Capitolo quarto
Problemi di genere nella letteratura turca
1. Uno sguardo alla ricchezza letteraria del mondo arabo
La civiltà islamica ha avuto un’evoluzione molto complessa; la sua componente originaria è stata integrata da altre due culture: quella persiana e quella turca. Se pensiamo alla sproporzione numerica tra i pochi arabi dei primi decenni e le popolazioni sottomesse da loro, ci rendiamo conto che era impossibile una fusione delle due civiltà. L’Islam conosciuto maggiormente e più a lungo dall’Europa è stato l’Islam ottomano che, dopo un periodo di splendore, si avviò lentamente verso un lungo declino. È difficile stabilire con esattezza la fine del periodo di decadenza, anche se si fa risalire alla seconda metà del XIX secolo, dopo la penetrazione europea. La rinascita ebbe manifestazioni differenti nelle diverse regioni: in Egitto cominciò con una rinascita economica e sociale, nella regione siro-libanese con una rinascita linguistica e culturale (già prima della spedizione napoleonica in Egitto dal 1798 al 1801 per merito delle comunità cristiane). Quindi, quando si parla della nahḍa, ci si riferisce a un movimento di rinascita sociale, politica e letteraria sviluppatosi con un processo lento e graduale.
In Egitto il processo di rinnovamento è stato avviato dal governo; in Siria e Libano è stato determinante il contributo della comunità cristiana. Tuttavia, in ogni Paese ci sono stati degli uomini che sono stati fondamentali nel determinare una svolta, perciò sono stati definiti come pionieri. Tre di questi, Rifā‘ah Rāfi‘ al-Tahtāwī[1] in Egitto, e Nāsīf al-Yāziğī e Butrus al-Bustāni nella regione siro-libanese si interessarono della questione della donna e contribuirono non poco a risvegliare le coscienze riguardo alle profonde differenze di genere esistenti. Al-Tahtāwī partì per la Francia (nel 1826) per accompagnare alcuni giovani mandati a studiare tecniche militari. Trascorse a Parigi cinque anni, di cui ci dà testimonianza in un libro autobiografico. Qui, oltre a considerazioni personali, l’autore offre un quadro interessante della vita francese dell’epoca; interessante soprattutto la percezione dell’autore riguardo ai fatti con cui era a contatto.
Sono peraltro divertenti i suoi commenti sulle donne francesi: «che sono estremamente belle e gentili, di buona compagnia, sempre ben preparate, si mischiano agli uomini nei luoghi pubblici e capita anche che in questo modo, soprattutto la domenica, facciano la loro conoscenza. E così si comportano anche le donne oneste»[2]. Come Butrus al-Bustānī, egli sostenne la necessità di aprire alle donne l’accesso all’istruzione, idea a dir poco rivoluzionaria ai suoi tempi. In questo anticipò di decenni la battaglia di Qāsim Amīn (1865-1908) in Egitto, o al-Tāhir al-Haddād (1899-1935) in Tunisia. Egli incitava a dare un’istruzione alle ragazze, così come si dà ai ragazzi, per farle diventare delle buone compagne per i loro mariti. Esse possono diventare, in questo modo, più intelligenti ed essere capaci, in caso di necessità, di dedicarsi ai lavori e alle occupazioni dell’uomo. Al-Tahtāwī prese anche posizione contro la poligamia che, secondo lui, poteva essere consentita solo nel pieno rispetto della legge islamica, garantendo piena giustizia alle mogli. Cosa, questa, di difficile realizzazione, per cui lui arrivò a dire che non avrebbe preso nessun’altra moglie o concubina. In seguito a queste dichiarazioni, fu costretto ad un lungo silenzio fino a quando, ormai settantenne, con l’aiuto del khedivé Ismā‘īl, «riprese la sua battaglia, inaugurando nel 1872 la prima scuola per donne»[3].
Bisogna comunque riconoscere ad al-Bustānī il merito di aver parlato per primo del diritto della donna all’istruzione nel 1849, quando tenne una serie di conferenze di carattere sociale. Questi temi sono affrontati da tanti altri intellettuali, ma se parliamo di liberazione della donna, allora dobbiamo parlare di Qāsim Amīn. Egli studiò giurisprudenza in Francia e, a contatto con la società francese, si rese conto della condizione d’inferiorità in cui viveva la donna araba rispetto alla donna occidentale.
Al suo ritorno in Egitto pubblicò il famoso libro La liberazione della donna, in cui invitava, tra le altre cose, la donna araba a togliersi il velo, cosa che le avrebbe permesso di prendere parte attiva alla vita del Paese. Questo libro produsse uno scandalo, specialmente tra i tradizionalisti, ma provocò accesi dibattiti, gettando così le basi del movimento d’emancipazione femminile. Inoltre, Qāsim Amīn rivendicava il diritto della donna a lavorare e perciò riteneva il velo un grave impedimento. Il velo era diventato uno strumento d’imposizione e questa mancanza di libertà della donna ostacolava il progresso della nazione araba. Non possiamo fare a meno di riportare le parole di questo pioniere: «Perché il musulmano pensa che le sue abitudini non dovrebbero essere né cambiate, né modificate, ma conservate come sono fino all’eternità?»[4].
Anche per le sue idee sulla poligamia questo autore andò incontro a severe opposizioni. Egli riteneva che i giuristi musulmani avessero trasformato l’istituzione del matrimonio in un sotterfugio legale per placare una passione fisica, consentendo indiscriminatamente agli uomini il ripudio, mentre lo stesso Corano poneva dei limiti a tale pratica. Contemporaneamente, però, lo scrittore metteva in guardia dall’emulare troppo gli occidentali che, secondo lui, avevano esagerato in senso inverso, liberalizzando troppo i costumi della donna. Come possiamo notare, il corpo della donna è sempre terreno di disputa.
Amīn era convinto che l’uomo avesse esagerato nel relegare la donna nell’esclusivo ambito della famiglia e nell’obbligarla a velarsi, impedendole l’istruzione e scegliendo per sé la libertà e per lei la sottomissione o la schiavitù; per sé la scienza, per lei l’ignoranza; per sé la ragione, per lei la stupidità; per sé la luce e lo spazio, per lei il buio e la prigione.
Molti furono gli oppositori a queste tesi, fra cui Tal‘at Harb che, nonostante fosse considerato progressista nel campo economico, era nel campo sociale estremamente conservatore e tradizionalista. Questi era apertamente contrario all’abolizione del velo ed a considerare la donna pari all’uomo, perché, secondo lui, considerare la donna sullo stesso piano dell’uomo voleva dire «andare contro natura e soprattutto contro le leggi di Dio, così come si evince anche dalle altre religioni rivelate, l’Ebraismo e il Cristianesimo»[5]. Riconosceva una certa importanza delle donne nella famiglia, ma incitava a non accordare mai troppa libertà alle donne, poiché esse ne abusano.
Oltre ai detrattori, ci furono anche i sostenitori di Qāsim Amīn: uno dei principali fu Muhammad Husayn Haykal, che affermava la necessità che la donna si liberasse dai vincoli della tradizione, ma che il processo avrebbe dovuto essere lento, non imposto attraverso leggi violente e improvvise.
La donna che, al pari di Qāsim Amīn, gettò le basi del movimento per l’emancipazione femminile, fu la scrittrice Bāhitat al-Bādiyah. Ma il suo impegno fu circoscritto all’educazione delle ragazze, a cui si dedicò sia insegnando sia scrivendo diversi articoli, raccolti in seguito nel suo unico libro dal titolo al-Nisā’iyyāt (Le donne), del 1911. Questa scrittrice aveva adottato uno pseudonimo (il suo vero nome era Malak Hifnī Nāsif) quando, appena sposata, era stata condotta dal marito a vivere ai margini del deserto e lì scoprì di essere la seconda moglie, perché il marito era già sposato con un’altra donna. La sua battaglia più importante fu contro la poligamia che, secondo lei, anche se permessa dalla legge islamica, nella realtà rappresentava un’ingiustizia nei confronti della prima moglie; inoltre affermava che soltanto il pronunciare la parola seconda moglie era una cosa terribile, era una parola nemica mortale delle donne e che ciò aveva spezzato tanti cuori e distrutto tante famiglie.
Riguardo al velo, invece, entrò in polemica con Qāsim Amīn, sostenendo che gli uomini di lettere non avessero il diritto di dire alle donne come dovevano vestirsi. Ella scrive così: «Sulla complessa questione del velo, da anni si svolge una violenta guerra di penna, di nessuna utilità, in cui non hanno vinto né i conservatori, né i liberali. Nel nome di Dio, o letterato, come puoi ordinarci di toglierci il velo quando chiunque di noi esca per strada verrà apostrofata con espressioni volgari: uno le lancia sguardi irrispettosi, un altro le rovescia addosso tutta l’acqua della sua bassezza tanto da farla trasudare dalla vergogna? Non è giusto affidare agli uomini della nostra società attuale la questione della donna, dal momento che lei è esposta ai loro insulti e alla loro volgarità. Le nostre donne, oggi, hanno il cervello di un lattante. Togliersi il velo e mescolarsi agli uomini sarebbe un’innovazione deleteria per loro. E poi, o lettore, puoi spiegarmi di cosa può parlare una donna ignorante o quasi a un giovane che incontra? Può discutere di scienze, se lei non ne ha la minima idea, oppure ne ha soltanto qualche nozione marginale? Oppure può addentrarsi nella politica, mentre non sa in quale isola dell’Arcipelago si trova l’Inghilterra, e non è nemmeno in grado di spiegare parole come costituzione o imperialismo? Potrà parlare solo del suo aspetto fisico e dell’eleganza del suo vestito. Ecco dove sta il nocciolo della questione: è un grande errore!»[6]. È una lunga citazione, ma ancor oggi, ad un secolo di distanza, la questione del velo è attuale; il velo, però, non è la causa della subordinazione della donna, è, dal mio punto di vista, uno degli effetti della predominanza maschile e dell’imposizione della religione nella vita delle donne. Non è neanche una manifestazione culturale o tradizionale: la tradizione e la cultura hanno altri modi per emergere, che non siano quelli di mantenere la donna sempre un passo indietro rispetto all’uomo.
Altre donne che si batterono per l’emancipazione delle donne furono Mārī ‘Ağamī (1888-1965), siriana e Maryānā al-Marrāš (1848-1919), anche lei siriana, la cui casa divenne il ritrovo preferito degli intellettuali dell’epoca – il fatto che una donna ricevesse in casa era un’innovazione eccezionale. Ma fu soprattutto Zaynab Fawwāz a scrivere articoli infuocati sul diritto della donna all’istruzione.
Un’altra donna araba, che seppe coniugare il femminismo con la letteratura, fu Mayy Ziyādah, palestinese d’origine libanese, trapiantata in Egitto. Mayy fu la fondatrice di un circolo culturale aperto a uomini e donne di varia cultura e di diversa estrazione sociale. Mayy scriveva: «Se l’uomo è schiavo una volta, la donna lo è molto di più. I pittori di solito simboleggiano la schiavitù, rappresentando un uomo infelice e incatenato, ma se volessero rendere questo simbolo più esplicito, lo potrebbero fare con una donna. Gli uomini hanno preso l’abitudine a renderla schiava non solo con il sopruso, le pressioni e la sofferenza, ma anche con la cortesia, le lusinghe e il corteggiamento. Le donne povere escogitano mille moine per essere desiderate, ma se potessero riflettere, capirebbero che in fondo a tutto c’è solo il disprezzo per loro stesse e per la loro femminilità»[7].
