia non ha «legal justification for harassing women in their homes or on the street for suspected sexual conduct»[12]. Sebbene entrambi, uomini e donne, possano ricevere trattamenti inumani mentre sono sotto la custodia della polizia, solo le donne sono soggette ad un trattamento pieno di abusi riguardante la loro condotta sessuale. Per esempio, se c’è un controllo della polizia in un albergo e sono trovati in una camera due adulti, c’è la possibilità, attraverso gli esami vaginali, se si trovano rotture dell’imene e quindi evidenza di perduta verginità, che vengano incriminati di prostituzione illegale. Tutto ciò è fatto in aperta violazione dei Principi Fondamentali. Quando accade una cosa del genere, molte donne tengono nascosto alle loro famiglie questo fatto, perché sarebbe una vergogna per l’onore della famiglia; se la famiglia poi ne viene a conoscenza, cerca di tenerlo nascosto alla comunità. In secondo luogo, le donne non possono denunciare i fatti, poiché spesso sono  le stesse autorità le responsabili dei fatti.

Le donne turche in alcuni casi sono state fermate dalla polizia perché guidavano da sole in orari notturni e costrette a subire trattamenti invasivi perché trovate in un parco sedute su una panchina con amici maschi. In questo caso si può essere accusate di prostituzione. Comunque, in Turchia, la prostituzione è legale, ma le prostitute devono essere controllate a scadenza fissa.

Oltre ai casi che riguardano le forze di polizia, sono stati rilevati altri non meno gravi. Secondo alcuni avvocati implicati nella campagna contro i controlli forzati per accertare la verginità, alcuni direttori di dormitori di stato per universitarie e per orfane, richiedono controlli della verginità quando le ragazze entrano nella struttura e dopo alcune notti passate là. Nell’estate del 1992 due studentesse di scuola superiore si suicidarono dopo che le autorità scolastiche avevano ordinato i controlli. Nello stesso anno quattro ragazze furono costrette dalle autorità scolastiche e da membri della famiglia ad andare in ospedale e subire la visita solo per il fatto di essere state ad un picnic nel bosco insieme ad alcuni ragazzi. Nel maggio del 1992 una ragazza scappò da casa dopo che il direttore della sua scuola aveva informato suo padre che avrebbe dovuto condurla a fare i controlli per la verginità. Fu trovata morta parecchi giorni dopo. Suo padre ebbe la risposta che voleva sapere, e cioè che la ragazza era vergine, dopo l’esame di verginità effettuato sul corpo della figlia già morta[13]. Dopo questi fatti orrendi, il Ministro Turkan Aykol denunciò l’abuso di questi controlli e assicurò che i responsabili sarebbero stati puniti. Fino al 1995, anno di edizione del Rapporto sui Diritti Umani, i direttori scolastici responsabili hanno solo avuto una sospensione dal lavoro. L’impegno del Governo dovrebbe essere più capillare e deciso se si vuole smantellare questa barbarie e non si può scaricare tutta la responsabilità sulle famiglie, asserendo che purtroppo sono delle norme culturali e che rientrano nella tradizione di un popolo.

 

 

 

3. La famiglia e il matrimonio

 

In questo paragrafo descriverò a grandi linee le caratteristiche su cui si basava la struttura patriarcale della società turco-ottomana prima del processo di modernizzazione.

Nella famiglia musulmana ci sono ruoli ben definiti: l’uomo assume l’onere del mantenimento e delle relazioni con il mondo esterno, la donna assume l’onere della cura e dell’organizzazione della casa. La legge islamica considera il matrimonio un semplice contratto privato tra le parti. Per contrarre un matrimonio è sufficiente la presenza di due testimoni maschi (uno di essi può essere sostituito da due donne)[14] e il versamento di una dote, accordata tra le parti, che deve rispettare la condizione economica di provenienza della donna. Una donna può accettare di sposarsi con una dote inferiore a quella dovuta, in cambio, per esempio, della garanzia che l’uomo non contragga un successivo matrimonio. Un musulmano può sposare un’ebrea o una cristiana, ma ciò non è permesso alla donna musulmana[15]. Il matrimonio, secondo la legge islamica, è un’istituzione che privilegia la sfera della riproduzione e non quella dell’amore. Ad un uomo non è richiesto di amare la propria moglie, ma di trattarla con giustizia. La famiglia musulmana ha una struttura monolitica e patriarcale e il mantenimento dei figli è esclusivo dovere dell’uomo. Essa, pur dominata dall’uomo, costituisce un sotto-universo femminile, con le proprie gerarchie e regole. Nella famiglia turca, la figura femminile, soprattutto quella di una donna anziana, esercita, se pure in modo sottile e non esplicito, una grande influenza sulla sua controparte maschile.

La patrilinearità musulmana pone l’enfasi sulla discendenza maschile, sia lineare (padre, nonno, bisnonno) sia laterale (fratelli, cugini). La struttura familiare islamica rafforza l’uomo, responsabile dell’ordinato funzionamento della ümmet, con mezzi istituzionalizzati di dominio sulla donna  e di controllo sulla sua sessualità. Se uno dei mezzi di questo dominio è fornito dalla segregazione delle donne nella vita domestica, intervengono anche altri usi, più sottili e carichi di violenza psicologica, come la poligamia e il concubinaggio delle schiave. All’interno della vita familiare è permessa all’uomo non solo la soddisfazione, ma la totale saturazione del suo desiderio. Se le sue condizioni economiche glielo permettono, è permesso all’uomo di avere fino a quattro mogli e un numero imprecisato di schiave-concubine. La Legge però regola questa istituzione: innanzitutto, né la poligamia, né l’uso delle schiave, sono incoraggiati, ma solo consentiti. Inoltre si opera una differenza tra lo status della moglie e quello della schiava: le mogli hanno diritto ad un equo numero di notti coniugali con il marito, mentre le schiave non godono di diritti propri.

Comunque, nell’İstanbul del tardo XIX secolo appena il 2% circa degli uomini sposati risultava poligamo, generalmente con due mogli e con la netta tendenza a farle vivere in sedi separate.

Anche se gli studi sulla storia demografica delle società musulmane sono ancora in una fase embrionale, alcuni dati finora emersi indicano che nel confronto con le altre aree del Medio Oriente la struttura familiare nell’area centrale dell’Impero Ottomano tendeva ad assumere dimensioni relativamente ristrette e, pertanto, si nota una netta tendenza verso famiglie di tipo nucleare. Anche se gli studiosi segnalano profonde differenze tra le famiglie passando da una regione ad un’altra, dalle città alle zone rurali, da una classe sociale all’altra, nel contesto turco-ottomano la famiglia multipla risulta essere un fenomeno riservato all’élite che, sia nelle zone rurali sia in quelle urbane, viveva in grandi case, che ospitavano più di una generazione.

Secondo i dati che risultano dall’unica ricerca socio-demografica compiuta a İstanbul riguardante la popolazione musulmana, negli anni tra il 1884-1906, le famiglie estese costituiscono il 16% del totale.

