Il risveglio del civile

Dalle virtù civiche alle relazioni solidali

 

 

A cura di Paolo Coluccia (paconet@libero.it)

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

 

Le riflessioni e le note che seguono scaturiscono dagli appunti presi durante la lettura del libro di L. Bruni/S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, (Il Mulino, Bologna 2003). Non c’è pretesa di scientificità, ma il nostro testo vuole essere uno strumento minimale di conoscenza e un invito alla lettura integrale del libro, per una conseguente e ulteriore riflessione ed approfondimento personale  degli argomenti in esso trattati. Quindi, una  recensione, un saggio-recensione che confluirà, con cadenza mensile a partire da gennaio 2007, in una raccolta annuale intitolata Quaderni di lettura, Edizioni Lilliput-on-line (http://digilander.libero.it/paolocoluccia). 

 

1. Il libro in questione ci presenta immediatamente una situazione incresciosa e difficile del nostro tempo: la società civile è in difficoltà e l’attività economica è al palo! La teoria sociale annaspa nella ricerca di nuovi paradigmi interpretativi e la teoria economica persiste in un’unica visione paradigmatica dell’ordine (o del disordine?) economico. Stato e mercato: la prassi economica o è privata o è pubblica. Contratti e leggi sono “gli strumenti basilari con cui si manterebbe l’ordine sociale” (p. 8). Questo, oggi, non basta più! Pregiudizi e chiusure equivocano sul concetto di società civile e di economia civile. Purtroppo, la questione non facilita un possibile percorso che sia “in grado di offrire una via d’uscita alternativa sia a quella dello statuto neoliberale, sia a quella dello statuto neostatalista” (p. 15). C’è per gli Autori la necessità di tre modelli socio-economici: scambio di mercato tra equivalenti (mercato), redistribuzione pubblica della ricchezza (stato), relazioni di prossimità e di reciprocità generalizzata (dono). Questi, tutti insieme, potrebbero contribuire al consolidamento del nesso sociale (legame sociale), raggiungendo al contempo efficienza ed equità.

Si tratterebbe, in sostanza, di riscoprire l’originalità del pensiero di Karl Polanyi, a lungo dimenticato o ignorato. In realtà, si sono visti fino ad oggi, pur tra tiepide eccezioni, interagire soltanto due principi di correzione delle disparità e delle ingiustizie socio-economiche: uno stato benevolo o un capitalismo filantropico. Ma benevolenza e filantropia, assistenza e regalo non introducono né possono rappresentare la “filosofia del dono”, che si estrinseca nel triplice comportamento del dare-ricevere-ricambiare, ovvero nella sfera della reciprocità generalizzata. “La sfida dell’economia civile è quella di ricercare i modi – che certamente esistono – di far coesistere tutti e tre i principi regolativi di cui si è detto” (p. 23).

Coesistere sembra essere la parola giusta, un concetto che presuppone il co-essere, lo stare insieme. Infatti, tra stato e individuo c’è la società civile, una terra di mezzo, uno spazio intermedio, indefinito ed indefinibile, espressione tipica della visione sociale occidentale, mai però pienamente compresa e definita, che affonda le sue radici nella polis greca, nella politeia aristotelica, nella civitas romana. La società civile è fatta di persone che agiscono, di gruppi e di organizzazioni, associazioni e consorzi; e questi, tutti insieme, contribuiscono all’agire sociale, dando vita alla costruzione della realtà sociale nel suo insieme, stato e mercato compresi. L’economia civile, che poggia le basi sulla civiltà del lavoro sociale (concetto che va ben oltre l’occupazione e l’impiego), si esplica nella società civile.