È interessante anche la figura di Fadwà Tūqān (i917), poetessa palestinese, che si formò alla scuola poetica del fratello. A lei, come ad altre giovani della sua generazione, fu preclusa anche la possibilità di andare a scuola. Ma la scuola poetica del fratello, l’unica che poté frequentare, le offrì l’occasione di emanciparsi e di sognare la libertà. In un suo quaderno di adolescente ha scritto:
Nome: Fadwà Tūqān
Classe: Nessuna
Insegnante: Ibrāhīm Tūqān
Materia: Poesia
Scuola: La casa
Una volta liberata dall’oppressione della famiglia poté scrivere infuocate poesie per la sua terra, tanto da diventare la poetessa della resistenza palestinese. Questo, tuttavia, non deve far dimenticare anche le sue appassionate liriche d’amore, in cui la poetessa riuscì a intrecciare sentimenti e passioni verso un lui a cui fu del tutto fedele. Quando Salvatore Quasimodo la incontrò a Stoccolma, ne fu affascinato e le dedicò alcuni versi, ma lei rispose così:
Io, caro poeta, ho nella mia cara patria
Un innamorato che aspetta il mio ritorno.
È del mio paese.
E tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno perdere il suo cuore,
o vendere il suo dolce amore[8].
Ricordiamo ancora Widād Sakākīnī (1913-1991), siriana. Nel suo libro Insāf al-mar’ah (Rendere giustizia alla donna), pubblicato nel 1950, polemizzò con alcuni intellettuali arabi, che l’avevano duramente criticata sul piano letterario, e li accusò di misoginia. Attaccò particolarmente Zakī Mubārak, che aveva scritto frasi di questo tipo: «Il padre provava la solidità delle scarpe nuove sulla testa della moglie, perché la donna può essere trattata solo con durezza e disprezzo»[9], e contro Kurd ‘Alī che, malgrado fosse conosciuto come una persona liberale, aveva scritto: «La donna non eccelle e non crea niente di originale né nella scienza, né nella letteratura, sa fare bene solo quelle cose per cui la natura l’ha predisposta, come abbellirsi, cucinare e cucire»[10].
La letteratura più propriamente femminista iniziò alla fine degli anni Cinquanta, anche se sono delle opere contraddittorie: da una parte esprimono il desiderio della donna di emanciparsi, dall’altra esprimono la sacralizzazione dei valori ancestrali.
Nel campo letterario dell’autobiografia, o delle memorie, ‘Alī al-Du‘āğī, uno degli scrittori più anticonformisti della letteratura araba, ci ha lasciato delle pagine veramente interessanti, anche perché ci descrive la vita quotidiana a İstanbul dopo le riforme di Atatürk. Queste descrizioni sono un po’ caricaturali: di Kemal Atatürk egli dice che è un personaggio che non sa se ammirare o condannare per aver trasformato la Turchia da tradizionale paese musulmano in uno stato europeo, forte e …comico!
Lo scrittore fu spinto a ridere di alcuni aspetti dell’occidentalizzazione imposti alla Turchia. E così scrive: «Quando ti trovi nelle strade di İstanbul ti viene da ridere se incontri un contadino turco, arrivato nella capitale per vendere i suoi prodotti, su un carretto tirato da un rispettabile cammello. Questo contadino indossa il serwāl, il tradizionale pantalone orientale largo largo, un gilet, una giacca doppio petto e una sciarpa di lana come si indossa a Djerba, ha sandali gialli e in testa un berretto di tessuto scozzese con la visiera»[11]. Ma sono soprattutto le donne turche ad attirare l’attenzione dello scrittore, che afferma che può capitare di vedere a İstanbul la ragazza dell’harem di una volta, vestita con modelli parigini alla moda, che lavora e combatte a fianco all’uomo che non è più il suo signore, ma un compagno suo pari. Questa ragazza ha archiviato il suo velo e l’ha messo in uno degli scaffali dei musei turchi, dandogli un numero d’ordine.
2. Nei primi romanzi uno specchio della realtà
Le immagini femminili che troviamo in letteratura spesso sono l’espressione della realtà, ma possono anche rivelare il modo in cui le donne sono viste dall’autore. In ogni caso, le opere letterarie ci aiutano a capire l’organizzazione della famiglia, le tradizioni, i sentimenti e tanti altri aspetti della vita quotidiana che sono spesso tralasciati dalla Storia ufficiale, ma che ci permettono di addentrarci con più facilità in settori ancora poco conosciuti.
Vediamo com’era organizzata la famiglia dell’élite ottomana a İstanbul intorno al 1827, l’anno dell’apparizione del primo romanzo turco. Le famiglie elitarie della capitale vivevano in grandi case, che includevano fino a tre generazioni. Talvolta il numero di coloro che coabitavano era ridotto ma, nonostante ciò, i legami continuavano ad essere molto forti e a volte un membro della famiglia passava anche lunghi periodi come ospite presso uno dei parenti. Si cominciò a procrastinare l’età del matrimonio: Ahmet Mithat scriveva nel suo romanzo Felatun Bey ile Rakım Efendi (1875) che il padre di Felatun Bey aveva sposato all’età di sedici anni una ragazza di dodici, mentre una generazione dopo, Rakım Efendi si sposava all’età di ventisette. Gli studiosi Behar e Duben hanno riscontrato nelle loro ricerche su İstanbul, che questa era veramente la tendenza: infatti essi riportano che l’età media del matrimonio alla fine dell’Ottocento è per gli uomini a trent’anni, per le donne a venti. C’è un altro dato interessante: sia nei romanzi, sia nei dati raccolti dagli studiosi, troviamo un tasso basso di fertilità, infatti il numero dei figli per coppia oscilla da uno a tre. Sembra inoltre che fosse praticata la poligamia in modo esteso tra le famiglie d’élite. Si narra che quando Mithat Paşa era governatore di Bagdad (1869-1872), la moglie aveva preferito rimanere a İstanbul. Allora egli prese una seconda moglie, una giovane schiava circassa e, quando ritornò a İstanbul, mandò a casa la nuova moglie da sola ad incontrare la prima moglie. Quando le due donne si trovarono di fronte, la seconda voleva baciare le mani alla prima, che le impedì il gesto e le baciò le guance. Era sancita così una gerarchia tra le mogli: la prima continuava ad essere la padrona di casa, la seconda le si sottometteva. In genere, il desiderio di dominio e di controllo del mondo domestico da parte della prima moglie induceva a preferire concubine schiave. La prima moglie di solito era nominata büyük hanım (signora grande) e la provenienza servile delle successive mogli era una garanzia del mantenimento dell’armonia nella vita domestica[12].
Spesso neanche il rispetto delle gerarchie era garanzia di serena convivenza, perché i servitori delle diverse mogli litigavano tra loro e creavano grosse tensioni. Halide Edip narra che quando il padre si risposò nacquero grandi conflitti emozionali, per cui si dovettero separare gli appartamenti per poter vivere in modo accettabile[13].
Come nuore o mogli le schiave erano preferibili: esse, prive di una famiglia dove fare ritorno, erano più docili delle ragazze provenienti dalle famiglie ottomane. Questo fatto non costringeva l’uomo alla necessità di avere rapporti con tutti i parenti acquisiti e dava la possibilità di formare le ragazze rendendole adatte al piacere degli uomini. La presenza delle schiave, se l’uomo mostrava molto attaccamento verso di loro, poteva dare fastidio alla moglie legale, che talvolta rivendeva quelle di sua proprietà quando arrivavano ad un’età in cui potevano essere sessualmente desiderabili, o le faceva sposare.
Quando la moglie era sterile, spesso era lei stessa ad offrire al marito una concubina affinché gli desse la desiderata prole. Spesso, però, il marito sceglieva una concubina e la teneva in una seconda casa all’insaputa della prima moglie.
Halide Edip Adıvar (1883-1964), nel romanzo Sinekli bakkal (La drogheria con la mosca – c’è un quartiere con questo nome ad İstanbul), racconta che queste tendenze c’erano sotto il regno di Abdülamit II (1876-1908) e descrive il fatto che il capofamiglia di un konak contrasse un secondo matrimonio all’insaputa della moglie e mise su una seconda casa per la nuova moglie in un quartiere distante. Nello stesso romanzo, Halide Edip racconta la pratica di educare le schiave da parte delle mogli di grandi dignitari ottomani. Nel romanzo, la signora Sabiha, moglie altezzosa di un paşa, cresce una ragazza circassa così descritta: «Alta di statura, con le spalle larghe, le anche strette come quelle di un ragazzo, la pelle morbida e bianca, pari alla seta, gli occhi sembrano due grandi fiori celesti […]. Ha indosso un semplice vestito bianco con una cintura d’argento alla vita. […] Ha raccolto i suoi lunghi capelli biondi in una treccia, fermata con un filo di seta rosa. Si chiama Kanarya (canarino)»[14].
Questa bella giovane, prima di essere regalata alla corte imperiale, dove sarà moglie di un principe, costituirà un’arma potente nelle mani della signora Sabiha contro la nuora Dürnev, anche lei una ex schiava. La signora Sabiha aveva comprato Dürnev quando era ancora una bambina e l’aveva educata come voleva lei, per darla in sposa al figlio. Sperava così di poter avere contemporaneamente il comando nei riguardi della nuora e del figlio e che la nuora le rimanesse sempre subordinata. I reumatismi, però, avevano costretto all’immobilità la signora Sabiha e la nuora si era messa al governo della casa. Allora la signora Sabiha, per dare una lezione alla nuora, aveva comprato una bella ragazza circassa, Kanarya, che in apparenza era educata all’arte della danza, per essere poi regalata alla corte imperiale, ma nella realtà era una minaccia per Dürnev, in quanto il marito se ne sarebbe potuto innamorare. La nuora, però, divenne subito amica di Kanarya e cominciò ad invitare il suocero a vedere i progressi della schiava. Allora la signora Sabiha, per evitare che suo marito si avvicinasse troppo a Kanarya, accelerò i tempi per donare la ragazza alla Corte.
Quando la poligamia cominciava a creare imbarazzo tra i dignitari ottomani nelle relazioni con gli esponenti della diplomazia europea, si trovò la soluzione di eleggere una specie di “moglie diplomatica” che presenziava con il marito nelle occasioni ufficiali, salvo scoprire poi che potevano esserci altre mogli ben nascoste.
Per quanto riguarda la schiavitù, i primi firman per vietare il commercio di schiavi furono emessi per i bianchi nel settembre 1854, per i neri nel febbraio 1857. I divieti, però, non ebbero alcuna forza: ancora nel 1908 a İstanbul si trovava un gran numero di schiavi di colore.
Le Riforme promosse durante le Tanzimat non erano riuscite a penetrare profondamente nella società ottomana, anche perché le gerarchie musulmane non erano per niente favorevoli. Col passare degli anni, però, tra le nuove leve dell’amministrazione civile, molti giovani furono mandati in Europa con borse di studio oppure con incarichi nelle ambasciate. Questi nuovi contatti favorirono la circolazione di opere letterarie, oltre ad un’attività di traduzione di romanzi, specialmente dal francese. Sorsero inoltre molte librerie, in gran parte gestite da componenti di minoranze non musulmane, che vendevano libri provenienti dall’Europa e quindi fu avviata un’intensa opera di traduzione. Fino agli ultimi decenni del XIX secolo la maggioranza delle librerie di İstanbul, dove era possibile trovare i libri moderni europei, era gestita da Armeni. Case editrici e librerie, che generalmente non erano separate, specializzate in produzione e vendita di libri moderni in turco, cominciarono ad aprire lungo una delle vie principali della capitale. Ciò pian piano rese possibile la modernizzazione dell’Impero, che però non era priva di grossi problemi, specialmente nell’ambito dei rapporti all’interno della famiglia. La modernizzazione richiedeva la capacità di approdare ad identità nuove dell’uomo e della donna. La difficoltà enorme di sostituire con una nuova identità quella egemone maschile, riportava tutto il discorso nella tradizione religiosa, che poteva fornire tutte le risposte ad ogni possibile domanda.
