Gli attacchi di panico,
il respiro e l’esperienza di morte-rinascita
di Giovanna Visini
Filippo Falzoni Gallerani, che ha sviluppato in Italia la scuola di Rebirthing Transpersonale,
sostiene, già da molti anni, la relazione che esiste tra gli attacchi di panico
e le alterazioni della respirazione (vedi il suo libro Rebirthing Transpersonale
Ed. Rusconi
1996).
Recentemente, ricercatori dell’Ospedale San Raffaele
di Milano hanno confermato le convinzioni del dott. Falzoni,
basate sulla sua esperienza più che ventennale circa l’efficacia del respiro
per risolvere questo disturbo. Dopo dieci anni di ricerca, al San Raffaele
hanno stabilito che i soggetti che soffrono di panico manifestano una reazione
all’eccesso di anidride carbonica. La soluzione proposta è quella di utilizzare
un farmaco per inibire i ricettori cerebrali dell’anidride carbonica, come cura
“momentanea e sintomatica”.
Il dott. Falzoni, nel
brano Gli attacchi di panico e il Rebirthing (che potete leggere sul sito www.rebirthing-italia.com) sottolinea i
limiti dell’approccio medico tradizionale: “Non
si tiene conto di molti fattori, come il fatto che l’eccesso di anidride
carbonica dovuta a una cattiva respirazione è spesso associata a emozioni
trattenute e blocchi energetici (…); inoltre non sono neppure approfonditi i
meccanismi dell’iperventilazione (che nelle sue prime
fasi, ad esempio, provoca un momentaneo aumento dell’anidride carbonica e
successivamente un suo abbassamento)”.
Nel libro citato, Falzoni
chiarisce la relazione tra attacco di panico e respirazione: “Al contrario di quanto si era creduto, [l’attacco di panico] non consiste
in un’espressione acuta d’ansia, ma in un disturbo a sé stante. In anni di
pratica, si è costatato che le sensazioni scatenanti i casi di panico avevano
molti punti in comune con quelle indotte dall’iperventilazione,
e che esisteva un’evidente relazione tra gli attacchi di panico e le
alterazioni del respiro. Si è notato che gli stessi sintomi dell’iperventilazione (capogiro, formicolio alle mani, timore di
perdere il controllo emotivo, respiro affannoso, oppressione, vertigine, paura
ed eventuale tachicardia) sorgono con estrema facilità in coloro che, senza
esserne coscienti, si trovano in condizione di subventilazione.
Per questi soggetti è sufficiente un breve periodo di tensione psicologica per
indurli all’irrigidimento muscolare che inibisce la respirazione completa e,
dopo un certo tempo che il soggetto respira al di sotto di una soglia ottimale,
è predisposto a fenomeni di “iperventilazione
spontanea” ogni volta che si trova in circostanze che lo inducono ad ampliare
la respirazione anche solo parzialmente. Gli attacchi di panico molto spesso
insorgono così.
(…) Grazie
all’esperienza accumulata seguendo centinaia di casi similari, si può sostenere
che cause e sintomi degli attacchi di panico verrebbero definitivamente curati
se la terapia si incentrasse sulle radici del problema: lavorando cioè per
sbloccare la respirazione e non per limitarla o inibirla. Invece di rallentare
e ridurre la respirazione intenzionalmente o tramite l’assunzione di farmaci,
si dovrebbe riconoscere che proprio essa è il mezzo di cura naturale, e che la
guarigione viene dal favorire questo fenomeno. Si deve perciò insegnare al
soggetto a respirare affinché egli impari, con appropriati esercizi, a
eliminare lo stato di subventilazione causata, ancora
una volta, da quella tensione muscolare che la scuola bioenergetica
definisce ‘corazza psicosomatica’.”
Sappiamo che gli attacchi di panico sono in aumento
e che, secondo l’Organizzazione Mondiale della sanità, ne soffre attualmente
circa il 20 per cento della popolazione . Individuato il meccanismo biologico
ed energetico e riconosciuto, grazie a Filippo Falzoni,
il grande contributo dato dal Rebirthing alla
risoluzione di questo disturbo, sembra importante approfondire alcuni aspetti
psicologici e ambientali che lo caratterizzano. Nella letteratura medica e
psicologica sull’argomento si trovano, infatti, menzionate sia le alterazioni
del respiro sia le problematiche relative alla paura in generale e alla paura
di morire e al confronto con la morte in particolare, ma, che io sappia, non è
mai stato fatto il tentativo di approfondire la relazione che esiste tra i vari
fattori che caratterizzano i DAP e di trovare significati più comprensivi,
tenendo conto della inseparabilità di corpo e mente/psiche.