Il matrimonio è concepito come un’unione tra famiglie. La scelta della sposa è affidata alla madre del futuro marito, ma la decisione ultima spetta al patriarca. Nella famiglia elitaria ottomana estesa a tre generazioni vi è una forte gerarchia femminile, costituita in base allo status e all’età. Il gradino più basso di questa gerarchia è occupato dalle schiave-concubine. Queste sono seguite dalle mogli, la cui importanza è relativa all’ordine temporale dei loro matrimoni e al sesso della loro prole. «Di norma, in una famiglia patriarcale turca, la nuora entra molto giovane ed è subordinata non solo all’autorità dei maschi, ma anche a quella delle donne più anziane, specialmente della suocera. Diventare madre, soprattutto di un figlio maschio, costituirà la sua garanzia per la vecchiaia e la possibilità di raggiungere una posizione di potere nei confronti della successiva generazione»[16]. La dipendenza del potere domestico femminile dalla lealtà del figlio maschio, fa sì che la madre si configuri come uno dei principali ostacoli alla realizzazione di un’unione matrimoniale in grado di soddisfare adeguatamente i bisogni emotivi di una coppia di sposi. La madre, infatti, farà di tutto per assicurarsi la complicità del figlio e per impedire che egli stabilisca un rapporto di complicità all’interno della coppia coniugale. Tuttavia, anche se era considerato poco decoroso per l’uomo provare amore per una donna, nella realtà ciò avveniva, e non di rado. Inoltre, per quanto teoricamente venissero scoraggiati i sentimenti di reciproco affetto e di complicità all’interno della coppia, è innegabile che questi siano largamente esistiti, se non altro a causa delle consuetudini di vita in comune, di preoccupazioni nei confronti dei figli  e di strategie familiari in generale.

Come accennato, la società musulmana prevede una netta distinzione tra i sessi ed anche spazi di vita diversi. Mentre la moschea, il mercato e gli spazi pubblici in genere sono maschili, la casa è lo spazio riservato alle donne. Le donne possono “invadere” lo spazio maschile facendosi accompagnare da un uomo, oppure da una donna anziana e portando il velo. Il velo, invece di limitare la mobilità femminile, l’assicura. Nella società ottomana la separazione dei sessi non sembra abbia impedito la mobilità femminile. Il trasporto urbano era utilizzato sia da uomini sia da donne, ma in spazi riservati. Per le donne erano organizzati spettacoli esclusivi oppure la platea prevedeva un settore riservato al pubblico femminile.

Gli uomini, però, dovevano rispettare la casa come spazio femminile e rendere minima la loro presenza. Nello spazio domestico, le donne vivevano sotto la supervisione della madre del padrone di casa: l’autorità del padrone era così mediata dalla madre anziana.

La casa, il regno delle donne, non era però uno spazio chiuso all’esterno. Essa era il centro spaziale della vita sociale e religiosa delle donne, dove esse godevano di una vasta autonomia. Le strade all’interno del quartiere erano una diramazione ideale dello spazio domestico, e là le donne potevano circolare molto liberamente, andare a visitare amici e parenti. La vita del quartiere aveva caratteristiche particolari. In un quartiere gli estranei non erano ben visti e i giovani maschi erano incaricati di garantirne l’integrità morale. La vita del quartiere dunque da una parte concedeva maggiori libertà di mobilità alle donne, dall’altra garantiva il controllo sociale su di esse.

 

 

 

4.  La famiglia dopo il processo di modernizzazione

 

Realizzare un rapporto uomo-donna che corrispondesse alle idee dei riformatori ottomani era abbastanza difficile, poiché richiedeva una profonda rivoluzione sociale e culturale, per la quale essi stessi non erano pronti. Così si creava un circolo vizioso: la figura femminile, che per incarnare le nuove aspirazioni doveva affrancarsi dai condizionamenti delle strutture patriarcali, suscitava terrori atavici. Bisognava ridefinire l’autorità maschile e nello stesso tempo definire le contraddizioni interne a tale processo.

Gli intellettuali dell’epoca delle Riforme, pur aspirando a realizzare un matrimonio paritario, pur scegliendo direttamente partners istruite e facendosi guidare dall’amore, finirono per proporre la continuità delle relazioni tradizionali, in primo luogo del concubinaggio. La difesa dell’onore della famiglia continuò ad essere considerata il principale ruolo dell’uomo. Alle donne continuò ad essere richiesto di garantire, con il loro corpo nascosto, l’integrità sociale. La donna rimaneva sempre un essere spogliato di ogni virtù positiva, fonte dei maggiori pericoli. Namık Kemal diceva: «Se ciò che chiamate civiltà è lasciar andare le donne mezze nude per le strade e farle ballare in mezzo a tutti, sappiate che questo è contrario alla nostra moralità. Non lo vorremmo, non lo vorremmo mai».

Un nuovo modello d’identità maschile fatica a nascere, costretto com’è a confrontarsi con l’eterno altro da sé. In tutte le riflessioni e in tutte le rappresentazioni simboliche di genere il punto di vista rimane unico: quello dell’uomo che non riesce a confrontarsi con la donna. Gli uomini, in qualità di scrittori, riformatori o padri, mariti e amanti, scrutano i problemi non nella propria coscienza, non nelle proprie reazioni, ma nel loro altro, nelle donne. E le donne, fatte oggetto di riflessione o di rappresentazione, racchiudono non se stesse e la loro vita reale, bensì le paure e le aspirazioni maschili. 

Nel 1917 fu promulgata un’importante legge sulla famiglia (Hukuk-u Aile Kararnamesi). La legge era un completamento del Mecelle, il Codice civile ottomano, ed era un primo tentativo, compiuto da uno Stato musulmano, d’intervenire nella sfera privata[17].

La legge, essendo indirizzata alla realtà multinazionale e multireligiosa ottomana, conteneva ancora norme della Şeriat, ma anche tanti elementi presi dalla giurisdizione ebraica e da quella cattolica, nonché dal diritto europeo. La maggiore novità era l’obbligo di registrazione del matrimonio di fronte all’autorità amministrativa. La richiesta del matrimonio doveva avvenire un certo numero di giorni prima della cerimonia e se vi fosse stato impedimento o costrizione, il matrimonio sarebbe stato annullato. L’uomo doveva avere almeno diciotto anni e la donna diciassette. In caso contrario, serviva un permesso speciale del giudice. La legge voleva colpire la pratica dei matrimoni combinati e li sottraeva alla legge della Şeriat, delle chiese e delle altre autorità religiose.

La motivazione della legge si fondava sulla necessità d’intervenire negli affari di famiglia per garantire i diritti delle donne. La legge, infatti, pur lasciando la situazione un po’ a favore dell’uomo, introduceva dei miglioramenti per la donna: al posto del ripudio, metteva la possibilità, per entrambi, di richiedere lo scioglimento dell’unione di fronte all’autorità giudiziaria. La legge prevedeva un arbitraggio, composto da due persone, una per la donna e una per l’uomo.