Nel triangolo padre-figlio-casa, che costituisce un cliché nei romanzi del periodo delle Tanzimat, il figlio, privato della guida paterna, non solo è condannato al suo personale annientamento, ma trascina con sé verso la rovina l’intera casa. La casa, in questa struttura simbolica, è l’ambito di esercizio dell’autorità paterna, il luogo deputato alla protezione delle tradizioni. Questo motivo esprime la preoccupazione di un’epoca di forte indebolimento dell’autorità del sultano: quella che i figli, impegnati nel processo di occidentalizzazione, potessero portare in rovina l’intera società.
Così la prima fase della letteratura ottomana si caratterizza soprattutto per essere fortemente didattica. L’élite riformista, attraverso la letteratura moderna, tenta di diffondere nella coscienza collettiva la necessità della modernizzazione.
I temi più trattati nei romanzi e nelle opere teatrali dell’epoca riguardano la ricerca di una nuova identità maschile, dove i requisiti della modernità si armonizzino con quelli tradizionali della virilità. Il processo è molto contraddittorio, dal momento che i Giovani Ottomani sono in bilico tra l’ordine moderno e l’ordine tradizionale. Da un lato essi condannano le licenziosità e le libertà associate all’Occidente, dall’altro aspirano alla costruzione di un mondo domestico monogamo, in cui l’amore e la solidarietà facciano diminuire la distanza emozionale tra gli sposi e l’autorità indiscussa del patriarca. Nei romanzi sono criticati in particolar modo i matrimoni combinati. Şinasi, uno dei componenti più importanti del movimento dei Giovani Ottomani, nel 1860, in Şair evlenmesi (Il matrimonio del poeta), la prima commedia turca, ridicolizza le conseguenze di questo tipo di matrimonio. In quest’opera, il poeta desidera sposare la più giovane di due sorelle, ma a causa delle macchinazioni dei genitori e dei mediatori, si ritrova quasi a sposare la maggiore. Alla fine, con l’aiuto di un amico e di una bustarella all’iman, riesce a sposare l’amata[15].
Anche il primo romanzo turco, Taaşşuk-i Talat ve Fitnat (L’innamoramento di Talat e Fitnat), di Şemseddim Sami, apparso nel 1872, prende come oggetto di critica la segregazione femminile e la formazione della famiglia. Nel romanzo, Talat, un giovane orfano, si innamora di una ragazza che aveva visto alla finestra. Questa ragazza, di nome Fitnat, è anche lei orfana: la madre è morta quando lei era molto piccola, il padre è sconosciuto. Il padre adottivo non le permette di uscire di casa. Talat si traveste da donna per avvicinarsi all’amata e, con la scusa di prendere lezioni di cucito, stabilisce una relazione con lei. I due ragazzi sono molto innamorati, ma il padre adottivo non le permette di sposarlo, perché ha già scelto un marito per lei, un uomo ricco, ma anziano. Fitnat, accusata di eccessiva modernità, è costretta ad obbedire, ma poi si suicida e muore fra le braccia di Talat, che in quel momento era andato da lei per la lezione di cucito. Anche Talat si suicida e in seguito, quando leggono quello che è scritto sul medaglione al collo di Fitnat, si scopre che il promesso sposo è il padre naturale della ragazza. Per il dolore e la consapevolezza che stava per sposare la propria figlia, Ali Bey, il padre, perde la ragione e muore alcuni mesi dopo. L’autore è molto critico verso la condizione delle donne che devono soggiacere completamente al volere maschile. Nello stesso romanzo, la madre di Talat si sfoga con la sua inserviente dicendole che i padri non si curano della felicità delle figlie e non chiedono il loro parere su chi amerebbero sposare, ma dicono soltanto: “Ti sposerò con Tal dei tali”. Alle figlie non rimane che pregare, talvolta le preghiere vanno a buon fine e, magari, capita di prendere in sposo un bel giovane; ma il più delle volte devono sposare un vecchietto.
Nello stesso anno della pubblicazione di questo romanzo, troviamo anche una prima riflessione di Namık Kemal, uno degli intellettuali più influenti del movimento dei Giovani Ottomani. Nell’articolo intitolato Aile (Famiglia), egli, anche se sottolinea che i legami familiari costituiscono la base della superiorità morale del mondo musulmano rispetto a quello occidentale, afferma che la famiglia tradizionale è una realtà arretrata, con rapporti di sopraffazione e di violenza, specialmente sui giovani e sulle donne. Secondo la riflessione di Namık Kemal, la famiglia turca deve recuperare le proprie tradizioni attraverso la forza di una figura paterna moderna, ovvero di un patriarca illuminato.
Ahmet Mithat, a differenza di Namık Kemal, proveniva dagli strati popolari. Il suo pensiero era saldamente ancorato ai valori con cui era cresciuto. Egli era bigamo e considerava la sua vita molto soddisfacente. Riconosceva che alle donne si dovessero dare più diritti e libertà, ma la sua benevolenza si fermava davanti alla necessità di tutelare le norme tradizionali. Niente illustra meglio l’atteggiamento di difesa della poligamia da parte di Ahmet Mithat, del suo lavoro Paris’te bir Türk (Un turco a Parigi), del 1876: «I dettami della nostra religione musulmana non considerano l’uomo come una sorta di angelo, privo di istinti umani come fanno i dettami della religione di Cristo. La nostra religione tiene conto di ogni bisogno umano. Se non avesse concesso la possibilità di prendere più mogli a un uomo che con una sola non riusciva a soddisfarsi, non avrebbe potuto ritenere immorale la prostituzione»[16]. Nello stesso romanzo una signora parigina così giustifica la poligamia presso i musulmani: «Per i nostri uomini parigini, che già a dodici-tredici anni diventano invalidi contraendo qualche malattia venerea, è troppo persino una moglie. Invece un uomo orientale, il cui paese non ammette la prostituzione, non può bere alcolici, non può giocare d’azzardo, mantiene intatte tutte le sue forze. Ovvio che per lui una sola donna sarà troppo poco».
Il possesso di un alto numero di donne non è solo la misura della virilità del patriarca, ma è anche la misura della sua capacità di autocontrollo, del suo senso di giustizia e del suo potere economico.
D’altra parte, però, gli uomini sentono l’attrazione di doversi uniformare alle nuove idee dell’élite riformista e ciò fa avvertire il bisogno di una controparte femminile moderna, con cui realizzare una piena unione, soprattutto emotiva. Non vogliono più aderire ai matrimoni combinati tra i genitori. Alide Edip Adıvar tratta questi disagi in Sinekli bakkal. Il giovane protagonista, Hilmi, figlio del ministro degli Interni del sultano Abdülamit, considera le donne tra le principali responsabili del perpetuarsi del sistema che odia. Egli vede la madre avere come sue uniche occupazioni circondarsi di adulatori, comprarsi gioielli, sperperare soldi. Hilmi è convinto che le collane, anche se d’oro e perle, sono soltanto catene che tengono le donne in schiavitù. Alla fine del romanzo, Hilmi, coinvolto nella cospirazione contro il regime, è scoperto dal padre e mandato al confino con la moglie, ma lì riuscirà finalmente a rifarsi una vita, stabilendo una complicità affettiva ed intellettuale con la moglie[17].
La condizione per la creazione di una famiglia diversa era l’istruzione delle donne. Precedentemente alle Tanzimat (Riforme che furono avviate a partire dal 1839), l’educazione ottomana era, ad ogni suo livello, prettamente religiosa e riservata solo agli studenti di sesso maschile. L’istruzione delle donne era possibile solo attraverso lezioni private a domicilio, possibilità, questa, che era alla portata di un’esigua minoranza della popolazione femminile. Con le Riforme cominciarono i tentativi di introdurre un nuovo sistema educativo, laico e specializzato. Nel 1842 fu permesso alle ragazze di frequentare le lezioni nella facoltà di Medicina per formarsi come levatrici. Nel 1845, dieci ragazze musulmane si diplomarono levatrici. Questa istruzione, concepita per rispondere alle esigenze di disporre di personale specializzato nell’Impero a livello universitario, creava, nella totale mancanza di livelli intermedi, grandi difficoltà di apprendimento. Furono così concepiti progetti per l’apertura di scuole primarie obbligatorie e gratuite per ambedue i sessi e per la creazione di scuole di livello medio-superiore. Questi progetti, però, per lungo tempo non furono applicati. La prima scuola superiore femminile fu aperta a İstanbul nel 1859. Essa aveva una durata di due anni ed era gratuita. Tuttavia il fatto che i docenti fossero tutti uomini, rese molto difficile la frequenza delle studentesse che, al momento della scuola secondaria, avevano già superato gli undici anni e dovevano evitare ogni rapporto con il sesso maschile, salvo i parenti più prossimi. Nel 1876 fu aperta la prima scuola femminile per la formazione d’insegnanti. La scuola durava due anni (contro i tre anni della scuola maschile per insegnanti).
La prima istituzione professionale femminile fu aperta a Uşcuk nel 1865 ed era riservata alle orfane di guerra, che imparavano a cucire e a tessere. Le insegnanti furono importate dall’Europa. Nel 1869 una scuola simile fu aperta a İstanbul. Questi tentativi rimanevano comunque in superficie e per lo più concentrati nella capitale. Il numero di donne diplomate nelle scuole era estremamente esiguo e il livello della loro istruzione più basso e contenutisticamente più povero rispetto a quello del sesso dominante. Le poche donne che frequentarono le varie scuole messe a loro disposizione o che continuarono ad essere istruite a domicilio privatamente occupavano le estremità della scala gerarchica della società: le più povere e meno tutelate, come appunto le orfane che frequentavano i corsi professionali, e le più benestanti, che ricevevano un’educazione più raffinata, consistente quasi sempre nello studio delle lingue occidentali (quasi sempre il francese) e del pianoforte[18].
L’istruzione femminile cominciava ad essere necessaria perché, come scriveva Şemseddin Sami, «una donna senza cultura non solo non può compiere bene il suo dovere, ma non può neanche essere la degna moglie di un uomo istruito; perché o non potrà capire i discorsi del marito, oppure per far sì che tra di loro esista un qualche dialogo, l’uomo dovrà scendere al livello della moglie. E un uomo non può amare una donna che lo trascina nel buio dell’ignoranza»[19].
L’idea di sostituire la giustizia verso le donne con il sentimento dell’amore, poteva portare la sovversione dell’ordine tradizionale all’interno della società. L’amore era un elemento estraneo nell’ordine garantito dal patriarca, ne minava il potere, demoliva l’autorità e attentava ai fondamenti morali della società. Ahmet Mithat affermava che l’amore era un’invadenza straniera e che l’innamoramento, che implicava l’incontro dei due sessi al di là di uno spazio privato e protetto quale era quello domestico, era pieno di rischi: come ci si poteva fidare della moralità di una donna incontrata in uno spazio pubblico?
Il rinnovamento della famiglia doveva altresì confrontarsi con il problema della schiavitù domestica femminile. Sul piano ideale tutti condannavano la schiavitù, ritenendo che non si potesse concepire che vi fossero uomini e donne privati della libertà. Ma la condanna della schiavitù, la cui origine derivava in parte dall’immensa forza del concetto di libertà e in parte dalle emozioni della guerra civile americana riflesse nella letteratura europea, si affievoliva quando l’istituzione era considerata all’interno della propria vita familiare e sociale. Il reame domestico era un’altra questione. Sul piano morale la famiglia musulmana era considerata migliore (e di molto) rispetto alla famiglia occidentale. Come la poligamia impediva la prostituzione, così la schiavitù forniva a povere ragazze e a poveri ragazzi una famiglia, un tetto, il sostentamento necessario, buona educazione e spesso un futuro che nelle loro condizioni naturali non avrebbero neanche potuto sognare. Talvolta gli schiavi e le schiave raggiungevano i gradini più alti nella scala sociale. Ahmet Mithat, nel suo Acaib-i alem (Stranezze del mondo), così fa rispondere il protagonista alla domanda indignata di una principessa russa:
Principessa: E le schiave concubine?