Quando questo disturbo viene affrontato, non
soltanto con la riduzione farmacologica del sintomo
(raramente avviene la sua totale eliminazione, oltre al fatto che si instaura
una dipendenza), ma utilizzando metodi come il Rebirthing
Transpersonale, l’attacco di panico si rivela come la
somatizzazione di un complesso insieme di
problematiche, di cui una componente fondamentale risulta essere una profonda
“insicurezza ontologica”, la presenza del confronto con la morte e quell’area di esperienze chiamate tradizionalmente di
“morte e rinascita”.
Nell’ambito protetto di una seduta di respirazione,
il soggetto vive consapevolmente i propri sintomi e permette che, attraverso il
respiro e l’energia attivata dal respiro, si manifestino completamente sia i
disturbi psicosomatici sia i blocchi e le emozioni a essi connessi. Si
registra, allora, molto frequentemente l’emersione di ricordi traumatici
relativi sia alla propria nascita biologica sia, in generale, a tutte quelle
esperienze stratificatesi nel tempo che hanno una connotazione di paura
esistenziale connessa a un cambiamento di situazione o a una trasformazione
dello stato di coscienza. Troviamo spesso, associati a questi vissuti, il
rifiuto dei propri limiti e fantasie “eroiche” su se stessi uniti al sentimento
di inadeguatezza, il pensiero della morte e la paura di morire, pensieri
catastrofici e pessimismo, con le conseguenti risposte difensive di bisogno
esasperato di controllo, percezione del mondo come ostile e minaccioso,
impossibilità a lasciarsi andare, permanente stato di stress e di tensione
psicofisica.
Il confronto con i contenuti inconsci, la disidentificazione da essi e la successiva integrazione
porta non solo alla scomparsa dei sintomi, ma a una riorganizzazione e
armonizzazione della personalità, a un nuovo equilibrio tra mente e corpo e al
recupero del contatto con la dimensione più profonda dell’essere, il Sé,
osservatore e testimone della personalità psicofisica, che viene percepito, al
tempo stesso, come fondamento e come scopo del nostro essere nel mondo.
Le tradizioni spirituali orientali insistono
nell’insegnare che la nostra sofferenza è causata principalmente dall’illusione
e dall’ignoranza che ci impediscono di vedere la realtà come è veramente.
Avvolti dal velo di maya
delle nostre false percezioni, noi ci consideriamo individualità separate, con
una nascita e una morte definite nel tempo, aggrappati al nostro corpo, agli
oggetti, alle persone, al nostro passato e al nostro futuro senza comprendere
che una legge fondamentale dell’universo è il cambiamento e l’impermanenza di tutti i fenomeni materiali, vitali e
mentali che incessantemente emergono e scompaiono cambiando forma.. Fluire con
la Vita e con la Realtà, essere consapevoli, significa essere nel presente,
accettare ciò che è e svelare a noi stessi quello che, sotto il continuo
cambiamento, permane immutato, oltre tutte le dualità concettuali e oltre il
tempo e lo spazio. Questo implica inizialmente una riunificazione di mente e
corpo, una “discesa” dell’io disincarnato identificato con il “pensiero” e i
suoi meccanismi nel corpo, un mettere radici nella realtà del qui e ora.