 

2. Il concetto socio-economico di civile ha attraversato momenti di fortuna e di sfortuna nel corso della storia. Nel periodo pre-industriale l’economia civile raggiunse il suo massimo storico con l’umanesimo. Poi questa costruzione utopica del sistema socio-economico cominciò a declinare. S’interruppe poi per il sopraggiungere di una forma estrema d’individualismo classista che frazionò la società e slegò gli individui. Il rigoglio e la vitalità dei Comuni si spense nell’oppressione delle Signorie. L’organizzazione comunitaria della vita sociale ed economica trovò posto nelle utopie filosofico-letterarie (More, Campanella ecc.). Si può interpretarle come una reazione isolata a questo periodo d’involuzione sociale, ma restano disegni letterari di singoli intellettuali o costruzioni ideali di filosofi incantati da sogni e desideri di comunità felici. In politica prende forza il potere del Principe, mentre nella società è la stirpe, la nobiltà quello che conta. I mercanti e gli artigiani, che erano stati così attivi nei comuni e nei commerci, perdono potere, vengono relegati al rischio del commercio in terre lontane, perdono potere politico di gestione della cosa pubblica, della res publica. “Tra l’umanesimo civile e la modernità si interpose quindi una frattura” (p. 58). L’individuo machiavellico o hobbesiano non è un essere umano civile, bensì è malvagio, incivile, scaltro, e deve essere dominato e sottomesso, perché il suo egoismo nuoce alla ragione politica, allo stato. “Sarà contro questa deriva ineguale, illiberale ed incivile che l’illuminismo reagirà con grande forza, e non contro la reciprocità dell’umanesimo, che anzi verrà tradotta dalla rivoluzione francese con fratenità” (p. 58).

Il processo individualistico estremo è un progetto della pre-modernità che transita con prepotenza nella modernità. L’uomo vive nella società, ma vi è costretto, perché la sua individualità egoistica non lo farebbe vivere da nessun’altra parte. Egli è buono solo nello stato di natura, poi penserà la società a corromperlo e a renderlo cattivo. È l’amaro responso di Rousseau. Ma non è causale l’ossimoro espresso dalla formula insocievole-socievolezza coniata da Kant. “La Politica e il mercato-solo-mercato sono diventati i principali strumenti per disegnare società senza il rischio della reciprocità. Il Principe e l’imprenditore moderno possono così non avere più bisogno del dono dell’altro” (p. 60).

 

3. Siamo nella lunga notte del civile! Come si è detto, “la speranza civile dei primi umanisti produsse non repubbliche civili ma le signorie, che diedero vita a continue guerre che trasformarono l’Italia dei comuni in terra di continue scorribande di eserciti stranieri, gettando la popolazione in un clima di grande paura e malessere. I filosofi si rifugiarono nel neoplatonismo, nell’esoterismo magico o nella letteratura utopica; Machiavelli fondò la politica come ambito autonomo, e su basi antropologiche nuove” (pp. 60-61). La virtù politica si contrappose alla virtù civile. Il radicalismo antropologico machiavellico porta a spiegare gli uomini come animali incivili, che hanno in comune soltanto il conflitto, la lotta, la sopraffazione e la conquista del potere. Nasce da questo la teoria politica dell’homo homini lupus di Hobbes, che porta alla visione di una società non più retta da virtù civiche ed associative, ma di una società-stato espressione di un atto di resa e di designazione del Leviatano per la gestione del vivere sociale.

Si rinuncia al civile per salvare il pubblico e nel Seicento risulta ormai chiara “la contrapposizione tra pubblico e privato” (p. 64). Poi, sulla scorta della Favola delle api (1714) di Mandeville, in cui si sostiene la tesi dei “vizi privati, pubblici benefici”, gli economisti intercettano il processo d’individualizzazione estrema che in tre secoli riformerà radicalmente l’etica economica e la vita sociale, passando da un’ottica comunitario/olistica ad un’altra individualistico/metodologica.

L’economia, che i primi economisti scozzesi, francesi ed italiani intesero come una “rifondazione dell’antropologia e quindi dell’etica”, che “fornisse nuove buone ragioni al civile e alla socialità anche all’interno dell’economico”, nacque per contrastare moralmente il processo individualistico in corso a livello sociale e politico, anche se alla fine non ha resistito all’impatto complesso del moderno, del capitale e dell’autoritarismo. Non è quindi vero che l’economia è nata per liberarsi (emancipandosi) dai vincoli etici, ma “essa nasce piuttosto sul tentativo di rifondazione di una nuova etica” (p. 66).