Suphi: Sì, se la moglie di un signore muore o si ammala, o invecchia, allora egli può prendersi una concubina, ma tra questa e la moglie non c’è alcuna differenza: anche i suoi figli sono considerati legittimi.
Più avanti, nello stesso romanzo, Suphi parla con una giovane inglese che scrive un diario di viaggio in Turchia:
Suphi: Allora, dunque, dovete aggiungere al vostro diario che da noi nulla vieta ad una schiava di diventare moglie legittima di un paşa. Lo capite? Insomma, se applicassimo l’etichetta europea, anche quella schiava avrebbe il diritto all’epiteto “eccellenza” riservato al marito. Dovete sapere che le mogli della maggioranza dei nostri “eccellenza” sono schiave[20].
La schiava-concubina appartiene solo al padrone, è inerme e devota, mentre la moglie legittima, forte della sua parentela, ha più potere contrattuale nei confronti del marito. Ahmet Mithat, nel romanzo già citato Felatun Bey ile Rakım Efendi commenta, tra derisione per le donne turche e comprensione per gli uomini, la riluttanza dei suoi concittadini ad abbandonare l’uso delle concubine: «A cosa serve una schiava? Quelle donne turche che non si possono avvicinare per la loro alterigia, per il loro orgoglio, che stanno sempre con il broncio scambiandolo per segno di magnificenza, non si sa mai come farle contente. Le loro smancerie sono insopportabili, le loro battute di spirito gelano. Invece ti prendi una concubina… Poveretta, non ha nessun diritto, ma poiché è la tua schiava, è costretta ad essere come vuoi tu».
Il desiderio di cambiamento porta a vivere i mutamenti della società sentendoli come una minaccia per le strutture patriarcali. Molti dei protagonisti dei primi romanzi turchi sono orfani di padre. Questo, anziché renderli più liberi, li espone al pericolo, all’abbandono e li priva dei necessari indirizzi e delle risorse spirituali. La famiglia musulmana aveva creato una propria gerarchia interna, nella quale si svolgeva una perpetua lotta tra le donne di diverse generazioni per mantenere la lealtà del figlio: le madri per assicurarsi il potere di controllo e le nuore per carpire la complicità dello sposo. Queste dinamiche erano controllate dall’autorità patriarcale e, con il venir meno di quest’ultima, esplodevano nuove situazioni, considerate frutto di intrighi femminili.
Come si può vedere, è molto difficile uscire dal cerchio del patriarcato tradizionale. Le sfere interno/esterno, l’uomo e la donna continuano a non comunicare e le identità sessuali a non essere definite nel rapporto tra i sessi, bensì a trovare la loro definizione in ruoli sociali diversificati. Il processo, però, è dinamico: la ridefinizione di nuove identità maschili e femminili è soggetta a trasformazioni continue.
La letteratura turca dell’inizio del Novecento continua a descrivere la divisione dei ruoli all’interno della società e a calcare la mano sulla negatività femminile e sugli intrighi delle donne, che si sviluppano maggiormente in conseguenza dell’indebolimento dell’autorità patriarcale.
Una delle personalità più significative di questo momento di passaggio e del tramonto ottomano è Halide Edip Adıvar, scrittrice prolifica, figura politica rilevante, nonché femminista attiva nella difesa dei diritti delle donne. Nella sue opere, Adıvar esprime nuove identità maschili e femminili, modelli che saranno alla base delle riforme kemaliste. Nei suoi primi romanzi risuona la preoccupazione per la crisi d’identità dell’uomo della società turco-musulmana. Le donne di Halide Edip sono moderne, illuminate e piene di valori positivi. Gli uomini, invece, sono incapaci di accettare l’amicizia di una donna, continuano ad essere insensibili verso le esigenze femminili e a nutrire insaziabili appetiti sessuali. Vi sono anche degli uomini che hanno compreso il senso della modernizzazione, ma sono destinati a rimanere isolati, come del resto succede alle donne. Entrambi sono costretti alla solitudine, all’incomprensione, al sacrificio di sé e dei propri sentimenti. Raik’in annesi (La madre di Raik, 1908), è scritto in prima persona, come se fosse il diario di un giovane uomo. Il protagonista scopre i piani della zia per sposarlo con la figlia di una famiglia amica, ma lui s’innamorerà di una donna intelligente e raffinata, semplice e moderna. Quando scopre che è la moglie di un conoscente, anche se viene a saper che il marito la tradisce, rinuncia a lei, perché è convinto della sacralità della famiglia e giura di convincere il marito a tornare da lei.
La Adıvar scrive inoltre un romanzo utopico, Yeni Turan (Il nuovo Turan, 1912), in cui descrive il prototipo della nuova donna e il senso della sua emancipazione. Il Turan è la mitica patria dei turchi, dove «anche le donne studiavano e lavoravano accanto agli uomini. Il loro abbigliamento era cambiato, era diventato più semplice e sobrio, non aveva niente a che vedere con la moda.
Ora le donne non erano più, con i loro abbigliamenti fabbricati ad arte, delicati, eleganti, il decoro delle loro case, il sogno d’amore dei loro uomini, ma erano insegnanti, infermiere, donne dal forte carattere e dai sobri atteggiamenti... Si erano trasformate da prezioso oggetto ornamentale in laboriosi elementi della società, in madri, amiche…»[21].
Le donne dall’ideologia nazionalista avevano maggiori libertà. Esse diventavano attive militanti nella costruzione della nazione. Anche se in una posizione subalterna rispetto all’uomo, e con un ruolo asessuato, la donna assumeva un ruolo sociale e politico, diventava la madre della nazione.
L’immagine femminile del tardo periodo imperiale aveva svolto due funzioni, come si può vedere da uno studio delle vignette apparse sui giornali dell’epoca: una era quella di mostrarla vestita all’occidentale, complice delle forze ostili, una sorta di sovversiva che, scegliendo modi di vita europei, contribuiva alla rovina dell’impero.
L’altra funzione era quella di mostrarla come un’immagine sensuale o materna[22]. In entrambi i casi era sempre una donna vulnerabile e simboleggiava la vulnerabilità della nazione stessa.
3. Il nazionalismo kemalista
La guerra di liberazione, oltre ad aver gettato le basi per lo sviluppo dell’idea di sovranità popolare e di repubblica, aveva anche preparato le condizioni per il cambiamento delle strutture di genere. Le necessità del combattimento avevano sospeso, per così dire, momentaneamente le differenze tra i sessi. Uomini e donne dovevano interagire da vicino vestendo, pur in modo differente, l’uniforme da combattente. Salvo poche eccezioni, com’è stato già detto Halide Edip Adıvar ottenne il grado di caporale, nella memoria della liberazione non rimasero nomi femminili. I romanzi di Adıvar sono i più rappresentativi della formazione di un nuovo modello femminile all’interno della ridefinizione kemalista del genere. Temprata dal suo nazionalismo, la posizione di Edip riflette la convinzione che l’elevazione dello status della donna è collegata con l’elevazione dell’intera nazione. Secondo la scrittrice, oltre all’impegno sociale, il dovere primario della donna consiste nella maternità, nella formazione di una nuova generazione di patrioti illuminati.
Halide Edip descrive, forte anche della diretta osservazione in battaglia, il nuovo ideale di donna in Ateşten gömlek (Camicia di fuoco, 1922) e in Vurun kahpeye (Colpite la meretrice, 1923).
In Vurun kahpeye la protagonista, Aliye, una donna bella e giovane, un’insegnante piena d’ideali, si reca, alla vigilia della guerra d’indipendenza, in uno sperduto villaggio dell’Anatolia per insegnare. L’apparizione nel villaggio di questa giovane donna, sola e indipendente, è contrassegnata dall’approccio aggressivo degli uomini del villaggio che in lei vedono solo la proiezione dei loro desideri: una donna sessualmente disponibile. Aliye ottiene la protezione di una coppia d’anziani del luogo che avevano perso la loro figlia, ma i suoi pretendenti non sono in grado di capire come una donna sola possa respingere le loro proposte e diventano sempre più aggressivi. Ma la missione di Aliye è l’alfabetizzazione dei bambini e comunque il suo ideale di matrimonio si fonda su una relazione d’amore.
Aliye incontra il comandante di un gruppo di nazionalisti e se ne innamora ma, fidanzandosi con lui, si attira l’odio di coloro che la accusano di offesa alla religione. Quando il villaggio è occupato dalle truppe greche, i religiosi e i notabili del villaggio vanno dal comandante greco e raccontano di Aliye e del fidanzato nazionalista e gli consigliano di arrestare il padre adottivo. Aliye incontra il comandante greco Damyanos per salvare il padre, ma le viene chiesto in cambio di essere sua, poiché Damyanos se ne è innamorato. Lei per salvare il padre e Tosun, il fidanzato nazionalista, accetta. Arriva Tosun al villaggio e passa una notte d’amore con Aliye. Le propone di fuggire con lui, ma la donna deve mantenere fede al giuramento. I notabili hanno avvisato le truppe greche della presenza di Tosun, e così lui sospetta Aliye di tradimento. Lei gli racconta tutto, vuole salvarlo, si offre di andare da Damyanos e Tosun non fa troppa fatica ad accettare il sacrificio di Aliye. Ella è trattata come la promessa sposa di Damyanos, ma quando l’esercito di liberazione sta per arrivare nel villaggio e i soldati greci fuggono, i notabili del villaggio la accusano di aver tradito la causa e decidono per la lapidazione, un gesto che vorrebbe purificare la morale della comunità in nome della fede[23]. Qui è evidenziato che i nemici della nazione turca non sono solo quelli esterni: esistono forze interne, individui e gruppi, che valutano i propri interessi al di sopra di tutto e tra questi ci sono i religiosi di vecchio stampo. Essi sono i veri responsabili dell’arretratezza culturale, sociale ed economica della popolazione anatolica. Senza scrupoli nel perseguire i loro interessi, essi sfruttano i sinceri sentimenti religiosi della popolazione e basano il loro potere sul loro abuso[24].
Anche nel romanzo Ateşten gömlek la partecipazione alla guerra di liberazione della protagonista, Ayşe, è motivata da sentimenti femminili. Durante l’occupazione greca di İzmir, Ayşe perde il marito e il figlio. Disperata e sola, trova rifugio a İstanbul, presso un lontano parente, Peyami, grazie alla protezione di una famiglia italiana[25]. Peyami e il suo amico İhsan frequentano i circoli nazionalisti e Ayşe comincia a partecipare con loro alle manifestazioni nazionaliste e in seguito alla guerra. I due uomini amano Ayşe, ma le necessità della guerra impongono di sublimare l’amore, diventato “una camicia di fuoco” per entrambi. Ayşe, assorbita dal suo ruolo d’infermiera, sembra non accorgersi di niente. İhsan è amato da una contadina, Kezban, che è rimasta orfana e vorrebbe affidarsi a lui. Quando İhsan con il suo gruppo deve partire, Kezban si getta ai suoi piedi e lo implora di condurla con lui, ma non è voluta ed è costretta a ritornare al villaggio con gli occhi pieni di lacrime.
Le due donne, Ayşe e Kezban, sono differenti: Ayşe è una donna progredita, moderna, moralmente impeccabile, che continua ad essere fedele al marito e al figlio, anzi li vuole vendicare. Kezban è il simbolo della società arretrata: bisognosa di protezione, debole, sola e ignorante.