Non è casuale che gli attacchi di panico, insieme
alla depressione, siano un disturbo così diffuso nelle società occidentali
attuali, dove l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, la globalizzazione, la minaccia ecologica, il contatto
ravvicinato con altre culture, lo sconvolgimento delle tradizionali “identità”
maschile e femminile, la crisi della famiglia tradizionale ha fatto vacillare o
crollare molti punti di riferimento sociali, culturali e psicologi. Un aspetto
fondamentale di quanto avvenuto in questo secolo e soprattutto negli ultimi cinquant’anni, si riferisce al cambiamento del significato
attribuito all’individualità. Gli anni 60 hanno tolto di mezzo, come sostiene Alain Ehrenberg (in La fatica di essere se stessi, Einaudi 1999) “pregiudizi, tradizioni, ostacoli, limiti,
confini che strutturavano la vita collettiva…siamo ormai emancipati nel senso
proprio del termine”. Questa emancipazione “ha fatto progressivamente di noi
degli uomini senza guida, ci ha posto a poco a poco nella condizione di dover
giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento. …
Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se
stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. E ciò
induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell’ordine
interiore: la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far
posto a una contraddizione lacerante tra il possibile e l’impossibile”. Scrive
ancora Ehrenberg: “Noi viviamo oggi con questa
certezza e questa verità, che ognuno dovrebbe avere la possibilità di forgiarsi
da sé la propria storia invece di subire la propria esistenza come un destino.
… Tale dinamica alimenta i valori dell’indeterminazione, accelera il processo
di dissoluzione della permanenza, allarga la compagine dei punti di riferimento
per scompaginarla al tempo stesso. L’uomo senza qualità, di cui Musil ha delineato il ritratto, è l’uomo aperto
all’indeterminato, l’uomo che si spoglia gradualmente di ogni forma di identità
imposta e strutturata dall’esterno. … L’individuo che, riscattato dalla morale,
si forgia da sé e tende verso il superumano (agire sulla propria natura,
oltrepassarsi, essere più che sé) è la realtà di oggi, ma è un individuo che
invece di possedere la forza dei demiurghi, è intimamente fragile, manca di
essere, è stremato dal suo stesso essere sovrano e se ne lamenta”.
La nostra visione della coscienza si basa sulle
teorie evoluzionistiche integrali di Ken Wilber, di cui abbiamo esposto il pensiero in molti altri
scritti. Nell’ambito relativo all’evoluzione culturale dell’umanità, Wilber utilizza il modello di Spiral Dynamics. Anche di esso abbiamo parlato
in altri scritti, ma lo riassumiamo brevemente.
La teoria di Spiral Dynamics,
basata sul lavoro di Clare Graves,
è stata sviluppata da Don Beck e da altri. Si tratta
di una mappa dell’evoluzione della coscienza e della cultura dell’umanità che
inizia 100.000 anni fa e include otto livelli o meme di diverso colore. Questi meme sono sistemi
di valori o visioni del mondo che si sono evoluti nel tempo. Il più antico è il
meme beige (arcaico/istintuale) che si riferisce ai
primi gruppi umani. Attraverso il porpora (magico/animistico), il rosso
(magico/mitico), il blu (mitico/autoritario), l’arancione
(razionale/scientifico), il verde (multiculturale/
post-moderno) si arriva ai livelli più elevati che stanno appena emergendo, il
giallo (integrale) e il turchese (olistico).
Alla luce di questa concezione, dovremmo considerare
i cambiamenti descritti da Ehrenberg come una tappa
evolutiva necessaria di emancipazione dalla presa del “collettivo” sulla nostra
coscienza, un passaggio faticoso e nemmeno generalizzato, o concluso, di
passaggio dai meme arancione e verde ai meme giallo e turchese, la visione del mondo integrale e olistica. L’identità personale non si costruisce più sul
binomio tra permesso e vietato, la fase precedente della “nevrosi” freudiana,
come dice Ehrenberg, ma nella solitudine della
difficile ricerca della nostra identità, della nostra vera natura, tra infiniti
destini possibili; la scoperta, tra infinite possibilità, della nostra
“necessità”, la redefinizione di valori morali su
nuove basi. Paradossalmente l’ipertrofia dell’individualità, del soggetto,
l’ego, affrancato dai vincoli delle proibizioni collettive e completamente
libero di scegliere, arrivata alla sua estrema espressione scopre l’ombra regressiva e terrificante che è il
desiderio di fusione e di ritorno
all’irresponsabilità, poiché come dice Alan Watts, si trova immerso totalmente nel paradosso di un
“doppio legame”: la libertà illimitata è impossibile per l’ego, è prerogativa
del Sé e l’ego si trova completamente destabilizzato.