Per quanto riguarda la poligamia, la legge conteneva solo la possibilità, per la donna, di richiedere al marito, nel contratto matrimoniale, di non prendere una seconda moglie. Già questa clausola fu accolta come uno scandalo dalla comunità musulmana.

Si dovette aspettare il 1926, quando Atatürk scelse il Codice civile svizzero (in vigore in Svizzera dal 1912), per far sì che la famiglia uscisse nuovamente dalla giurisdizione religiosa. Il nuovo Codice ripudiava gli strumenti di violenza fisica e sessuale detenuti dall’uomo nel vecchio tipo di famiglia. La poligamia venne abolita e si obbligò l’uomo ad accontentarsi di una sola moglie, anche perché la schiavitù era già stata in precedenza abolita. Si pose limiti d’età e si vietò il matrimonio tra parenti stretti.

In caso di divorzio, le parti dovevano aspettare trecento giorni prima di risposarsi e il Giudice poteva obbligare la parte più forte economicamente a versare un assegno alla parte più debole. All’uomo rimaneva il diritto di decidere il luogo della residenza familiare, la potestà sui figli ed, inoltre, aveva il diritto di dare o meno il permesso alla moglie d’intraprendere un’attività lavorativa. Secondo Kemal Atatürk, la famiglia è il nucleo più importante della società e la donna trova la sua più piena realizzazione nella maternità.

Nel regime repubblicano era creato e rafforzato il culto della sfera domestica: per un esponente della classe media, passare il tempo libero in casa, insieme ai membri della famiglia, senza distinzione e barriere fisiche tra l’ambiente maschile e quello femminile, era segno di modernità.

L’inclusione dell’uomo nella vita casalinga, «senza il previo superamento delle barriere mentali e psicologiche che rendevano permanente una forte distanza tra i sessi, introduceva la conflittualità uomo-donna in una sfera finora protetta»[18]. Per la donna la presenza dell’uomo costituiva un’intrusione a cui non era abituata e rendeva più debole il suo dominio domestico; per l’uomo, invece, ciò comportava molte incertezze, che andavano ad intaccare la sua identità. L’uomo moderno turco viveva con difficoltà questa situazione nella vita domestica e spesso manifestava un senso di noia e di costrizione. Questi sentimenti d’incertezza purtroppo permangono per molti anni dopo la modernizzazione ed ancora oggi si rileva una situazione indefinita, che è molto chiara dal punto di vista legislativo, ma piena di contraddizioni quando si esamina la vita reale.

Fatmagül Berktay fa un’analisi veramente particolare e reale sui ruoli all’interno della famiglia[19]. In un suo saggio, intitolando un paragrafo: Tender love – where have you gone? (Amore tenero – dove sei andato?), dimostra che persino nelle frange più progressiste il cambiamento è difficile. Il matrimonio dovrebbe consistere in una condivisione affettiva dell’uomo e della donna. Per fare ciò, ciascuno dei due deve lavorare su se stesso e deve scoprire nel proprio intimo cosa non va e impegnarsi a raggiungere un luogo ideale dove far confluire l’emotività di entrambi. Gli uomini che fanno parte della sinistra  turca non hanno compreso, secondo la Berktay, il nocciolo della questione. Spesso hanno dato delle risposte che rasentano il ridicolo: se una donna fa notare che vorrebbe più condivisione nell’ambito famigliare, qualcuno dirà che lui lava i piatti. Se una donna dice che non ha intenzione di sposarsi, allora quella è una che odia gli uomini. Se una donna vorrebbe una vita libera e indipendente, allora è un’irresponsabile. Se vuole sviluppare la propria personalità quella è una donna che pensa solo ai propri interessi. Se non si comporta sempre docilmente e in modo conciliatorio, allora è una donna fredda e senza amore.

Gli uomini di sinistra dicono: “Sì, le donne sono oppresse, ma noi socialisti non le stiamo opprimendo”, oppure “sì, noi socialisti abbiamo fatto cose del genere nel passato, ma ora non più”, o “sì, è vero che gli uomini opprimono le donne, ma io no; io faccio persino i piatti”. Sono, questi, tentativi per rifugiarsi in un’illusione che mantiene di fatto lo status quo. Si trova corrispondenza anche nelle risposte delle donne di sinistra, che sono di questo tipo: “Sì, le donne sono oppresse, ma io no”. Davanti a noi c’è una questione femminile che non può essere negata da nessuno. Esiste nella realtà ed è urgente trovare soluzioni. Per far questo, ognuno deve guardare dentro di sé e fare seria autocritica, in modo da poter costruire una speranza per il futuro.

L’oppressione delle donne, a volte, prende le forme della violenza. Molti studi sono stati fatti riguardo a questo grosso problema, ma il più delle volte il concetto di “violenza in famiglia” è stato usato nel contesto dell’abuso sui minori. Generalmente, nei motivi che scatenano la violenza, ritroviamo l’abuso di alcool, la gelosia, o altri problemi psicologici, che nemmeno l’uomo implicato in questi abusi riesce a spiegare. Şahika Yüksel ha realizzato un saggio: A Comparison of Violent and Non-violent Families[20], in cui sono state selezionate delle donne  sposate (esattamente 140 tra i 18 e i 58 anni), curate dalla clinica psichiatrica della Facoltà di Medicina dell’Università di İstanbul. Questo gruppo di 140 donne è stato successivamente diviso in 3 gruppi: il primo consiste di 80 donne con una storia di violenze ripetute e con problemi psicologici. Il secondo gruppo consiste di 30 donne che hanno chiesto aiuto per problemi psicologici  e difficoltà coniugali. Il terzo gruppo consiste di 30 donne con problemi psicologici e psicosomatici, ma senza problemi coniugali. È stato compilato un questionario completo, con parecchie domande riguardanti la loro vita prima del matrimonio; è risultato che le violenze riguardavano sempre le donne al loro primo matrimonio, escluso in tre soli casi. La percentuale delle donne il cui matrimonio era stato combinato dalle famiglie era simile in tutti i gruppi. Tutte le donne che si erano sposate senza il consenso delle famiglia, erano nel primo gruppo e metà di loro si erano sposate prima di 17 anni. Quasi tutte avevano subito violenze nella loro infanzia, così come i loro mariti. Il consumo di alcool era l’elemento più problematico e significativo per i mariti delle donne del primo gruppo. Il 41% delle donne del primo gruppo e il 44% dei loro mariti avevano un diploma di scuola superiore o anche oltre. Inoltre, tutti gli uomini disoccupati erano nel primo gruppo. In questo gruppo c’erano 5 insegnanti, 2 infermiere, una farmacista, un architetto ed un’economista. Tra i mariti c’erano 7 uomini d’affari, 3 insegnanti, 2 dottori, un avvocato ed 1 architetto.      