 

4. Economia civile è un’espressione usata dal Genovesi, economia come luogo di civiltà, del ben vivere di persone e popoli: commerciare, interessi, fiducia, incivilimento, reciprocità, felicità. I primi economisti dell’economia moderna “mostrarono che la società civile è proprio quell’insieme di azioni, di regole e di istituzioni che fa si che la natura ambivalente dell’essere umano, la sua insocievole-socievolezza, possa essere orientata al bene comune” (p. 66). Se l’uomo è naturalmente portato verso il suo interesse personale, questo, messo insieme con l’interesse di tutti gli altri uomini può rappresentare un interesse pubblico. “La ‘pubblica felicità’ come risposta alla notte del civile”(p. 67), dunque. “L’economista civile, quindi, non vuole insegnare alle persone l’arte di esser felici, ma indica al governante o al politico le pre-condizioni da assicurare per far sì che ciascuno possa gioire come persona” (p. 68). In particolare saranno le scuole economiche italiane a far trasparire come elemento peculiare l’idea di felicità, che non potrà che fondarsi sulle categorie della relazionalità e del pubblico (Verri). 

La scuola napoletana e quella milanese metteranno soprattutto in evidenza “il valore della persona situata al centro della società e dell’economia”(p. 88), Infatti: “È la persona che con la sua creatività e con la sua intelligenza entra in rapporto con gli altri e con le cose, e così conferisce valore, anche economico, ai beni” (p. 88). Purtroppo la tradizione economica civile italiana subì una fine ingloriosa, perché cadde sotto il peso culturale di Francesco Ferrara, il quale “indicò la Francia e l’Inghilterra come patrie della scienza economica, e considerò i nostri classici come autori minori” (p. 89). Saranno alcuni economisti come Einaudi e Luzzatti, quest’ultimo vicinissimo al movimento cooperativo, a riprendere i temi dell’economia civile, che oggi stanno ritornando con forza ed originalità nel discorso legato alle politiche sociali e allo sviluppo socio-economico, ponendo il primato della categoria del civile nell’economico e non il contrario, contrario perseguito da tanti autori del cosiddetto pensiero unico premettono all’economicismo post-industriale.

Ma, ad un’attenta lettura ed interpretazione, anche il pensiero economico classico, e in particolare quello di Adam Smith, fa risaltare, secondo gli Autori, un profondo senso etico e socio-economico. “Sempre più oggi si va prendendo coscienza che il padre dell’economia moderna è molto più vicino agli umanisti civili che ai neoclassici” (p. 97). La simpathy in Smith è una categoria antropologica, culturale, che l’uomo esprime pienamente nell’azione sociale, ma che gli appartiene intrinsecamente. “La persona umana dipinta da Smith è quindi una realtà relazionale prima ancora che altruista o egoista” (p. 96). Per Smith, come per Genovesi, il mercato è “un momento importante della vita civile, che edifica e non distrugge le virtù civili” (p. 97). E la reciprocità è una categoria centrale nella teoria morale, economica e sociale di Smith. Purtroppo, “gli eredi di Smith, figli e nipoti, ereditarono la componente meno civile del suo pensiero, costruendo la political economy come il regno dei soli rapporti strumentali” (p. 99).