La questione, in realtà, è che questo sviluppo, nel
suo svolgimento, ha subito alcune distorsione patologiche (avviene negli
individui e anche a livello collettivo), negando e rimuovendo aspetti della
realtà, invece che trascendendo e integrando. Il soggetto è un olone, la
coscienza è un olone, cioè sempre tutto
e parte nello stesso tempo. L’io
ipertrofico, onnipotente e autodeificato, rifiuta di
essere anche parte, parte di una rete d’interessere,
che ha radici nell’Universo, che è sempre se stesso e non se stesso, se stesso
e altro. Il passaggio dalla visione del mondo razionale e post-razionale (il
livello 5 nel modello di evoluzione della coscienza di Wilber
e i meme arancione e verde) al fulcro successivo, il
fulcro 6, il pensiero sistemico, integrale, esistenziale (meme
giallo e oltre), riunifica mente e corpo, mente e natura,
maschile e femminile e tutte le dualità, e permette a questo io terrorizzato
dalla sua stessa consapevolezza di trovare risposte alla sua angoscia, nella
comprensione della inesistenza della separazione tra soggetto e oggetto, tra
l’io e l’ambiente, tra l’io e il mondo, tra ragione e natura. Accetterà
l’impossibilità del controllo e inizierà a sentirsi parte di un flusso
ininterrotto di essere e divenire. Trascende e include il suo passato evolutivo
individuale, familiare, collettivo, fisiosfera e biosfera
e tutta la faticosa marcia della coscienza, della noosfera
(a livello individuale: corpo, emozioni e mente), ristabilisce i nessi e le
interrelazioni. Solo così la sua individualità e identità non soccomberà sotto
il peso, impossibile da sostenere, di una libertà male interpretata e falsa e
sarà capace di riprendere il cammino evolutivo verso più elevati livelli di
coscienza, dando nuovi significati al bisogno di responsabilità, necessità,
destino.
Gli attacchi di panico, come la depressione in altra
forma, possono assurgere a simbolo del disagio provocato da questo momento
difficile di transizione che è attraversato da molti, nelle società
tecnologiche e democratiche. Appaiono come l’esasperazione di un’affermazione
disperata del nostro corpomente che reclama la
sicurezza e la protezione in un’epoca dove domina l’insicurezza, e dove ci
viene richiesto di assumerci la responsabilità in prima persona di tutto ciò
che avviene, come se dovessimo diventare demiurghi onnipotenti o soccombere
sotto il peso del fallimento. E’ la risposta sbagliata a un problema sbagliato,
un doppio legame. Ci affanniamo a rispondere, mentre dovremmo respingere al
mittente il dilemma paradossale. Il grido spaventato, rimasto soffocato per
anni sotto montagne di rimozioni e di repressioni, esplode quando le vicende
della vita ci obbligano a confrontarci, comunque, con l’ineluttabilità del
cambiamento, con la fragilità della nostra esistenza, con l’apparente assurdità
della morte, con il desiderio di continuare a vivere situazioni e vicende che
devono essere superate e trascese e ci accorgiamo che la falsa idea di noi
stessi e del mondo vacilla pericolosamente. Ma se la perdiamo cosa ci rimane?
Così ancora rifiutiamo, neghiamo in un’estrema
contrazione psicofisica che ci toglie il fiato, ci irrigidiamo in un “no”
disperato. E crediamo che sia corretto farlo, perché siamo offuscati e confusi
da false credenze, da schemi mentali fallaci, da visioni del mondo scorrette e
irreali, da illusioni e fantasie. Il “collettivo”, società, cultura e
religioni, nella loro generalità, sono, naturalmente, espressione della visione
del mondo “media” dominante e anche delle visioni più regressive, quindi non
solo non ci aiutano, ma anzi continuano ad alimentare il paradosso in modo da
mantenere in piedi l’edificio sociale: farci consumare sempre di più, imporci
modelli di vita stereotipati e conformistici o incrementare paure e sensi di
colpa per prepararci meglio per un Aldilà mitologico. Una medicina che non
accetta la morte e la vive come una propria sconfitta, un utilizzo
indiscriminato di psicofarmaci che ci conferma che alla nostra paura e alla
nostra angoscia non ci sono vere soluzioni, un’economia che non è al servizio
dell’umanità ma che mantiene miliardi di persone nella povertà e nella fame,
una concezione dell’essere umano fondata sull’efficienza, l’eterna giovinezza,
la bellezza che non deve sfiorire mai, l’immortalità se possibile, ed emargina
vecchi, malati e sofferenti… che aiuto ci potranno mai dare.