Ayşe è una donna seria, impegnata, nazionalista, ed è proprio la figura ideale di donna che il regime preferisce per far sì che cambi l’immaginario collettivo a proposito della donna al di fuori dei confini domestici. L’abbigliamento che il regime pretendeva da una professionista o da una donna impegnata nella pubblica amministrazione doveva esaltare le caratteristiche caste dei militanti nazionalisti. Con i corpi stretti in seri tailleur, i capelli tagliati corti, senza trucco, anche le donne kemaliste finivano con l’assumere una fisionomia militaresca. Il corpo sessuato della donna lasciava il suo çarşaf per entrare in una sorta d’uniforme. In un certo senso, l’emancipazione della donna proposta dal kemalismo prevedeva l’annullamento della sessualità femminile nello spazio pubblico[26]. Come aveva anticipato Halide Edip Adıvar nel 1912, in Yeni Turan, questa figura asessuata poteva godere delle radicali riforme apportate dai kemalisti superando gli ostacoli frapposti dai timori ancestrali nel periodo ottomano potendo così aspirare a un ruolo dignitoso nello spazio pubblico senza mettere a repentaglio l’ordine sociale.
Per poter accedere sempre più a ruoli e professioni dignitose, fondamentale era l’educazione. L’istruzione primaria, di cinque anni, fu resa obbligatoria sin dal 1923 e gratuita per tutti i cittadini turchi di entrambi i sessi. Fin dall’inizio, e ancora negli anni Sessanta, gli alunni delle scuole elementari dovevano, ogni mattina, recitare in coro: Sono turco, sono giusto, sono laborioso / proteggere i più piccoli e rispettare gli adulti è la mia legge / amare la patria e la nazione più di me stesso è il mio principio.
Il regime kemalista, in modo simile a quello sovietico, ma a differenza di quello fascista e nazional-socialista, «non solo non elaborò alcuna tesi per dimostrare una supposta inferiorità intellettuale delle donne, ma sostenne con le sue azioni e i suoi programmi, la parità intellettuale di maschi e femmine»[27]. Secondo Atatürk, le circostanze richiedevano un avanzamento delle donne in ogni aspetto della vita. Se le donne avessero frequentato tutti i livelli del sistema educativo al pari degli uomini, avrebbero potuto camminare a fianco dei loro uomini in completa parità. Inoltre, in questo modo, donne e uomini avrebbero potuto darsi sostegno reciproco nella vita sociale.
La tradizionale formazione dell’identità sessuale subiva altre scosse, poiché nei luoghi preposti all’educazione, i maschi si trovavano a competere con le donne e contemporaneamente con gli altri maschi per poter emergere.
Spesso però accadeva che, dopo il primo ciclo di studi, ai ragazzi si permetteva di continuare ad andare a scuola, e alle ragazze no. Il motivo era che nei villaggi non esistevano scuole superiori, così si mandavano i maschi alla città vicina sul dorso dell’asino, cosa che per le ragazze non era possibile, perché le si voleva tenere più protette. Inoltre, permettere che una ragazza frequentasse la scuola insieme ai maschi ben oltre il periodo della pubertà costituiva un serio banco di prova per l’autorevolezza paterna. Solo se il padre apparteneva all’élite, avendo una posizione sociale dominante, poteva permettersi di sostenere l’onere psicologico di incoraggiare la figlia a partecipare all’arena sociale accanto all’altro sesso. In ogni caso il padre rimaneva la principale fonte di controllo sulla vita e sulla sessualità delle figlie.
In Ölmeye yatmak (Coricarsi a morire) di Adalet Ağaoğlu, pubblicato nel 1973, questo dilemma maschile è ben argomentato. Il romanzo ricostruisce con molti spunti autobiografici la formazione della prima generazione repubblicana. L’opera inizia con la preparazione di una recita da tenersi alla conclusione del primo ciclo di cinque anni nella scuola elementare di una piccola città dell’Anatolia. La recita è concepita e organizzata dall’insegnante con il sostegno delle autorità. Durante la recita gli allievi maschi e femmine dovranno ballare la polka; tenendosi per mano dovranno disegnare la via luminosa aperta da Atatürk davanti alla nazione, rappresentare le arti e i mestieri che garantiranno il futuro progresso materiale del paese.
I preparativi creano forti tensioni nel paese, preoccupato per la promiscuità della rappresentazione. Il maestro commenta: «Mi danno del magnaccia; la mestizia regna nelle case del paese: da alcune sembra sia appena uscito un morto, in altre domina un tale senso di vergogna, quasi portassero un lumicino rosso all’uscio. I bambini lamentano l’ostruzionismo esercitato dai genitori che non li aiutano ad adempiere alle richieste della scuola per la recita, i genitori litigano tutto il giorno. E tutto ciò è per un unico motivo: la prima recita a scuola»[28]. La protagonista del romanzo, Aysel, è una delle bambine che soffrono per le tensioni create dalla recita. Il padre è un piccolo commerciante che si sente oltraggiato per aver accordato il permesso alla figlia di apparire sul palcoscenico. Si viene poi a saper che il padre di Aysel fu costretto a concedere il permesso dietro la minaccia del governatore di fargli chiudere il negozio se non avesse adempiuto alla volontà di Atatürk. Nell’atteso giorno della recita «i banchi della scuola sono messi uno accanto all’altro: i padri, gli zii, chi con il borsalino, chi con la coppola, le mamme, le zie con i foulard in testa […] stanno seduti pregando in silenzio: “Mio Dio non me lo contare come peccato”: è la prima volta che stanno in un luogo tutti insieme, uomini e donne». A creare l’imbarazzo non è solo il fatto che i maschi e le femmine si trovino nello stesso luogo, ma anche il non sapere come reagire di fronte allo spettacolo di figli e figlie in atteggiamenti così promiscui. I bambini a loro volta sono estremamente imbarazzati, sia perché dovevano trasgredire i limiti che separavano ragazzi e ragazze, sia perché dovevano farlo davanti ai genitori e ai parenti. Al termine della recita arriva il momento di decidere sul proseguimento degli studi. L’unica ad avere questa opportunità sarà Aysel; è una bambina brava e diligente e tutti si adoperano per convincere il padre a farle continuare gli studi. Seniha, l’ex compagna di banco così le scrive ad Ankara: «Ahi, magari anche mio padre avesse permesso e avessi potuto studiare pure io, la tua povera sorella Seniha. Ahi, Aysel, che bello per te, tu diventerai la nuova ragazza turca […] Per me invece la vita è terminata…Ora mi hanno rinchiusa in casa».
Le istituzioni scolastiche applicano una dura disciplina, quasi militaresca. Il controllo sugli alunni si estende anche alla vita extrascolastica. Negli anni dell’adolescenza, Aysel ed il compagno Aydın s’incontrano casualmente in un parco. Dopo i primi momenti impacciati, Aydın chiede ad Aysel se ricorda la recita dell’ultimo anno della scuola elementare e le dice: «Ti ricordi di quella volta nella scuola elementare, quando avevi recitato la parte della farfalla?». «E voi eravate l’ape». «Vedi, io sono sempre un’ape. Sono un maschio». «È molto significativo». «È vero, è proprio così». Mentre i ragazzi parlavano, Aysel si guardava sempre intorno, preoccupata. «La maestra Rabia si preoccuperà, devo andare» disse la ragazza.
La tensione sessuale oppressa, l’impossibilità di vivere in prossimità dell’altro sesso, rende ogni incontro come un evento segreto, alterando i comportamenti. Il controllo sociale seguita a determinare non solo i comportamenti degli adulti nell’educazione dei giovani, ma anche i pensieri degli stessi giovani. Il padre di Aysel, che è stato costretto a far studiare la figlia, vorrebbe almeno iscriverla in una scuola femminile affinché possa imparare a cucire e a ricamare, perché queste sono le occupazioni adatte alle donne. Aysel si ribella: «Io non posso ricamare; le mie mani sudano. Pensavo che mio fratello avrebbe preso le mie parti, ma si schiera sempre con il babbo…Non mi permette nemmeno di alzare gli occhi…Il mio insegnante di Storia vuole che mi tagli i capelli come una ragazza occidentale, alla maschietto. Ma papà non vorrebbe nemmeno sentirne parlare…Mia madre si è fatta ondulare i capelli. Ma lui non le lascia togliere il fazzoletto dalla testa»[29].
4. Il riflesso delle strutture patriarcali nella letteratura dell’epoca kemalista
Nei romanzi rappresentativi dell’epoca kemalista, dagli anni ‘20 agli anni ’50, persistono le principali tendenze già apparse nelle opere precedenti la proclamazione della Repubblica. Le figure femminili, anche se sottomesse all’autorità ultima degli uomini, sono dotate di una forza intima, irresistibile, che permette loro di determinare i propri e gli altrui destini.
Uno dei romanzieri più rappresentativi della giovane repubblica è Reşat Nuri Güntekin (1889-1956). Çalıkuşu (Cardellino), il più famoso romanzo di Güntekin, è uno dei più significativi esempi che illustrano il concetto di donna nuova proposto dal regime. Il romanzo divenne il vademecum delle nuove generazioni e la sua protagonista, Feride, una sorta di mito per le ragazze della Repubblica kemalista.
Feride, orfana di madre e di padre (alto funzionario ottomano), cresciuta libera, è mandata in un collegio di suore francesi. Nel collegio vige una dura disciplina, ma la ragazza riesce a mantenere la sua indipendenza di carattere. Protetta dalla ricca famiglia della zia, Feride è fidanzata col cugino ed è innamorata di lui, che però è viziato, narcisista e un po’ effeminato. Feride sente che non c’è un trattamento paritario fra loro: «Intuivo che mia zia mi considerava un po’ troppo poco per il suo prezioso figlio»[30]. Quando ha la sensazione del tradimento del fidanzato, Feride scappa di casa per fare l’insegnante elementare in uno sperduto villaggio dell’Anatolia.
Feride dimostra in questo modo di tenere, al pari di un uomo, al proprio orgoglio ed onore; di avere la possibilità e la forza di andarsene da casa e poter servire la patria conservando la propria moralità, anche senza protezione maschile.
La maestra incontrerà molte difficoltà nei villaggi, ma saprà farsi accettare. Lei rimane emotivamente fedele al fidanzato e questo non è compreso e accettato dalla comunità, incapace di accettare la moralità di una donna priva di protezione maschile. Il medico militare Hayrullah la toglie da questa situazione minacciosa offrendole paternamente un matrimonio bianco. Poi prende contatto con il fidanzato di Feride, come avrebbe fatto un buon padre, e riesce a far rimettere insieme i due innamorati.
Il finale del romanzo contrasta con l’inizio: prima vediamo la giovane Feride che riesce ad organizzare la propria vita, stabilendo lei le regole e mantenendo integra la propria dignità. Alla fine, però, è ricondotta per mano da un padre buono e generoso che sa cosa è meglio per lei e lo realizza. Non è il fidanzato che si pente e fa di tutto per riconquistare l’amata, ma il padre buono, il patriarca, per così dire, che riporta la ragazza nella situazione da cui lei se n’era andata, dall’uomo che non è cambiato per niente, ma che lei purtroppo ama tanto.
Le strutture patriarcali devono altresì fare i conti con la società che cambia. Le nuove condizioni economiche contribuiscono ad aggravare la crisi dell’autorità paterna, emersa già negli ultimi anni dell’impero: le giovani donne sono spesso costrette a lavorare fuori di casa per guadagnare, le vecchie gerarchie cambiano, le donne e gli uomini diventano altrettanti consumatori attivi. L’autorità maschile, da sempre collegata al potere economico, nelle nuove condizioni si trova spesso umiliata dall’importante necessità del contributo femminile alle finanze familiari. Il timore degli uomini di perdere il proprio onore, spinti dalle nuove esigenze delle donne, contribuisce ad accrescere questa crisi[31].