Se si osservano i sintomi riportati dalle donne del secondo e terzo gruppo, vediamo che sono la depressione, mal di testa, insonnia, ansia, palpitazioni, senso di disperazione. Generalmente, le donne erano convinte di avere dei problemi fisici.

Perché le donne non lasciano i loro mariti? Non c’è una risposta precisa alla domanda. Una risposta semplicistica, che è spesso data, è perché le donne sono masochiste. Però si deve notare che all’interno di questi matrimoni c’era un bel numero di figli, specialmente all’interno del primo gruppo, cosa che frena molto e costringe le donne a subire. Al contrario di quello che comunemente si pensa, e cioè che le situazioni di abuso si trovano nelle famiglie di ceto medio-basso, questo studio dimostra che dobbiamo rivedere i nostri pregiudizi.

In una cultura in cui si attribuisce leadership e dominanza agli uomini, ci si aspetta che le donne abbiano la virtù della pazienza. La violenza domestica non è solo un’ingiuria al corpo, ma è anche un modo di controllarlo, e ciò «limits a woman’s right over her own body and her life»[21].

La violenza fisica non è solo un attentato alla dignità del corpo, ma, come è stato visto, anche della mente. Un atteggiamento violento spesso è la causa di disfunzioni che riguardano persino la sfera più intima della donna. Kayır Arşalus riferisce in Women and their Sexual Problems in Turkey[22] che molte donne, rivoltesi allo specialista perché non riuscivano ad avere un bambino, nella realtà accusavano problemi di vaginismo. La cosa sorprendente è che loro erano convinte di essere la causa di tutto. Indagando a fondo, si è visto poi che molte erano le cause che concorrevano ad aggravare il problema, principalmente un atteggiamento violento, anche verbale, del partner. In alcuni casi c’era stata una violenza sessuale, in altri era stato un matrimonio combinato dalla famiglia quando c’era già amore verso un altro giovane, in altri ancora c’erano serie difficoltà, anche fisiche, del marito, coperte con un atteggiamento di aggressione verso la moglie. Nella gran parte dei casi, i problemi erano sorti dopo il matrimonio, prima del quale non si erano rivelati assolutamente. La cosa che salta veramente agli occhi è che la maggior parte di queste donne con difficoltà sessuali, dovute al vaginismo, erano donne con un alto livello di scolarizzazione.

Purtroppo, quasi sempre, le donne si erano rivolte alle strutture mediche senza che i mariti lo sapessero, cosa che rendeva estremamente ancor più difficile la soluzione del problema.

Come si è potuto vedere, è necessario intervenire a diversi livelli per cambiare realmente il modo d’intendere la famiglia, a livello politico e sociale, ma, soprattutto, bisogna interrogarsi e darsi delle risposte con ogni possibile sincerità. 

     

 

        

5.      Luoghi di culto

 

La letteratura sulle donne turche, come pure la letteratura femminista sulle donne occidentali, è abbastanza inequivocabile riguardo alle ineguaglianze di genere. Le donne turche hanno meno istruzione, prendono le decisioni meno importanti e sono educate ad essere sottomesse agli uomini. Gli uomini sono meglio istruiti, prendono la maggior parte delle decisioni importanti, occupano i posti di lavoro migliori, possono viaggiare più tranquillamente delle donne, hanno maggiore libertà sessuale: in altre parole, le donne sono costrette in una gerarchia di genere. Tuttavia, in questo quadro negativo, ci sono alcuni flash positivi. Le donne turche sono psicologicamente «independent and assertive in a way that theyr American sisters are not; that Turkish women are not emotionally dependent on men»[23].

Anche per ciò che riguarda le modalità e gli spazi di culto, si nota una netta separazione dei generi, esclusa qualche occasione particolare. C’è tutta una visione diversa all’interno dell’universo femminile sui riti religiosi, che ha pochi punti in comune con la visione maschile, se non altro perché quest’ultima ha regole precise, è standardizzata, è cioè all’interno di un perfetto modo d’intendere un mondo maschile da cui, per un motivo o per un altro, le donne sono escluse.

Com’è stato già detto, le moschee in genere sono un luogo interdetto alle donne; soltanto in qualche moschea è previsto un posto riservato a loro. Per quanto riguarda la divisione dello spazio nei luoghi di culto, c’è un’importante differenza tra l’Islam e la Cristianità. Nella moschea le donne pregano in uno spazio separato o in una galleria, che può essere indifferentemente a destra o a sinistra, o anche sopra, non c’è una regola definita. Le donne ebree nella sinagoga pregano anche loro separatamente. Il fattore discriminante non è la divisione spaziale, ma la segregazione di genere. La sinistra e la destra rivestono un significato anche per la tradizione turca: si entra nella moschea con il piede destro, si esce con quello sinistro; si comincia un’azione con la mano destra e si finisce con quella sinistra.  Se si deve entrare in un posto non pulito si usa il piede sinistro per primo e si esce col destro. Nei poemi epici turchi l’espressione “a destra e a sinistra” è simbolo d’inclusione. Nella visione cristiana probabilmente la sinistra ha un’impurità, che potrebbe rivelare una specifica gerarchia di genere. La differenza riguardo alle donne nella Cristianità e nell’Islam già si rivela fin dall’inizio. Nella versione biblica, la donna è creata dalla parte sinistra di Adamo e le sue azioni causano l’espulsione dal Paradiso Terrestre. In Spagna al serpente è dato un volto femminile; nel Corano, tuttavia, non è Eva, ma Satana che causa l’espulsione dell’uomo dal Paradiso[24]. La sinistra riveste un ruolo negativo, d’irrazionalità, mentre la destra è il giusto, il razionale. Nelle chiese cristiane il posto delle donne è stato sempre a sinistra (qualcosa è cambiato negli ultimi anni). Fino a poco tempo fa, anche se una famiglia entrava insieme in chiesa, poi, varcata la soglia, uomini e donne si dividevano: uomini a destra e donne e bambini a sinistra. In alcune cerimonie questa divisione precisa dello spazio è rimasta: nella celebrazione del matrimonio, la sposa è a sinistra, lo sposo a destra. Persino nei festeggiamenti successivi al rito è rispettata tale divisione spaziale: la sposa e la sua famiglia sono seduti a sinistra, lo sposo e la sua famiglia invece a destra. Tutto questo non può essere un caso: anche nelle lingue è rispettata questa idea: la parola sinistro (incidente), la locuzione inglese per dire “tu hai ragione” – you are right – l’espressione italiana offrire la destra, e così via. Oltre a questa divisione fisica che si verifica nei luoghi deputati al culto, anche nel modo d’intendere la religiosità si notano delle differenze.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

La visione puramente femminile mette al centro della vita la nascita, associata esclusivamente alla maternità come espressione di essere donna. In aggiunta all’idea della nascita come qualcosa di puro, cioè di non contaminante, la visione femminile sfida anche il modo tradizionale di vedere la morte. Secondo la legge canonica dell’Islam, il cadavere è qualcosa di estremamente contaminante, non puro, perciò il corpo non si può introdurre nella moschea. Il morto, perciò, è posto in casa ed avviene così l’incontro eccezionale tra i due domini, quello maschile e quello femminile, come avviene in occasione della  nascita.  In entrambe le occasioni, si usa un poema, il mevlüt, che sostanzialmente è la ripresa di un poema turco medievale, che celebra la vita di Maometto. Sia per la nascita sia per la morte se ne cantano i versi.