L’utilitarismo disegna una società d’individui, non di persone, un insieme di uomini economici che progrediscono in virtù dei propri profitti, al contrario di una società di persone che agiscono, lavorano e si emancipano per il raggiungimento del bene comune. L’uomo economico ha soppiantato negli ultimi due secoli l’uomo sociologico, che è fondamentalmente un homo reciprocans. Spesso anche la sociologia ha dato una mano a questo processo degenerativo, disciplina oggi peraltro in crisi, visto che la giustificazione metrico-empirica di certi processi industriali segnano assai il passo, lasciando in eredità un’ampia e desolante distesa di ammassi industriali arrugginiti ed obsoleti. Perciò la stessa, dopo un lungo periodo di giustificazioni atarrassiache o presunte oggettive, comincia a volgere lo spazio d’indagine verso nuovi orizzonti, complessificando il discorso e la stessa teoria sociale, differenziando e moltiplicando premesse e paradigmi, arrivando a conclusioni che intenzionano il senso, le coscienze e i percorsi d’analisi. L’uomo economicistico è un isolato, un “solipsista, e dunque infelice” (p. 151). L’uomo-persona è invece coessere, agisce insieme con gli altri, tra gli altri: è, in senso ontologico, una relazione con l’altro.

 

5. Il disagio del nostro tempo è la mancanza di occupazione, la perdita di un impiego. Keynes avrebbe giudicato scandalosa la disoccupazione di milioni di persone in società ricche. Ma lo scandalo che tale questione provoca, oltre l’ineguaglianza e l’esclusione, sta nel fatto che si poggia su presupposti inverosimili e disgreganti. “Quel che è peggio è che la disoccupazione pare sia diventata lo strumento per la prosperità economica: chi licenzia non è tanto l’impresa in crisi, ma quella in salute che vuole dilatare il proprio margine di competitività. È proprio questo che crea il problema: la disoccupazione non più come sintomo o effetto di una situazione di crisi, ma come strategia per competere con successo nell’epoca della globalizzazione”(p. 155). Spesso, questo si chiama eufemisticamente razionalizzazione dei processi produttivi, ottimizzazione delle risorse umane: ma è e rimane un fatto semplicemente immorale, indecente ed inaccettabile per una società moderna.

Il nuovo welfare, la welfare society, non può che rivolgersi agli esclusi, partendo “dal processo lavorativo; dall’istruzione; dalla partecipazione alla vita associata e così via. Non sarebbe infatti in linea con l’esigenza di rispettare la dignità della persona umana limitarsi ad assicurare il diritto di vivere. Quel che si tratta di assicurarle è piuttosto il diritto delle persone a vivere in società”(p. 156). Questo non può essere inteso come semplice ed automatica emanazione delle stato. È dalla società civile e dal civismo individuale e collettivo che questo processo deve emergere. Lo stato deve dare il suo contributo, come pure il mercato, direttamente ed indirettamente. Ma sarà compito delle persone che agiscono nella società generare coesione e benessere, mettere in campo politiche sociali che prefigurino pace sociale, prosperità ed inclusione. Proprio nella sfera della società civica potrà generarsi il passaggio dall’homo oeconomicus all’homo reciprocans, perché ormai sembra chiaro che “l’approccio individualista in economia è insoddisfacente” (p. 160).

 

6. Un mercato ed un’economia umanizzati, dunque. Gli attuali processi economici e mercantili sono diventati macchine perfette di soddisfazione e di acquisizione di beni materiali. Però la gente non sembra essere felice, vista la presenza quasi generalizzata di forme depressive legate a psicopatologie che sembrano dilagare e diventare irreversibili. Si vive in una società di consumi, dove si consumano soprattutto beni inutili, illusori, materiali ed improduttivi. Per star bene la gente ha bisogno di altro, ha bisogno di stare bene con gli altri. Ascoltare un brano musicale, leggere un libro, fare un progetto sono tutte cose che vengono meglio se fatte insieme con qualcun altro. Nessuno ci obbliga a farlo, ma sentiamo che l’altro è qualcuno che può rappresentare “un valore aggiunto” per la nostra azione sociale.