Queste angosce sono espresse molto bene in Yaprak dökümü (La caduta delle foglie, 1930) di Reşat Nuri Güntekin[32]. Ali Riza Bey, padre di tre figlie e di un figlio, si sente responsabile dell’offesa ricevuta da una ragazza che lui stesso aveva portato a lavorare come segretaria nel proprio ufficio. Nello stesso ufficio la ragazza era stata sedotta dal superiore, messa incinta e poi abbandonata al proprio destino. Per protesta Ali Bey si dimette, perché si sente responsabile di non aver potuto salvaguardare la moralità della ragazza, posta sotto la sua protezione. Ciò porta la sua famiglia alla totale indigenza. È il figlio maggiore che provvederà al mantenimento della famiglia e, di conseguenza, gli è trasferita anche l’autorità paterna. Ma il figlio è ancora troppo giovane e non riesce a governare le donne. Nel nuovo ordine sociale, dove il matrimonio non è più un’unione combinata dai genitori, bensì un’unione scelta liberamente, le donne per trovare dei mariti hanno bisogno di vivere una vita mondana, organizzare feste e vestirsi bene. Il figlio, cercando di soddisfare le esigenze delle sorelle, finirà per rubare del denaro alla banca in cui lavora e andrà in prigione. Il declino coinvolge naturalmente anche le figlie che, più che trovare dei mariti e formare delle unioni regolari, finiscono per diventare le amanti di uomini ricchi e si fanno mantenere da loro. Il destino diventa amaro per Ali Bey che, avendo agito per difendere l’integrità morale di una giovane violata, finisce i suoi giorni in un appartamento pagato dall’amante di una delle figlie.
Lo smarrimento di fronte alla perdita dei tradizionali valori morali e alla difficoltà di codificare quelli nuovi, è comune agli scrittori dell’epoca. Anche Yakup Kadri Karaosmanoğlu, divenuto uno dei più convinti sostenitori del kemalismo, esprime l’incompiutezza della trasformazione, sia sul piano culturale sia sul piano morale. Dal suo punto di vista, il problema principale è da ricercarsi nella mancanza di una figura maschile capace di governare bene i cambiamenti sociali e di fare da guida alle donne nel loro nuovo cammino.
In Ankara (1934), ricostruisce gli anni della fondazione della Repubblica e la sua visione utopica attraverso la descrizione di tre diversi matrimoni contratti dalla protagonista, Selma. Ciascuno dei tre matrimoni rappresenta tre diversi periodi storici e tre diverse identità maschili. Nella prima parte, verso il 1920, Selma, appena sposata, lascia İstanbul per seguire il marito ad Ankara. I primi tempi passano nello sforzo di abituarsi alla povertà e di rendere accogliente l’abitazione. Selma incontra Hakkı, un maggiore dell’esercito nazionalista, che le insegna a cavalcare ed ad usare le armi. Alla vigilia dell’attacco definitivo dei nazionalisti, Selma, malgrado i timori del marito, va ad Eskişehir, per lavorare come infermiera volontaria all’ospedale del fronte. Qui Selma si rende conto di quanto le sue idee siano lontane da quelle del marito, di quanto lui sia insignificante, sempre perfetto nella sua camicia bianca inamidata; ormai, per lei, un uomo che non indossi un’uniforme militare appartiene ad un sesso indeterminato. E mentre il marito scapperà da Ankara, lei rimarrà a curare i feriti. Finita la guerra, Selma sposa Hakkı, ma egli non è più l’uomo passionale del fronte, si trasforma, diventa un altro uomo. Inoltre Hakkı, «così rispettoso verso la donna prima del matrimonio, ora era diventato un uomo che non considerava neppure sua moglie; aveva deciso da solo di entrare nella vita civile, da solo aveva deciso e imposto il modo in cui dovevano vivere»[33]. Questo stile di vita per Selma, sempre bisognosa di un impegno sociale, era monotono, insulso e alienato: doveva soltanto seguire il marito passando da un ricevimento all’altro, apparire bella, saper conversare e danzare come un’europea.
La salvezza di Selma e la sua vera redenzione sono affidate alla parte utopica del romanzo, in cui ella contrarrà il suo terzo matrimonio con Neşet Sabit, un giovane giornalista, un intellettuale, un nazionalista vero, che le ricorderà che «le donne turche hanno gettato via il çarşaf e i veli per facilitare la diretta partecipazione alla vita lavorativa. Per loro l’ingresso nella vita sociale non deve significare solo entrare nei salotti, ai ricevimenti. Sì, la donna turca ha voluto la propria libertà, ma non per ballare o per mettere lo smalto sulle unghie […] per diventare una marionetta abbellita, ma per poter svolgere il compito serio e faticoso che la aspetta nella costruzione e nel progresso della nuova Turchia»[34].
Selma e Neşet Sabi condividono gli stessi ideali, formano una coppia impegnata sino allo stremo delle forze per essere utile alla vita nazionale. La signora Selma non si trucca più, ormai non è più giovane, ma ha sempre l’amore del marito più giovane di lei.
Ankara, com’è stato già detto, è un romanzo utopico, che esprime il fallimento del sogno dei kemalisti più radicali.
5. Il corpo e la sessualità
I temi dell’amore e della sessualità entrano solo marginalmente nei romanzi del periodo kemalista e post kemalista, perché è stato dato più spazio ai temi politici, sia da parte degli scrittori sia da parte della critica. Nel romanzo Yaban (L’estraneo, 1932), di Karaosmanoğlu, è affrontato il processo della costruzione della nazione turca e il rapporto degli intellettuali con il popolo. Vi sono, tuttavia, dei contenuti che sono significativi per delineare le caratteristiche essenziali della sessualità maschile e della visione maschile della donna e dell’amore. Il romanzo descrive le vicende di un giovane, ex ufficiale ottomano, menomato di un braccio, che decide di passare il resto dei suoi giorni nel villaggio natio del suo attendente, in Anatolia. Non riesce ad inserirsi nella comunità dei contadini del villaggio, che lo percepiscono come un estraneo. Il primo accenno alla sessualità è fatto attraverso una scena di violenza carnale, scena brutale, animalesca, primordiale. C’è un gobbo che corre dietro ad una ragazza cieca. Lei cerca di sottrarsi, ma il gobbo arriva, la stringe tra le braccia e la rovescia nel letto asciutto del fiume[35].
Dopo questa descrizione, troviamo il protagonista innamorato di una ragazza del villaggio. Ma lui ha paura dell’amore, perché «se dovessi confessare a me stesso di essermi innamorato, farei una cosa ridicola. […] Invece di credere alle donne, ho sempre preferito tradirle. Perché non esiste al mondo nulla di più insopportabile della donna che sappia di essere amata. La natura della donna, già vile e perfida, in quel caso diventa quasi assassina. Si trasforma da gatta selvaggia in serpente, e via via comincia a nuotare in un mare di cattiveria tanto profondo, quanto infinito, inimmaginabile»[36].
In queste parole si concentra la visione maschile della femminilità, tipica della società turco-ottomana, fitne e sleale, intrigante e traditrice. L’attrazione e la seduzione esercitate dalla donna che il protagonista ama sono così descritte: «Intuivo, sotto le stoffe ruvide che l’avvolgevano, l’intera attrazione di un corpo giovane, senza difetti. Non si voltò indietro proprio in quel momento? Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata».
Emine, la ragazza amata dal protagonista, rifiuta l’offerta di matrimonio perché nel villaggio sono abituati da sempre a diffidare degli stranieri e accetta di diventare moglie di un contadino gobbo, İsmail. Il giovane continua a pensare ad Emine e non si dà pace del fatto che appartenga ad un altro. Ma ecco cosa sogna di fare se fosse riuscito a sposarla: «L’avrei prima di tutto lavata per bene. Poi avrei bruciato in questo fuoco tutti i suoi vestiti che guastano le linee del suo bel corpo. Per renderla come una ragazza alla moda di İstanbul? No, no…Avrei stretto in due larghe trecce i suoi lunghi capelli castani. Le avrei messo addosso una camicia col colletto aperto e con le maniche larghe e un paio di şalvar [pantaloni alla turca] stretti in vita con una lunga cintura. Le avrei vietato di parlare. Le avrei permesso solo di ridere spesso e di fare esclamazioni, a esprimere rabbia, testardaggine, femminilità. Avrei chiesto che fosse lei a cucinare i miei pasti, a servirmi. Avrei visto di buon occhio che mi aspettasse in piedi mentre io mangiavo o lavoravo o bevevo il mio caffè. Pur non indulgendo in baci, carezze ecc., che sono tipiche manifestazioni dell’amore alla francese, mi sarebbe piaciuto, ogni tanto, giocare con lei come si fa con un gatto di razza. Che differenza c’è tra lei e una gatta di razza? Non è forse vicina alla natura quanto una gatta? Non è forse maestosa e armonica come un felino? Non la si può considerare, come una gatta di razza, un ornamento vivo della natura? La mia Emine non è affatto più intelligente di una gatta di razza; che differenza c’è tra il suo modo di parlare e il miagolare dell’altra?»[37].
Queste parole non richiedono commenti.
Ricordiamo ancora un altro romanzo di questo periodo, Hıçkırık (Singhiozzo), pubblicato a puntate nel 1937. Il romanzo inizia con una scena nel cimitero, dove Kenan sta per ore vicino alla tomba dell’amata Nalan, morta di tisi, costretta a sposare un altro uomo, pur amando Kenan, suo lontano parente. La donna ha un legame strettissimo con il mondo domestico, che quasi la racchiude. L’uomo, invece è libero, dispone persino di postriboli controllati dallo Stato. Kenan, nel mondo interno, domestico, vive un amore platonico, impossibile, casto e morboso con Nalan, mentre all’esterno esperimenta i piaceri fisici con le meretrici. Nalan, invece, costretta a sposare un altro uomo, come unica via d’uscita può ammalarsi di tisi e, come atto d’estrema generosità, crescere una figlia destinandola a diventare moglie dell’amato Kenan[38]. In questa atmosfera incestuosa e masochista (oltretutto destinare una figlia ad essere moglie dell’amato è una grossa ingiustizia, in quanto si vuole riparare ad un torto facendone uno più grande e ricalcando quasi il comportamento dei propri genitori) è messa in evidenza la preoccupazione della società turca di tenere separate le due sfere emotiva e sessuale. L’emotività è relegata su un piano irraggiungibile, idealizzato, astratto, mentre la sessualità è organizzata e controllata dall’esterno, in modo sterile. Nel sistema ottomano, questa sterilità era organizzata intorno alla vita sessuale poligamica maschile che prevedeva mogli e schiave-concubine. Nel nuovo ordine, lo Stato la garantisce in modo ancor più incisivo attraverso i postriboli. L’amore resta un sentimento idealizzato, come un’espressione contigua al sentimento mistico, da viversi nel dolore e nel sacrificio, senza la possibilità che si materializzi nella realtà.
Continua, quindi, a prevalere nell’immaginario maschile la paura del femminile; le donne sono sinonimo di sessualità, ma il loro bisogno di legare a sé i mariti, di assicurarsi la loro complicità e gli strumenti usati a questo fine, le rende, agli occhi degli uomini, ancora più temibili. Innamorarsi di una donna diventa così, per l’uomo, sinonimo di perdita di controllo, significa rendersi schiavo di un essere per definizione inaffidabile e malvagio.
In questo contesto, la separazione delle sfere biologica, sessuale ed emotiva diventa una necessità. L’identità femminile legata alla riproduzione (la madre) gode d’un prestigio sociale e di un amore molto grandi. La fedeltà emotiva degli uomini è riservata soprattutto alle madri.
Il kemalismo «segnò un cambiamento notevole della condizione femminile e del rapporto tra uomini e donne, trasformando radicalmente la posizione delle donne nella sfera pubblica, sia di fronte agli uomini, sia di fronte alle istituzioni dello Stato. Tuttavia esso non riuscì ad incidere sulla fondamentale gerarchia tra i sessi e lasciò praticamente immutate le dinamiche di potere nelle relazioni più intime»[39].