L’attacco di panico ci rimanda alla nostra estrema
vulnerabilità, ai nostri limiti. La paura, la non accettazione del cambiamento,
il riproporsi continuo del passato che non riusciamo a lasciare andare, il
rifiuto della morte, tutto questo non abbiamo voluto/potuto affrontarlo dentro
di noi e si è rafforzato, stratificandosi anno dopo anno, alimentato da piccoli
e grandi eventi che abbiamo creduto di aver superato, che abbiamo
razionalizzato, rimosso. A un certo punto, un evento della vita, forse neppure
troppo traumatico, funziona da catalizzatore e appaiono i sintomi del disturbo:
dolore al cuore, come se una mano lo stringesse, dicono alcune persone, senso
di soffocamento, vertigine, sudorazione, tachicardia, confusione mentale e una
grande angoscia. L’attacco di panico ci dice che non possiamo andare avanti
così, che si richiede una “revisione”, dobbiamo tornare a noi stessi e
rifondare la nostra identità, come un Io in relazione al Tu, un Io e un Tu
rinnovati. Dobbiamo riscoprire che se non siamo onnipotenti, non siamo neanche
impotenti, se non siamo perfetti abbiamo però qualità, talenti, capacità, che,
se abbiamo limiti come esseri storici incarnati nello spazio-tempo, siamo anche
in una relazione di interessere con
un tutto oltre il tempo e lo spazio. L’attacco di panico offre l’opportunità di
un confronto senza precedenti con noi stessi, con la vita, con la morte e il
suo significato, e come possiamo vivere una vita piena, se non vi includiamo la
morte che della vita è l’estrema espressione?
Notiamo anche come questo
atteggiamento estremo di ipertrofia egoica e di
bisogno di controllo che alla fine implode su se stesso, segnala in modo
evidente che, a livello individuale come a livello collettivo, non è più
possibile continuare con un modello “aggressivo”, tradizionalmente qualificato
come maschile, che dissocia e reprime le “qualità” tradizionalmente considerate
femminili. La crisi delle stereotipate identità maschile e femminile e la crisi
ecologica senza precedenti fanno emergere la necessità di rivalutare e
reintrodurre attitudini come l’abbandono, la resa, la ricettività,
l’accettazione, il sentimento, la sensibilità, l’apertura del cuore, la
comunione, il prendersi cura degli altri e della natura, l’umiltà (che viene da
humus, terra) che riconosce e rispetta
le leggi dell’universo, contrapposta alla mancanza di misura (l’ubris) e all’arroganza
dell’eroe demiurgico, isolato e alienato dalle sue radici, da che si sente il
padrone della natura e la distrugge, diventando portatore di morte mentre
ricerca disperatamente l’immortalità (sul tema dell’evoluzione della coscienza
maschile in relazione al femminile si può leggere il mio scritto Coscienza
e Spiritualità … e le donne? su questo sito).
Le nostre paure sono
varie e molteplici, ma l’origine vera e profonda di essa è fondamentalmente la
paura di morire, la paura del non-essere. Come dice A. Watts,
la vera psicoterapia, come i cammini spirituali già fanno, sarà quella che
prenderà in considerazione la morte. Perché la rimozione e repressione della
morte è la causa non solo dalla nostra ansia e della nostra angoscia più
profonde, ma è la ragione del fatto che non abbiamo il coraggio di vivere
pienamente: non possiamo accettare pienamente la vita perché con essa dobbiamo
accettare la morte. L’una è l’altra,
inseparabilmente. In Psicoterapie Orientali e Occidentali Watts scrive: “Nessuno,
credo, ha fatto uno studio serio e rigoroso sul grado in cui la paura della
morte è implicata nelle nevrosi e nelle psicosi. Ignorarla o allontanarla con
una spiegazione vuol dire trascurare la più grande opportunità che ci offre la
psicoterapia, perché ciò che la morte nega non è l’individuo, non è
l’organismo/ambiente, ma è l’io, e quindi la liberazione dall’io è sinonimo
della piena accettazione della morte.” E in L’Audacia di Vivere A. Desjardins afferma: “Osare vivere è osare morire a ogni istante,
ma è ugualmente osare nascere, vale a dire superare le grandi tappe
dell’esistenza in cui ciò che siamo stati muore per fare spazio ad altro, con
una visione rinnovata del mondo, pur ammettendo che ci siano diversi stadi da
superare prima dell’ultima tappa del Risveglio. Questo significa essere sempre
più consapevoli che a ogni istante si nasce, si muore e si rinasce.”