 Per le donne, la complessa relazione tra la nascita, la morte e la redenzione, che si trova nel poema, offre un modo di integrare le loro esistenze nell’Islam e nella serie di culti che formano una parte importante della loro esistenza di ogni giorno. Le visite, le preghiere, le letture che commemorano il morto sono abbastanza differenti dalle preghiere alla moschea per il funerale. Queste permettono alle donne di accedere ad un importante rito di passaggio e sono parte di un’intricata rete di visite reciproche, con cui sono negoziate le strutture del dominio femminile. Inoltre, i cimiteri sono spesso luoghi che le donne amano visitare, fare dei picnic, sedersi a riflettere e pregare per le anime dei morti. In passato queste attività probabilmente sono state più frequenti, anche perché la visita al cimitero era una ragione legittima per lasciare la casa. Le donne molto raramente pregano nella moschea per il morto, ma esse non sono escluse dal cimitero né dalla preparazione dei riti in casa.

Un mevlüt è generalmente tenuto alle sette del mattino e quaranta giorni dopo la morte (a volte cinquantadue), e poi ogni anno. Le famiglie più ricche lo organizzano nella moschea, con cantori professionisti; ma in questo caso il pubblico è tutto maschile. La maggioranza di questi riti si fa però in casa. Qui assume un’importanza diversa, poiché il rito è condiviso da uomini e donne. In casa i cantori sono donne, che rivisitano la vita del profeta Maometto, ma anche l’Annunciazione a Maria della nascita di Gesù, come profeta. Ogni profeta ha un’importanza fondamentale per i musulmani; inoltre può accadere che si celebri Adamo come padre dell’umanità o Eva, come madre dell’umanità e dei profeti. La figura di Eva è molto positiva nell’Islam. Fino agli anni ‘20 la sua tomba vicino a Jeddah era visitata dai pellegrini che andavano alla Mecca. Non esiste in questa concezione di Eva la connotazione negativa datale dal Cristianesimo. Nel Corano, come si è già accennato, colpevole della cacciata dal Paradiso Terrestre è Satana, non Eva.

Oltre a questo tipo di riti, per le donne è importante anche la visita ai luoghi sacri. In Turchia ci sono molti di questi luoghi dove si può pregare sulle tombe di santi che rappresentano delle figure importanti per il mondo femminile. La tomba di Susuz Dede (si potrebbe tradurre Nonno senz’acqua-assetato) a İzmir è il più importante di tali luoghi. Se il tempo è bello, «each Friday two or three hundred women made the journey out from their homes»[25], vanno sulla piccola collina dove si raccolgono tutte quante insieme, parlano, si scambiano delle opinioni, condividono i loro problemi; in ultima analisi questo “pellegrinaggio” permette loro di trascorrere una giornata in piena libertà. Questo modo di fare, però, è visto come superstizioso dalle autorità ufficiali e probabilmente anche come eretico. Ala tomba di Susuz Dede ci sono in genere due o tre uomini che offrono i loro servizi religiosi o s’incaricano di sacrificare un animale (parte del quale è offerto ai poveri). Oltre alla carne, sono distribuiti dolci, cubetti di zucchero, acqua di rose e pane. È importante che questa distribuzione riguardi tutte le donne, senza escluderne nessuna, come a diventare un corpo unico, dove nessuna si sente straniera.

Il fatto che ciò sia giudicato come pura superstizione, deriverebbe dal non inserimento in un rito ufficiale. La religione cristiana ha inserito i riti in un contesto accettabile, ufficiale. Infatti le Chiese cristiane hanno integrato i pellegrinaggi e il culto dei santi nelle strutture del controllo ecclesiastico in un modo che non è assolutamente presente nella Turchia di oggi, sebbene nel passato questi riti fossero integrati nelle istituzioni mistiche religiose[26].

L’acqua che le donne fanno scorrere sulla tomba di Susuz Dede simboleggia il fluire della vita: l’acqua che scorre, d’altra parte, ha un posto importante nella tradizione turca. «Possa tu andare e ritornare come l’acqua che scorre» è un bellissimo augurio che si usa fare quando ci si separa da una persona cara. In lingua turca è: «Su gibi tez git, tez gel».

 

 

 

6. Sovranità e potere femminile all’interno dell’Harem

 

Harem: luogo interdetto agli estranei. Struttura familiare e sociale ereditata dall’ambiente greco, bizantino e persiano, sconosciuta al mondo arabo preislamico; dal secolo VII designa per i musulmani sia il quartiere delle donne sia le donne (e i bambini) che lo abitano. Questa definizione dell’harem contrasta un po’ con l’idea che in Occidente si è avuta e si ha ancora riguardo a questa istituzione. Questa breve parola evoca sogni nella maggior parte degli occidentali, che lo immaginano come un luogo di piacere dove tutto è lecito. Nella realtà era un luogo di prigionia, con porte che le donne non erano autorizzate ad aprire. Nonostante ciò, in questa prigione avvenivano lotte per il potere da parte delle donne e lotte che perpetuavano i metodi maschili di acquisizione di potere e di comando. Quindi, dice Fatima Mernissi, come si può «sorridere evocando un sinonimo di prigione?»[27]. Per la Mernissi, harem non è solo un sinonimo di famiglia come istituzione (che lei conosce bene, dato che è nata in un harem), ma è anche ciò a cui il termine arabo si riferisce. Haram significa illecito e peccaminoso, è tutto ciò che è proibito dalle leggi religiose. Specialmente nell’arte si nota il profondo divario delle rappresentazioni dell’harem da parte di artisti orientali e occidentali. Mentre i musulmani si descrivono come insicuri nel loro harem, gli occidentali si descrivono come sicuri di sé e senza alcuna paura delle donne. Nelle miniature, così come in letteratura, i musulmani rappresentano le donne come agenti attive, mentre Matisse, Ingres e Picasso le mostrano nude e passive. I pittori musulmani immaginano le donne degli harem nell’atto di cavalcare veloci destrieri, armate di arco e frecce e vestite di abiti pesanti. Le fantasie occidentali sull’harem invece rivelano che l’uomo sogna una bellezza disponibile e statica, che sia pronta ad obbedire. Nell’harem musulmano, al contrario, vero o immaginario che sia, il confronto cerebrale con le donne è necessario in un rapporto. Nella raccolta di fiabe Le mille e una notte la protagonista riesce a sopravvivere mettendo in campo non la sua bellezza e la sua seduzione (ce n’erano tante come lei), ma la sua intelligenza e la sua capacità di fare uso della parola.      