Per spiegarci come mai continui la separazione della sfera emotiva da quella sessuale, dobbiamo dare molto peso alla religione islamica, che figura come la principale base della costruzione di genere. Così, malgrado tutti gli sforzi dei kemalisti per rendere visibili le donne, esse rimangono costrette a mantenere, nei livelli più intimi, la loro invisibilità. Pur togliendo il velo, le donne turche devono trovare altri modi per coprire la loro femminilità. Il kemalismo, pur avendo ridefinito in una cornice laica e nazionalista il rapporto tra i due sessi, aveva di fatto permesso e incoraggiato la continuità delle principali dinamiche del sistema patriarcale, anche se in forma paternalistica, nel privato e nel pubblico.
6. La famiglia dal punto di vista dei figli
Dopo il 1950, la famiglia, da sempre centrale fra i temi affrontati dalla letteratura turca, comincia ad essere indagata dal punto di vista dei figli. I cambiamenti avvenuti nella struttura familiare in seguito alle riforme legali, ai movimenti provocati dal processo d’industrializzazione e d’urbanizzazione, hanno reso manifesta una forte conflittualità generazionale.
Negli anni Sessanta e Settanta si forma anche un corpus di letteratura scientifica, ulteriormente arricchita negli anni Ottanta, che indaga i tempi e le modalità della trasformazione della struttura familiare turca. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la famiglia sia diventata nucleare, ma ciò non porta all’individualizzazione, anzi le relazioni familiari conservano la loro importanza e, soprattutto, la loro interdipendenza, anche in senso economico. Naturalmente vi sono differenze tra le famiglie in base alla loro classe sociale e al loro livello economico e culturale. Generalmente, le famiglie urbanizzate da più generazioni, con un livello d’istruzione medio-alto, i cui membri svolgono professioni moderne e redditizie, mantengono rapporti più paritari e interessi comuni tra la coppia di sposi. Pertanto, i membri della famiglia godono di maggiori libertà. Tuttavia, da alcune ricerche, emerge che in queste famiglie continua a prevalere l’interazione sociale di due mondi separati: anche all’interno della rete familiare, si stabiliscono più facilmente rapporti con persone dello stesso sesso. Nelle famiglie più tradizionali si riscontra che l’autorità del padre e dei figli maschi sui membri femminili della famiglia è più incisiva.
In tre romanzi fortemente autobiografici, Baba evi (La casa del babbo, 1949), Avare yıllar (Anni di sbando, 1950) e Eskici ve oğulları (Il rigattiere e i suoi figli,1962), Orhan Kemal tratta le imperfette trasformazioni della famiglia patriarcale turca. L’autore è figlio di un ricco e influente avvocato, nonché deputato, che per contrasti politici con il regime è mandato al confino in Siria dove, in condizioni di miseria, dovrà intraprendere una dura battaglia per la propria sopravvivenza. Orhan Kemal descrive suo padre, in Baba evi, come una figura violenta, autoritaria e spiega la propria fuga dalla Siria, dove lascia il padre e la famiglia nella miseria, per andare ad Adana, dove lavorerà nei campi raccogliendo il cotone, farà l’operaio nelle fabbriche, con l’irresistibile bisogno di affrancarsi dalla figura paterna[40]. Fra i tre romanzi vi è una sostanziale continuità dal punto di vista del tema, dei personaggi e delle situazioni. Sia in Baba evi che in Eskici ve oğulları ritroviamo una forma di conflitto che affiora in forme esplicite: ambedue i padri sono apertamente contestati da uno dei due figli dal carattere ribelle, che non accetta di adeguarsi al destino per lui tracciato dalla figura paterna. Ed è questo a rendere particolarmente violenta l’autorità paterna; una frustrazione che si esprime in una continua aggressione verbale e fisica. In Baba evi il primo ricordo del bambino riguarda l’esame quotidiano che subisce la sera dal padre nella piccola stanza dove è tenuto rinchiuso tutto il giorno perché studi: «Mette il suo dito grosso e peloso all’inizio della riga che vuole che io legga. Ma…nella mia mente non vi è più traccia di tutto ciò che durante il giorno la zia mi ha fatto imparare a memoria. Solo quel dito grosso e peloso…all’inizio della riga…i miei occhi puntati sui pori alle radici dei peli del dito… “Perché non leggi?” Con quel tono inizia un prurito sulla mia schiena… Poi, improvvisamente, uno schiaffo, un calcio che mi scaraventa a terra. Mentre mia nonna mi raccoglie da terra per portarmi al piano di sopra, lui scalpita pazzo di rabbia: “Figlio di un uomo come me…”»[41].
In questa relazione l’unico desiderio del figlio è fuggire dal padre. Questo sentimento è ancor meglio rappresentato in Eskici ve oğulları. Il rigattiere è presentato come figlio di un ricco proprietario terriero, cresciuto sotto la forte autorità paterna, ma trattato come un piccolo principe. Arrivato alla maturità, egli non vuole chiedere l’eredità paterna e si mette a lavorare come fabbro. Va in guerra, perde una gamba e al ritorno, non potendo più esercitare il suo mestiere con una gamba di legno, apre un negozio di rigattiere dove lavora insieme ai due figli, uno ancora celibe, l’altro sposato con due figli. Egli tiene in mano l’intera proprietà del negozio e anche l’intera facoltà di decidere sul destino economico delle due famiglie. È un uomo moralmente integro, ma amareggiato, burbero, odioso e intollerante. Maltratta i figli e tutta la famiglia con la convinzione che l’autorità paterna debba essere accettata, in qualsiasi modo si esprima. Il figlio minore, che vive con lui insieme alla madre e alla sorellina, racconta al fratello maggiore uno degli episodi della violenza paterna: «Lei era seduta, con un lavoretto in mano, un lavoro da donna, ricamava. Lui ha chiesto: “Cosa è quello, ragazza?” Mia sorella ha risposto “Un lavoro”. Ha insistito “Che lavoro?” “Un lavoro”. Allora ha cominciato a urlare come un toro: “Ti chiedo, che lavoro?” E la sorella: “Un ricamo per un vassoio”. A quel punto, lui non ci ha più visto, ha cominciato a urlare a perdifiato: “A quali ospiti pensate di offrire il caffè, che vi mettete a ricamare per un vassoio? Io non voglio ospiti. […] Ma la mamma non ha potuto contenersi, ha detto: “Cosa vuoi, ho trovato sotto il baule un vecchio pezzo di stoffa e un po’ di filo da ricamo, non sono stati comprati nuovi. Chi ti sente penserà chissà cosa”. Ecco, povera donna, ha detto solo questo. E lui ha cominciato col dire che era una puttana, che era una traditrice; poi con rabbia si è mosso verso la vecchia, stava per colpirla quando io mi sono messo in mezzo. Allora si è voltato verso di me […]; un’incredibile abiezione… ha finito col chiamarmi “frocio”. […] “Allora ho perso la testa e gli ho preso il polso”. Il figlio maggiore interviene con terrore: “Ohimè, che roba è questa, Ali? Il padre contro il figlio, il figlio contro il padre…»[42].
In seguito a questo episodio i due figli vanno a lavorare nei campi di raccolta di cotone, abbandonando così la casa paterna. Tuttavia il padre pensa che un figlio non si dovrebbe mai ribellare al proprio padre anche se crede che abbia torto. Contro il padre «non si alza la mano, assolutamente mai, finanche se oltre a picchiare la moglie volesse tagliarla a pezzi. Il marito è il Dio minore della donna; può farle tutto ciò che vuole»[43].
Come a voler dare ragione al padre, i due figli, già macerati dai sensi di colpa per aver abbandonato la casa paterna e causato la disgregazione della famiglia, accettano con gioia la sua decisione di raggiungerli nei campi per raccogliere cotone insieme e guadagnare così il denaro sufficiente a costruire una casa per l’intera famiglia. Il desiderio di tenere unita la famiglia prevale su quello di liberarsi dell’autorità paterna.
7. Modelli d’identità nella società turca degli anni Ottanta
L’incapacità delle formazioni politiche di interpretare e di canalizzare il cambiamento nelle sue ricche sfaccettature e l’estesa violenza politica degli anni Settanta si associarono, verso la fine del decennio, ad una profonda crisi economica. I redditi concessi dagli USA e dal Fondo Monetario Internazionale per soccorrere l’economia turca furono condizionati dall’obbligo di attuare una nuova politica economica e monetaria che prevedeva la restrizione della crescita industriale, l’incoraggiamento delle politiche volte all’esportazione, la svalutazione della lira, la completa liberalizzazione del mercato e la sua incentivazione attraverso la creazione di nuovi bisogni[44].
La necessità di mutare radicalmente la struttura economica comportò un nuovo intervento militare. I militari volevano pacificare la società, ma lo fecero attraverso una brutale repressione, in cui tutti i partiti politici furono messi al bando e fu impedito ai loro leader di intervenire attivamente nella vita politica del paese. I militanti, sia di destra sia di sinistra, subirono varie persecuzioni e condanne (anche se alcune statistiche del settembre 1981 dimostrano che solo uno su sei arrestati era di destra).
Fu compilata una serie di parole che potevano avere un richiamo politico e il loro uso fu vietato alla stampa, alla radio e alla televisione[45]. Così negli anni Ottanta la Turchia inaugurava un nuovo regime, che a livello economico introduceva un liberalismo selvaggio e, nello stesso tempo, creava un corpo sociale apolitico, tenuto sotto un rigido controllo, culturalmente condizionato dalle esigenze del mercato. Le famiglie turche erano spinte al consumismo; i singoli individui si ritrovarono indifesi di fronte ad un sistema economico che imponeva le sue regole.
Si diffondevano gli aspetti più deleteri della modernizzazione, il benessere aumentava, ma rimanevano irrisolti i problemi d’identità culturale, sociale e personale. La manifestazione più forte in questa nuova fase del processo era la preminenza acquisita dei mass media, che diventavano il luogo di elaborazione delle nuove norme culturali. Il singolo, come consumatore, diventava per la prima volta oggetto d’interesse. Cominciarono ad essere sviscerate le vite private dei singoli, uomini e donne, con toni da pettegolezzo e ostentazione. Questo non portò, tuttavia, ad una soluzione dei problemi, ma ogni forma d’identità (omosessualità, travestitismo, bisessualità) fu sfruttata in quanto portatrice di bisogni differenti e inglobata in una strategia di consumo.
Si è assistito, in questo periodo, ad un massiccio esodo dalle campagne verso i centri urbani. Nelle campagne la modernizzazione dell’agricoltura, con i crediti concessi alla Turchia nell’ambito del Piano Marshall, aveva lasciato tanti contadini senza lavoro. Nelle città erano avviati molti lavori pubblici, che offrivano possibilità di impiego. Ma «gli immigrati erano elementi non desiderati dell’economia urbana, erano senza educazione, non avevano qualifiche precise, senza esperienza dell’economia e della vita sociale urbane […] persino i lavori marginali erano scarsi. Gli immigrati stazionavano nei caffè, negli informali “mercati di lavoro”, nati sui marciapiedi o alle fermate di autobus, aspettavano un lavoro»[46].
Fino al 1950, l’82% della popolazione turca viveva nei villaggi mentre nel 1990 gli abitanti delle zone urbane erano il 59% della popolazione. Il fenomeno, definito da alcuni studiosi come falsa urbanizzazione, comune a molti paesi in via di sviluppo, creava intorno ai centri urbani cinture d’emarginazione. Gli immigrati costruivano delle abitazioni, chiamate gecekondu, case d’una o due stanze, costruite nel giro di una notte nei pressi delle città, senza alcuna autorizzazione. Erano fatte con materiali di fortuna e con tecniche primitive, avevano i loro orticelli e i pollai, erano insomma tipiche dei due mondi, della modernità e della tradizione. Gli abitanti dei gecekondu erano venditori ambulanti, lustrascarpe, autisti di taxi, di camion, camerieri ecc., classici lavori marginali nell’industria dei servizi dell’area urbana. La politica dello Stato all’inizio fu di dura resistenza, ma alla fine dovette cedere e offrire i servizi essenziali a queste abitazioni.