Se il sesso era il grande tabù dell’800, la morte lo
è stato del secolo appena terminato e, con ogni evidenza, lo è ancora oggi,
sebbene cominci a essere avvertita da molti la necessità di un cambiamento e,
in certi ambienti più sensibili, qualcosa si stia già facendo, penso per
esempio all’opera di E. Kubler-Ross e di M. de Hennenzel, al movimento degli hospices e a una nuova attenzione
data all’accompagnamento dei morenti. Comprendere e accettare la morte, la
nostra come quella di una persona amata, è certamente un compito arduo.
Tuttavia, nella nostra cultura è ancora più difficile, perché la morte è il
grande “rimosso”, anche se ci circonda a ogni passo, anche se ne sentiamo
parlare ogni giorno. Diventare consapevoli della morte è un grande passo nella
nostra crescita interiore, vuol dire riconciliarci con chi siamo veramente e
con la realtà.
La morte, sia come eventualità che ci spaventa sia
come evento con cui abbiamo dovuto confrontarci, è una componente importante
degli attacchi di panico, perché è vissuta come la sintesi di tutto quel
continente ignoto che sfugge al nostro controllo, quel nemico minaccioso contro
cui dobbiamo mobilitare le nostre difese, quel limite estremo che viene posto
all’ego e al suo desiderio di onnipotenza, alla nostra illusoria pretesa di
essere più forti della rete interrelata di eventi in cui siamo immersi.
L’analista junghiano L. Zoja sostiene che, a livello
collettivo, l’ombra di quest’atteggiamento si manifesta nel disprezzo di sé che
traspare dalla ciclica previsione della fine del mondo, della recessione
economica definitiva, della grande nemesi, e nella diffusione di apprezzati
spettacoli che mettono in scena la vittoria delle forze della natura
sull’orgogliosa tecnologia umana, mentre a livello individuale l’impossibilità
a riconoscere i limiti e la giusta misura porta all’autosvalutazione,
al pessimismo, al catastrofismo, alla paura e alla sua somatizzazione
(L. Zoja, Nascere non basta, Cortina Editore, 1985). Senza dimenticare l’altro aspetto,
di cui parlavamo all’inizio, cioè la possibilità che emerga un desiderio
inconscio di fuga dalle responsabilità, diventate troppo pesanti, verso
un’arcaica fusione in cui l’individualità si annulla nell’incoscienza (le varie
forme di dipendenza per esempio).
Non un Io che raggiunge un livello di coscienza più
comprensivo, una personalità integrata che riconosce corpo, emozioni, mente,
anima e spirito e si colloca in una relazione più creativa con la realtà, ma un
io strutturalmente debole che, frustrato e stressato dal suo sforzo
narcisistico di controllo/negazione del mondo e delle sue leggi, si abbandona
alla regressione. Anche l’attrazione per la spiritualità orientale, in
particolare per il buddhismo, può nascondere una
trappola di questo genere. Jack Engler in “Gli obiettivi terapeutici della psicoterapia
e della meditazione” (“Le trasformazioni della coscienza”) si riferisce
proprio a queste problematiche quando afferma che in molti allievi dei suoi
corsi di meditazione nota che il senso di identità e di autostima appare
particolarmente disturbato, sia per problemi psicopatologici sia perché stanno
semplicemente attraversando fasi di trasformazione della personalità, come gli
adolescenti e le persone di mezza età. “L’insegnamento buddhista
secondo il quale non si ha né si è un sé durevole viene spesso frainteso
nel senso che non si deve lottare con i compiti di formazione dell’identità o
con la scoperta di chi si è, delle proprie capacità, dei propri bisogni e delle
proprie responsabilità, del modo di entrare in rapporto con gli altri, di ciò
che si debba e non si debba fare della propria vita.”
Secondo Alan Watts l’ansia “è la
frustrazione di non avere la vita senza la morte, ossia di non riuscire a
risolvere un problema che non ha senso. Come Freud
disse, l’io è costituito dalla repressione dei Eros e di Thanatos,
della vita e della morte, è per questo motivo è la parodia dell’autentica
individualità.”