Negli harem le donne erano vestite con tuniche e pantaloni, un abbigliamento che somigliava a quello maschile, non con veli o addirittura senza vestiti. Mentre gli artisti occidentali ancora fantasticavano sull’harem, nella realtà sociale turca avvenivano profondi cambiamenti. Il 1921 fu una data importante per il mondo musulmano, perché in quell’anno avvenne la liberazione delle donne in Turchia, come uno dei risultati della lotta di liberazione nazionalista. Negli anni Venti, mentre Matisse dipingeva le donne turche come schiave nell’harem, Kemal Atatürk promulgava leggi femministe avanzate che garantivano alle donne il diritto all’istruzione, quello di votare e di essere elette[28]. La conseguenza di queste leggi fu l’elezione di diciassette donne al Parlamento turco nel 1935. Quel Parlamento fu il primo  eletto democraticamente nella storia della Turchia, che fino ad allora era stata sotto il dominio degli Ottomani.

 Negli anni Venti, in Turchia si verificò una lotta radicale contro tre forze: dispotismo, sessismo e colonizzazione. Il movimento dei Giovani Turchi attribuiva al governo dispotico del Sultano la colpa dell’arretratezza musulmana, che aveva causato la facilità con cui gli eserciti occidentali avevano invaso quei paesi. Essi attaccavano l’istituzione dell’harem e ritenevano la reclusione delle donne il maggiore ostacolo al progresso. I Giovani Turchi bandirono gli harem nel 1909 e il Sultano dovette aprire le porte e liberare le sue ex schiave, diventate così anche loro cittadine della prima Repubblica della storia musulmana.

Le schiave, però, non potevano assolutamente essere donne musulmane, dato che ciò sarebbe entrato in contrasto con le leggi religiose, che affermavano che la donna musulmana era libera. Quindi, le schiave presenti nell’Impero ottomano, erano necessariamente non musulmane. Queste facevano parte di un bottino di guerra o erano state comprate. La maggior parte di esse erano circasse, che professavano il credo dell’Islam, e ciò creava dei problemi agli sceicchi nel trovare una giustificazione. Tutte le persone al servizio del Sultano erano schiave e potevano essere anche più di mille. Il Palazzo del Sultano consisteva di un haremlik e di un selamlık, connessi ad un mabein, una sorta di piano neutro. L’haremlik era di vasta estensione[29]. I suoi abitanti formavano una società staccata dal resto della popolazione e costituivano una Corte che viveva la sua propria vita, le sue tradizioni, maniere, costumi, etichette e possedeva persino un proprio linguaggio. Un gran numero di donne doveva vivere sotto lo stesso tetto, perciò era necessaria un’organizzazione che prevedesse tutto fin nei minimi particolari, oltre naturalmente ad un rispetto assoluto della disciplina.

A capo di questa corte femminile c’era Validé Sultana, la madre del Sultano regnante. Vicino a lei, si allineava  la madre degli eredi in  linea diretta, la prima, la seconda, la terza e la quarta; dopo di loro le madri dei figli più giovani del Sultano. Ancora dopo, venivano le Sultane, le figlie non sposate del Padishah, poi le Ikbals, o favorite, e le Guezdés, (quelle su cui il Sultano aveva “buttato l’occhio”)[30]. A ciascuna di queste donne, eccetto le Guezdés, era assegnato un daïra, cioè un’indennità in denaro, un appartamento separato ed un seguito di schiave ed eunuchi. Le principali impiegate della Corte della regina-madre erano dodici: la Signora del Tesoro, la Segretaria privata, la Guardasigilli, la Signora dei vestiti, la Signora versatrice dell’acqua, la Signora che serve il caffè, la Signora dei succhi di frutta ecc. Ciascuna di queste Signore, o Kalfas, aveva alle sue dipendenze un’assistente e sei o più giovinette che apprendevano il mestiere. Le indennità concesse alle Signore variavano in base al loro rango e alla loro posizione nella Corte.

Le Kalfas erano spesso delle schiave arrivate a corte quando erano molto giovani. Al loro arrivo era fatta una scelta: le nere, o coloro che non promettevano futura bellezza, venivano poste in posizioni inferiori. Potevano diventare cuoche, cameriere di bagno o altro. Coloro che avevano un bel portamento e che rivelavano un’eleganza innata, erano destinate alla musica, alla danza e al canto; erano così iniziate all’etichetta di corte e a saper dimostrare le loro arti e il loro charme naturale. Erano introdotte alla religione musulmana e imparavano le preghiere dell’Islam. Le schiave bambine spesso diventavano figlie adottive  delle kalfas. Nasceva un profondo affetto tra di loro che, anche se le schiave venivano trasferite per farle sposare, il legame con la madre adottiva continuava. Le kalfas erano generalmente quelle schiave che non erano state onorate delle attenzioni del Sultano ed avevano raggiunto la loro posizione raggiungendo una certa età.

La madre del Sultano godeva quindi di massimo rispetto da parte di tutta la corte. Persino le guardie del palazzo la onoravano con il present arm al suo passaggio. I poveri si buttavano in ginocchio e la pregavano d’intercedere per loro presso il figlio. Se lei aveva l’occasione di comunicare con il Gran Visir o con uno degli altri ministri, la sua lettera era direttamente presa dal ministro dalle mani dei messaggeri, tanto era il profondo rispetto per la figura di questa donna. Nell’harem la Validé Sultana aveva l’autorità assoluta e nessuna delle abitanti, fosse la prima moglie o la favorita, poteva lasciare i suoi appartamenti senza il suo permesso o mandare qualsiasi richiesta al Sultano senza il suo consenso. La Validé Sultana era aiutata nelle sue incombenze dalla Signora del Tesoro. Ella era generalmente una signora di una certa età, che aveva servito già per un po’ di anni e di cui era provata la fedeltà.

Da quel che è stato detto, viene il dubbio, non senza fondamento, che il comportamento del Sultano, e forse anche la sua politica, venissero condizionati dalle idee di una donna, la madre, che faceva passare solo le notizie deliberatamente scelte da lei. In alcuni casi, la Validé Sultana si trovò nel ruolo di Reggente e fu in queste occasioni che qualcuna dimostrò un incredibile talento ed energia, oltre ad una grandissima umanità verso la gente.

Il rapporto umano era qualcosa d’importante anche tra padrone e schiavo. La schiavitù domestica, praticata nella Turchia musulmana, non ebbe niente a che fare con la schiavitù praticata nella cristiana America. In Turchia gli schiavi erano protetti da molte leggi umane, erano trattati quasi paternamente e mangiavano gli stessi cibi dei loro padroni, non i loro avanzi. Per il servizio nell’harem, le schiave erano indispensabili, dal momento che le donne musulmane non potevano mostrarsi non velate a chi non fosse loro parente.