Latife Tekin (nata nel 1957) è, probabilmente, la più importante scrittrice ad essersi occupata nei suoi romanzi del problema dell’emigrazione e della marginalità. Nel romanzo a carattere autobiografico Sevgili arsız ölüm (Cara spudorata morte, 1983), Latife Tekin introduceva nuove prospettive per esplorare la questione dell’identità individuale e sociale e il significato dell’essere donna o uomo nelle attuali condizioni della società turca. Nei lavori di Latife Tekin i poveri condividono una condizione psico-antropologica collettiva, che comporta un particolare sapere sulla vita. Le donne sono le maggiori depositarie di questo sapere primordiale, che si esprime con una capacità d’adattamento maggiore.
I baraccati, nonostante siano poveri, si lasciano contagiare dal consumismo e dalla pubblicità: essi si sentono urbanizzati attraverso il possesso di oggetti. Le identità a volte si esprimono attraverso i beni di consumo. In Buzdan kılıçlar (Le spade di ghiaccio, 1989), il protagonista, Halilhan, trova il senso della sua nuova identità nel possesso di una vecchia Volvo. Halilhan, per mantenere la sua Volvo e la dignità che crede di aver acquisito con il suo possesso, è capace di imbrogliare i propri fratelli e di lasciare moglie e figli a patire la fame. Guardare il mondo attraverso miseri oggetti comporta una nuova condizione di crescente povertà umana e culturale, ben più grave di quella precedente di indigenza materiale.
In questi anni molto importanti per la ridefinizione delle identità, è ripreso nei romanzi il problema della definizione di genere. Si continua a dare la testimonianza di una memoria di genere, che fatica ad introiettare una condizione d’emancipazione e di parità raggiunte sul piano formale, e a tradurla in vissuto soggettivo, in immagine di sé interiorizzata.
Nei primi anni Ottanta una giovane scrittrice, Duygu Asena, pubblicava un romanzo con molte sfumature autobiografiche: Kadının adı yok (La donna non ha nome). Il libro, diventato il primo manifesto del femminismo in Turchia, pur creando ampio scandalo, ebbe un vasto pubblico di lettrici, soprattutto tra le donne urbanizzate: nel 1987 il libro era arrivato all’ottava edizione; nel 1988 diventava un film.
Asena poneva l’accento sull’inefficacia del progetto di emancipazione femminile attuato dal kemalismo e indagava il significato di essere donna nella società turca modernizzata degli anni Ottanta, con una massiccia presenza femminile nelle professioni più avanzate e redditizie, e denunciava come la denominazione e la rappresentazione di sé della donna derivino dall’uomo[47].
Il romanzo descrive l’emancipazione di una donna professionista, il suo tentativo di darsi un nome attraverso l’acquisizione di una posizione nella società degli uomini. Battaglia, questa, che richiede alla protagonista, per poter esistere in un mondo dominato dai valori maschili, di aderire a questi stessi valori: la rigidità, la competizione, la determinazione per vincere. Ma deve anche passare attraverso una serie di prove che riguardano direttamente la propria femminilità. La protagonista, cresciuta con il timore paterno, deve infrangere una serie di tabù, fondamentali nella costruzione del genere femminile, per esempio quello della verginità. Vive difficili e umilianti relazioni prematrimoniali, nel matrimonio approda a nuove infelicità, affronta esperienze di aborto e di tradimento. Una donna, pur accettando il peso della vergogna e del dolore provocati dalla rottura d’importanti tabù sessuali che la emarginano all’interno della società, pur aderendo ai valori maschili vincenti nell’arena pubblica, pur acquisendo una posizione di potere, non raggiungerà mai la totale parità col sesso dominante. La sua sarà sempre una posizione marginale, ancor più marginalizzata dalla solitudine per aver trasgredito le norme che regolano la vita del proprio genere.
Il racconto breve Taşralı (La provinciale, 1968) di Füruzan, tratta di un’anziana vedova la cui identità sociale deriva dal matrimonio con un uomo importante: un paşa. Ella vive con la sua domestica in una vecchia casa, tenuta con un ossessivo senso dell’ordine, quasi con una devozione ai rituali di pulizia e di servizio. L’ordine domestico e la scrupolosa dedizione ad esso fanno parte della sua identità di donna, costituiscono una sorta di vademecum per la femminilità. Quando arriva in questa casa la nipote povera, cresciuta in provincia, per continuare i suoi studi all’università con l’aiuto dell’anziana zia, la preoccupazione primaria di questa sarà quella di introdurla nei rituali domestici: «Che senso ha studiare quando alla fine dovrai sposarti e ti ritroverai a governare la tua casa?»[48].
L’anziana zia è la guardiana di un ordine sociale nel quale il ruolo della donna è quello di tenere il proprio temperamento e l’ambiente sotto controllo. L’industriosità femminile è volta a garantire la dignità dello spazio domestico e, attraverso questa, la propria dignità.
In un altro racconto breve ritroviamo la stessa tematica dell’ordine come dovere della donna. In Sessizlik (Il silenzio, 1980)[49] una scrittrice deve finire il suo secondo libro in casa, utilizzando il tavolo da pranzo. Lei e il marito hanno due bambini piccoli, ma la loro cura ricade solo sulla donna. L’appartamento è in disordine, il marito non trova il pigiama, le pantofole, lo spazzolino. Lei è tutta concentrata sulla creazione del romanzo e da qualche giorno non è sessualmente disponibile alle richieste del marito. La colpa della dissoluzione della famiglia ricade esclusivamente su lei, perché, rifiutandosi di svolgere le proprie mansioni e pretendendo una risposta circa i reciproci bisogni di spazio, deve accettare di vivere nel proprio disordine e silenzio. La casa deve essere un luogo d’ordine e di pulizia, non di intimità e pienezza emotiva.
La letteratura ci ha fornito esempi illuminanti di come nella società turca ci fossero enormi difficoltà di definire le relazioni di genere, sia all’interno dei due sessi, sia tra uomini e donne. Le strutture antropologiche su cui poggia la distinzione dei due sessi continuano a resistere con tutta la loro forza, mantenendo invariati i rapporti tra esterno e interno.
La difficoltà, ha affermato il sociologo Bourdieu, consiste nello scardinare tali strutture, partendo da un linguaggio e da un comportamento sociale, che purtroppo riflettono entrambi il pensiero maschile dominante[50].
Conclusione
[1] I nomi degli autori arabi e delle loro opere sono stati traslitterati dalla lingua araba.
[2] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura araba contemporanea, Carocci, Roma, 1988, p. 44.
[3] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 47.
[4] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 178.
[5] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…,. cit., p. 180.
[6] Vedere la nota n. 100 di CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 184.
[7] Vedere la nota n. 124 di CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 192.
[8] Cfr. CANOVA G., Due poetesse: “Fadwà Tūqān e Salmà ‘l-Hadrā’ al-Ğayyūsī”, in «OM», LIII, 1973, pp. 876-94.
[9] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 194.
[10] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 194.
[11] CAMERA D’AFFLITTO Isabella, Letteratura…, cit., p. 211.
[12] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 45.
[13] ADIVAR Halide Edip, The Memoirs of Halide Edip, in SARAÇGİL Ayşe, op. cit., p. 45.
[14] ADIVAR Halide Edip, Sinekli bakkal, İstanbul, 1936. La seconda edizione: İstanbul, 1972, pp. 29-30.
[15] ŞINASI İ., Şair evlenmesi, İstanbul, 1877. La riedizione in turco moderno è a cura di KUDRET C., İstanbul, 1959.
[16] MITHAT A., Paris’te bir Türk, İstanbul, 1876, p. 160, in SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 74.
[17] ADIVAR Halide Edip, Sinekli bakkal, cit.
[18] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., pp. 75-76.
[19] SAMI Şemseddin, Kadınlar, (traduzione: Le donne), in SARAÇGİl Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 77.
[20] MITHAT A., Acaib-i alem, İstanbul, 1881-1882, pp. 109-110.
[21] Cfr. SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 141.
[22] BRUMMETT P., Dressing for Revolution: Mother, Nation, Citizen and Subversive in the Ottoman Satirical Press, 1908-1911, in ARAT Zehra F., (a cura di), Deconstructing Images of the Turkish Women, London, 1998.
[23] ADIVAR Halide Edip, Vurun Kahpeye, İstanbul, 1983 (prima ed. 1923).
[24] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 158.
[25] L’Italia, pur partecipando ai piani di spartizione dell’Impero ottomano insieme con gli Alleati, tenne una posizione conciliante verso i nazionalisti turchi per le preoccupazioni che nutriva specialmente a causa dell’appoggio di Lloyd Gorge ai Greci. Infatti l’alto commissario italiano a İstanbul, il conte Sforza, aveva offerto a Mustafa Kemal la protezione della propria ambasciata. Su questo argomento vedere VOLKAN V. D., ITZKOWITZ, The immortal Atatürk, A Psychobiography, Chicago-London, 1984.
[26] Cfr. la nota numero 59 di SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 181.
[27] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit. p. 187.
[28] AĞAOĞLU A., Ölmeye yatmak, Ankara, 1982 (prima ed.1973), pp. 9-10.
[29] AĞAOĞLU Adalet, Ölmeye yatmak, cit., p. 105.
[30] GÜNTEKİN R. N., Çalikuşu, İstanbul, 1922. La riedizione in turco moderno: İstanbul, 1964, p. 70, in SARAÇGİL Ayşe, op. cit., p. 197.
[31] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 207.
[32] GÜNTEKIN R. N., Yaprak dökümü, İstanbul, 1930.
[33] KARAOSMANOĞLU Y. K., Ankara,a cura di A. Özkırımlı, Ankara, 1991 (prima edizione 1934), İstanbul, 1991, p. 98.
[34] KARAOSMANOĞLU Y. K., Ankara, cit., p. 147.
[35] KARAOSMANOĞLU Y. K., Yaban, İstanbul, 1993. (Trad. it. di A. Scalera, Terra matrigna, A. Mondadori, Milano, 1941).
[36] Cfr. SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 214.
[37] Vedere la nota n. 40 di SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., pp. 215-216.
[38] NADIR Kerime, Hıçkırık, Ankara, 1938, in SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 222.
[39] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 224.
[40] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 260.
[41] KEMAL Orhan, La casa del babbo (trad. it. dal turco di Paolo Cerulli), Istituto per l’Oriente, Roma 1969.
[42] KEMAL Orhan, Eskici ve oğulları, İstanbul, 1962. La riedizione ha il titolo Eskici dukkanı, İstanbul, 1975, pp. 85-86.
[43] Idem, p. 82.
[44] DODD C. H., The crisis of Turkish Democracy, Huntingdon, Cambridge, 1983.
[45] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 288.
[46] ŞENYAPILI T., Economic Change and the Gececondu Family, in KIRAY M. (a cura di), Structural change in Turkish Society, Bloomington, Indiana, 1991, p. 239.
[47] SARAÇGİL Ayşe, Il maschio camaleonte, cit., p. 315.
[48] FÜRUZAN, Taşralı, in stesso Autore, Parasız yatılı, İstanbul, 1982 (prima edizione 1971), p. 29.
[49] KARABEY Zeynep Avcı, Sessizlik, in stesso Autore, Kötü bir yaratık, İstanbul, 1983, pp. 39-42.
[50] Cfr. BOURDIEU Pierre, Il dominio maschile, cit.