E lo studioso di Freud, Norman O. Brown, nel bellissimo libro La Vita contro la Morte scrive: “Paradossalmente, ma inevitabilmente, questa
incapacità di morire toglie l’umanità dalla realtà del vivere, che per tutti
gli animali normali è allo stesso tempo morire, ne risulta la negazione della
vita (repressione) … L’indirizzare la vita dell’uomo alla guerra contro la
morte, per la stessa inevitabile ironia, provoca il dominio della morte sulla
vita. La guerra contro la morte prende la forma di un interesse per il passato
e per il futuro, e il tempo presente, il tempo della vita, va perduto.”
Il caso di Marco.
Morte e rinascita.
Presento adesso un caso che ho modificato, per
ragioni di riservatezza, attingendo parzialmente anche alla storia e alle
esperienze di altre persone che si sono affidate al Rebirthing
Transpersonale per risolvere il disturbo da attacchi
di panico. Si tratta, dunque, di un percorso emblematico che racchiude molti
elementi psicosomatici, vissuti, situazioni, esperienze che non sono,
ovviamente, sempre tutti presenti e che, inoltre, possono presentarsi con
caratteristiche e forme diverse, conformemente alla personalità e alla storia
del soggetto.
Marco soffre da dodici anni di attacchi di panico
quando viene da me. Prende uno psicofarmaco specifico che allevia i sintomi, è
stato anche a lungo in psicoterapia, ma non è soddisfatto perché non si sente
“guarito”. Ha ancora dei disturbi, anche se meno intensi di prima, come dolore
al cuore con ansia, mancanza di respiro e affanno. Inoltre teme sempre un
attacco maggiore quando guida o quando si trova in ambienti affollati o sul
lavoro, svolge, infatti, un’attività che lo mette in contatto con molte
persone. Tutta la famiglia è condizionata dal suo disturbo. Sentendosi
“inadeguato” a causa del suo problema, reagisce chiudendosi in se stesso,
comunicando sempre meno. Manifesta anche una leggera depressione. Dorme male, non è mai veramente rilassato.
Inizialmente è scettico e negativo circa il rebirthing,
pensa che sarà un’ennesima delusione. Comunque ha deciso di provare.
Il disturbo è iniziato subito dopo un cambiamento
importante nella sua vita (matrimonio). Durante le prime sedute, il respiro
intenso e l’iperventilazione fanno emergere tutte le
tensioni e contrazioni accumulate a livello fisico: è come paralizzato dalla
testa ai piedi, suda abbondantemente, ha freddo e caldo. Emergono immagini che
simbolizzano lo stato di rigidità fisica, un gladiatore in una specie di
corazza che lo immobilizza, un fantoccio svuotato di vita, un cadavere. Ma
quasi subito riceve un aiuto dalla dimensione transpersonale:
vede un essere di luce, un angelo, che gli starà vicino per quasi tutte le
sedute e questo lo incoraggia a continuare, lo sostiene e lo aiuta a modificare
l’atteggiamento rigido e di controllo. Quanto più riesce a lasciarsi andare,
tanto più la “paralisi” diminuisce e cominciano ad affiorare i vissuti.
Emerge il ricordo di un’aggressione subita quando
aveva circa dodici anni. Un ragazzo più grande l’aveva immobilizzato contro una
porta e l’aveva picchiato. Terrore. Vuole gridare, ma non ci riesce, il grido
non esce. Non si era difeso e aveva odiato suo padre che non gli aveva
insegnato a reagire in modo appropriato. Non aveva detto niente a nessuno e si
sorprende che questo episodio possa essere stato traumatico, perché non lo
aveva mai considerato tale. Tuttavia, capiamo nel dialogo che segue la seduta,
che quell’evento aveva contribuito a nutrire il suo
sentimento di essere un debole, con i compagni, infatti, era timido e si
lasciava prevaricare. Nella sua vita questo tema sarà sempre presente, unito al
sentimento di valere più di quanto non riesca a dimostrare, sia in famiglia sia
nella società. Il padre non lo aveva mai veramente sostenuto nella costruzione
della sua identità maschile e aveva contribuito al suo sentimento di
inferiorità. M. impone a se stesso un modello molto esigente di performance, è estremamente
perfezionista e ansioso circa il giudizio che gli altri hanno di lui. Nella realtà
si tratta di una persona con molte qualità e talenti e un mondo interiore molto
ricco, ma bloccato dall’insicurezza e dalla paura. In un’altra occasione rivive la morte di un
parente che gli era molto caro (un sostituto paterno positivo che lo abbandona
troppo presto) e il funerale cui aveva assistito quando aveva sette o otto
anni. Da allora non ha mai più potuto assistere a un funerale. Il tema della
morte ritorna anche con episodi più recenti. Un altro vissuto molto traumatico
e terrorizzante si riferisce a quando era stato sottoposto a una
tonsillectomia, all’età di quattro o cinque anni, senza anestesia. Inoltre, i
genitori, per evitare di spaventarlo, l’avevano portato dal medico senza
prepararlo minimamente a quello che sarebbe successo.