Tutto quello che è stato detto ci potrebbe sembrare lontano dalla nostra emancipazione di occidentali. Siamo però lontani dal poter asserire con certezza l’esistenza di una completa “uguaglianza dei sessi”. È difficile immaginare che la moglie di un ministro occidentale possa, per esempio, decidere la scelta dei collaboratori e dei sottoposti. Quelle donne, invece, forzate a vivere come recluse, riuscivano talvolta a trovare la forza interiore per essere più emotivamente indipendenti dai loro uomini, pur con tutte le difficoltà date dalla situazione claustrale.

Sembrerebbe, d’altra parte, che nell’harem vi fosse un ordine immutabile. Non è così. Tutte quelle donne erano costrette a battersi per essere le migliori, per essere le favorite del Sultano e spesso si consumavano intrighi che talvolta portavano persino alla morte. Talvolta negli harem le donne hanno ucciso i loro padroni, perché sentivano che la competizione era ingiusta. Per gelosia i Califfi furono avvelenati o soffocati dalle loro favorite. Il Califfo al Mahdi, padre di Harun ar-Rashid e fondatore della dinastia degli Abbasidi, fu una vittima illustre di questa gelosia da harem, anche se fu per sbaglio che morì avvelenato, in un bel pomeriggio del 785, ad opera di una delle sue favorite pazzamente innamorata di lui, che aveva destinato quel pasto ad una sua rivale. Un problema che poteva avere il padrone di un harem era la totale trasparenza del suo stato emotivo, perché tutte riuscivano capire subito quale fosse la favorita del momento.

 

 

 

7. Ruolo e spazio delle donne nell’ultimo periodo   dell’Impero

 

Determinare il ruolo delle donne con precisione, definire la loro capacità di essere partecipi della vita che si svolge intorno a loro influenzandone il divenire, è cosa oltremodo ardua. Le fonti a cui possiamo fare riferimento sono le leggi, i registri dei palazzi dei sultani, i racconti di viaggio di occidentali. Sono fonti comunque di genere maschile, se così possiamo dire.

La Storia si riferisce sempre agli uomini ed è fatta dagli uomini; le guerre sono fatte dagli uomini e nei romanzi d’avventura i protagonisti sono uomini. L’accesso al potere è maschile. «In a male-dominated society, women have left few records»[31].

Nessuno può negare la verità di quest’affermazione. Le donne che si sono ritagliate un posto importante nella società, ricoprendo un ruolo attivo, spesso hanno ricevuto la piena ostilità non tanto dagli uomini, quanto dalle altre donne, che hanno scelto di vivere una vita tranquilla e in pace, rispettando l’ordine sociale.

Eppure, un attento lavoro da parte di alcuni studiosi, ci apre un mondo, quello ottomano, pieno di sorprese. Le ricerche vogliono chiarire se le donne ottenevano veramente la possibilità di ereditare dai loro familiari, come d’altra parte è stabilito nel Corano, oppure se tutto ciò rimaneva disatteso nei fatti. Si è visto che alcune donne hanno ereditato delle fattorie, dei giardini e delle case. Questo per quanto riguarda la campagna, e non è una cosa trascurabile, in una nazione dove l’agricoltura è stato ed è tuttora il settore più importante.

Nelle città c’erano donne che avevano la possibilità di guadagnare del denaro. Alcune svolgevano attività come filatrici, tessitrici e ricamatrici. Esse stesse poi vendevano i prodotti del loro lavoro in speciali mercati delle donne. Altre ancora lavoravano come assistenti negli Hamam. Allorquando la documentazione storica lo permette, queste donne sono ricadute sotto l’attenzione degli studiosi. L’Impero ottomano è stato un mondo a sé, ricco di eventi, incrocio di razze, di lingue e di religioni, per cui lo studio della sua storia è ben lontano dall’essere completato.

Talvolta si sono trovate delle donne detentrici del potere di raccogliere le tasse e specialmente donne amministratrici di fondazioni pie (questo in gran numero). Oltretutto, sembra che alcune fondazioni (waqif) siano state istituite da donne a favore dei poveri e di istituti religiosi. L’analisi dei documenti presenti nelle Corti ha indicato che le donne hanno giocato un ruolo attivo nell’economia ottomana, specialmente nella sfera delle transazioni della proprietà. I documenti che riportano i casi di eredità descrivono le donne come mogli, figlie e madri, ed è specificato che posseggono diversi beni, che includono case e altre proprietà. Le donne sicuramente avevano dei diritti, li conoscevano, li esercitavano e ne beneficiavano. La possibilità di avere delle proprietà da parte delle donne è stabilita, come si è già detto, dal Corano. Storicamente, sembra che le donne abbiano avuto più potere e generalmente un più alto status nelle società in cui il potere era allocato nell’unità familiare, piuttosto che in meccanismi più centralizzati e burocratizzati. Ciò appare non solo negli studi delle società islamiche, ma anche nelle società europee. Nelle unità familiari più grandi, lo spazio poteva essere diviso facilmente e le donne avevano più possibilità di allacciare alleanze e di costituire reti con altre donne. Invece, per le donne delle classi più basse, ciò non era possibile, perché nelle unità familiari le donne condividevano lo spazio con le altre famiglie e spesso in una stanza viveva un’intera famiglia. Questo in genere era il caso delle famiglie di tipo rurale.

Generalmente, le donne che possedevano case, le avevano ereditate dai loro sposi o dai loro parenti. Non mancano i casi, però, in cui le donne avevano comprato la casa da altre donne, anche se questi casi non sono in numero rilevante. Nelle unità familiari dei Mamelucchi, le donne erano in grado di ottenere un alto grado d’autonomia economica attraverso la loro capacità di possedere e controllare la proprietà. Uno dei vantaggi maggiori per le donne era che all’interno dell’unità familiare non c’era demarcazione tra spazio pubblico e privato. Sebbene la casa fosse uno spazio che separava i generi, sia la vita domestica sia i pubblici affari erano condotti sotto lo stesso tetto ed entro lo stesso spazio fisico.

Qualcosa di poco conosciuto è ancora il ruolo giocato da alcune donne, cristiane e musulmane, che sono state capaci di tenere unita la loro famiglia e di non far disperdere il patrimonio alla morte del capo famiglia o alla sua incarcerazione avvenuta per essere decaduto dalle grazie del Sultano. Gli studi sui sistemi politici pre-moderni nel campo del potere femminile vanno di pari passo con quelli concernenti la nascita dell’Europa moderna. Finché negli Stati tedeschi del diciassettesimo secolo l’unità familiare era considerata un’unità politica, non un gruppo d’individui privati, è stato possibile per le vedove guadagnare accesso al potere. Ma quando le leggi di Napoleone cambiarono i limiti del regno privato, le donne furono completamente rimosse dalla sfera pubblica[32]. Le implicazioni di queste leggi reali ebbero ripercussioni anche sull’Impero ottomano. Nel suo lavoro sulle donne egiziane del diciannovesimo secolo, Judith Tucker ha puntato la sua attenzione nell’ambito della medicina. Le praticanti donne di questa professione furono degradate ad infermiere o ad aiutanti dei dottori maschi, poiché si riteneva che le donne fossero incapaci di svolgere un lavoro altamente qualificato.