Questo è un modo d’intendere, accanto ai beni materiali, i beni relazionali, che si basano sulla condivisione e sulla reciprocità. Stato e mercato non possono stare alla finestra a guardare che questo accada spontaneamente senza che diano il loro contributo. Devono crearne le premesse, rigenerare i valori sociali, produrre ricchezza, prosperità e benessere, dignità civile, diritto funzionale di cittadinanza, reciprocità, simpatia, fiducia. Perché emerga una società complessivamente umanizzata ed umanizzante. “L’aspetto essenziale della relazione di reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani”(p. 165). E come la società civile, anche lo stato e il mercato sono fatti di esseri umani, di persone che agiscono, con compiti e funzioni differenti, ma tutti orientati ad un unico fine: il bene comune. Se questo non fosse il presupposto generale, allora sarebbe già in partenza un fallimento generale!

 

7. Un’economia umanizzata non può fare a meno di uno stato umano ed umanizzante e di un mercato umano e cooperativo, che scelgono di svincolarsi dagli artigli del potere fine a se stesso e dalle lusinghe del profitto, dello sfruttamento e della competitività finalizzata all’accrescimento materiale. Il fondamento di questa filosofia non può che chiamarsi relazionalità, una filosofia che rifonda l’autorealizzazione della persona umana che agisce e costruisce società, che “implica il riconoscimento dell’altro: non solo del suo diritto ad esistere ma anche della necessità che esista perché possa esistere io, in relazione con lui” (p. 171).

L’altro, così, diventa un fine ed un mezzo, come pure lo sono io stesso per lui. L’altro è il fine della mia esistenza, ma nello stesso tempo mezzo della mia realizzazione. “All’interno di una tale teoria della reciprocità può essere risolto il dualismo fra una moralità, di marca kantiana, che esige che l’altro venga visto come fine a sé (e basta) e una teoria della razionalità strumentale – quella della rational choice – che invece vede nell’altro il mezzo per il proprio fine” (p. 172). Infatti: “Nella relazione interpersonale l’altro non è mai un ‘altro io’ (alter ego) ma è un tu, oltre ad essere uno che mi dice ‘tu’” (p. 174). L’individualismo metodologico non arriva a definire il soggetto che come singolo individuo, mentre l’olismo comunitaristico lo fa affogare e annullare nella dimensione comunitaristica. Entrambi non riescono a veder il soggetto come persona, come persona che agisce, perché la persona non è un semplice concetto fisico, ma è soprattutto un concetto relazionale, un io in rapporto con tanti altri io e viceversa. Tra olismo e individualismo metodologico, dunque, sembra emergere un nuovo paradigma socio economico e culturale rappresentato dalla “reciprocità non strumentale” (p. 175), mediante il quale ci si riappropria del concetto culturale insito nel termine “interesse”, che letteralmente significa “essere-tra”, dove “per perseguire un interesse bisogna interagire con l’altro”(p. 177).

Spesso, nel dibattito sociale in corso, s’intromette una altro concetto, la gratuità, che è termine complesso, spesso però demistificato e reso banale. “La gratuità, intesa in modo ordinario, non garantisce di per sé l’autenticità dell’azione volontaria” (p. 180). Qualche volta, per esempio, fare il volontario può servire ad arricchire il proprio curriculum, e questo con la gratuità vera, supposto che possa esistere, non ha niente a che fare! Oltretutto, questa concezione evoca il cosiddetto “paradosso del volontariato”. Infatti, una società dove tutti volessero e fossero nella possibilità di dare senza avere il bisogno di ricevere da nessuno sarebbe una società non interagente, sociologicamente insostenibile. Ma anche dove la maggior parte fosse disponibile a dare a quei pochi indigenti rimasti senza ricevere si realizzerebbero soltanto rapporti asimmetrici, paternalismo asfittico ed ulteriori forme d’emarginazione e d’indigenza cronica.

Se il dono non crea o non rifonda relazione e parità può persino diventare perverso. La strada da seguire è un’altra: si tratta di ripartire dalla società civile, da cui scaturiscano virtù civiche che comportino un superamento dell’individualismo e del liberismo e la fondazione di forme ed organizzazioni d’economia civile, mediante imprese responsabili e solidali, che guardino al raggiungimento, seppur in un lungo processo storico-utopico, del benessere comune.

 

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