 

 

 

 

 

 

 


 

[1] MARCUS Julie, A World of Difference. Islam and Gender Hierarchy in Turkey, London-New York, 1992, p. 69. Traduzione : «In Turchia non ci sono moschee specifiche per le donne, ma in genere c’è un posto all’interno della moschea che è riservato alle donne che pregano».

[2] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte. Strutture patriarcali nell’Impero ottomano e nella Turchia moderna, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 17.

[3] Fatima MERNISSI è stata la prima studiosa ad enfatizzare il concetto di fitne nella gerarchia di genere nelle società musulmane. Cfr. i suoi Beyond the Veil. Male-Female Dynamics in Modern Muslim Society, London, 1985 e, sotto lo pseudonimo di F. A. SABBAH, Women in the Muslim Unconscious, New York, 1984.

[4] PIERCE L. P., Seniority, Sexuality and Social Order: the Vocabulary of Gender in Early Modern Ottoman Society, in ZILFI M. (a cura di), Women in the Ottoman Empire, Leiden-New York-Köln 1997, p.172. Traduzione: «Per ciò che riguarda il linguaggio legale, i bambini di ambedue i sessi erano in genere identificati come “minori”». 

[5] PIERCE L. P., Seniority, Sexuality and Social Order, cit., p. 174. Traduzione: «Per la ragazza, essere l’oggetto dell’interesse sessuale maschile non era incompatibile con la maturità sociale […]. Non così per il ragazzo, per cui la qualità di essere sessualmente desiderabile era incompatibile con la maturità sociale, e per cui il passaggio dalla pubescenza all’età adulta era più problematica».

[6] Idem, p. 174. Traduzione: «Penetrato era considerato aberrante, anzi patologico». 

[7] PEIRCE L. P., Seniority, Sexuality and Social Order, cit., p.184. Traduzione : «Il proverbio “una donna è governata non da suo marito, ma dal suo onore” e la bestemmia “ tu sei uno a cui ho fottuto la moglie”. L’onore per le donne era definito come modestia e castità, ed era legato alla stretta osservanza delle regole per la segregazione di genere».

[8] Cfr. THE UMAN RIGHTS WATCH GLOBAL REPORT ON WOMEN’S HUMAN RIGHTS, Reprodution, Sexuality and Human Rights Violations, New York, 1995.

[9] Cfr. la nota n. 29 di THE HUMAN RIGHTS…, cit. Traduzione: «Contro un neonato con l’intenzione di proteggere la dignità e la reputazione del colpevole o di sua moglie, madre, figlia, nipote, figlia adottiva o sorella». (Codice penale turco, articolo 475).

[10] Cfr. la nota 40 di THE HUMAN RIGHTS…, cit. Traduzione: «L’Articolo 438 fu messo in discussione nella Corte Costituzionale della Turchia come un articolo che violava la Costituzione, ma la Corte respinse la richiesta sulla base che le donne disoneste, come le prostitute, non dovrebbero essere trattate come le donne oneste. Dopo un bel dibattito pubblico, il Parlamento turco abrogò l’articolo».

[11] TEKELI Şirin, Introduction: Women in Turkey in the 1980s, in TEKELI Şirin (a cura di), Women in modern turkish Society, Zed Books Ltd, London and New Jersey, 1995.

[12] THE HUMAN RIGHTS WATCH…, cit. Traduzione: «una giustificazione legale per molestare le donne nelle loro case o per strada per sospetta condotta sessuale».

[13] Cfr. THE HUMAN RIGHTS…, cit. pp. 437-438.

[14]Il Corano, Sura II, 282: «Chiamate a testimoni due dei vostri uomini o, in mancanza di due uomini, un uomo e due donne, tra coloro di cui accettate la testimonianza in maniera che, se una sbagliasse, l’altra possa rammentarle». Citiamo da PICCARDO Hamza Roberto (a cura di), Il Corano, Newton & Compton Editori, Roma, 1996.

[15] Idem, Sura V, 5: «Oggi vi sono permesse le cose buone e vi è lecito anche il cibo di coloro ai quali è stata data la Scrittura, e il vostro cibo è lecito a loro. Vi sono inoltre lecite le donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu data la Scrittura prima di voi, versando il dono nuziale –  sposandole, non come debosciati libertini!».

[16] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte. Strutture patriarcali nell’Impero ottomano e nella Turchia moderna, Bruno Mondadori, Milano, 2001, pag.38.

[17] La legge comparve nella Gazzetta Ufficiale ottomana e, tradotta in francese, fu pubblicata a İstanbul. Al momento dell’approvazione di questa legge, lo Stato ottomano era già in crisi; la legge sulla famiglia incontrò la feroce opposizione delle autorità religiose in tutte le comunità e, dopo essere rimasta in vigore per solo due anni, con gli interventi della Gran Bretagna e della Grecia, che occupavano İstanbul, fu abrogata nel 1919. Così l’istituzione matrimoniale turca rientrò nella giurisdizione musulmana e fu regolata, fino al 1926, dai dettami religiosi.

[18] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 186.

[19] Cfr. BERKTAY Fatmagül, Has Anything Changed in the Outlook of the Turkish Left on Women? In TEKELI Şirin, Women in modern turkish Society, Zed Books Ltd, London and New Jersey, 1995.

[20] YÜKSEL Şahika, A Comparation of Violent and Non-violent Families, in  TEKELI Şirin, op. cit., pp. 275-287.

[21] YÜKSEL Şahika, op. cit., Traduzione: «limita il diritto della donna sul proprio corpo e la propria vita».

[22] KAYIR Arşalus, Women and their Sexual Problems in Turkey, in TEKELİ Şirin, op. cit., pp. 288-305.

[23] MARCUS Julie, A World of Difference,  cit., p. 121. Traduzione: «Indipendenti e aggressive in un modo che le loro sorelle americane non sono; che le donne turche non sono emotivamente dipendenti dagli uomini».

[24] MARCUS Julie, A World of Difference, cit., p. 79.

[25] MARCUS Julie, A World of Difference,  cit., p. 131. Traduzione: «Ogni venerdì due o trecento donne escono dalle loro case per fare un viaggio».

[26] Cfr. MARCUS Julie, A World of Difference. cit., p. 159.

[27] MERNISSI Fatima, Harem e Occidente, Giunti ed., Firenze, 2000, p. 7.

[28] MERNISSI Fatima, Harem e Occidente, cit., p. 92.

[29] Cfr. GARNETT Lucy M. J., Women of Turkey and their folk-lore, David Nutt, London, 1957-1959.

[30] Idem, p. 386.

[31] ZILFI Madeleine C., Women in the Ottoman Empire, cit., p. 10.

[32] ZILFI Madeleine C., Women in the Ottoman Empire,  cit., p. 9.