Finalmente in alcune sedute rivive la nascita in
modo molto intenso e simbolico. Rivive in particolare la fase della Matrice
Perinatale III, che S. Grof definisce “Lotta di morte
– rinascita”. E, di fatto, la sua nascita biologica si trasforma in una specie
di seduta sciamanica in cui lui dà una nuova vita a
se stesso. Un’iniziazione di se stesso per rifondare la sua identità maschile
fragile e non integrata che lo lasciava impreparato ad assumersi la
responsabilità della propria vita, e che era stata compensata, sotto la spinta
dei condizionamenti familiari e culturali, con un modello idealizzato di
“virilità”, eroico ed estremamente esigente che lo tiranneggiava senza tregua e
che reprimeva gli aspetti femminili della psiche, come la capacità di
abbandono, il contatto con le emozioni, la creatività. Tutto doveva essere
sotto controllo, come si richiede ai “forti”. Ovviamente, questo aumentava la
sua vulnerabilità verso il mondo e la realtà esterna con il suo lato misterioso
e insondabile, di cui la morte era l’espressione più terrificante.
Ricordiamo velocemente cosa avviene a quello stadio del
parto: ci sono contrazioni uterine e il collo dell’utero, a differenza della
fase precedente, è ora dilatato e permette la discesa attraverso il canale pelvico-genitale. Il feto intraprende una lotta feroce per
la sopravvivenza mentre prova forti pressioni meccaniche e spesso anche un
senso di soffocamento intenso. Le contrazioni uterine limitano l’alimentazione
del sangue al feto. In questa fase possono intervenire molti altri fattori che
riducono ulteriormente l’afflusso di sangue e provocano episodi di
soffocamento. La MPB III, dice Grof, costituisce un
modello empirico di grande ricchezza e complessità. Oltre al ricordo
dell’esperienza di lotta per la sopravvivenza nel collo dell’utero, si attivano
molti fenomeni archetipici.
A differenza della matrice precedente che era “senza
via d’uscita”, qui il soggetto non è impotente e paralizzato, inoltre non è
semplicemente vittima, ma lotta, si muove, potremmo dire che manifesta una
certa aggressività per vincere la battaglia per la vita. Il conflitto che viene
vissuto è quello della morte-rinascita. I ricordi dei
Sistemi di Esperienza Condensata (COEX) che emergono sono quelli legati a
situazioni di pericolo in cui la sopravvivenza è stata minacciata, avventure
esaltanti ma rischiose, ecc.
Vediamo come M. racconta la sua esperienza: “Sono in
una specie di cono, un tunnel, provo un’enorme pressione sulle orecchie e vedo
un pallina blu che entra ed esce dalle due orecchie, un male fortissimo, c’è
una porta in lontananza, devo arrivare a quella porta, ho paura di non farcela,
devo aprirla, mi sento impotente, sento un risucchio, come un vortice che
stritola e vedo una luce terribile, vedo una successione di immagini di animali
feroci, un circo e io sono un gladiatore, mi ero già sentito un gladiatore,
anche adesso mi sento immobilizzato. Mi sento morire… C’è un bambino morto.
Adesso vedo un bambino morto, io sono una specie di guaritore, uno sciamano..
non so. Ho al collo una collana di unghie di tigre. Sfilo un’unghia dalla
collana, è lunga e molto affilata, mentre la tengo in mano faccio la
respirazione a bocca a bocca al bambino e lo gonfio, lo gonfio fino a farlo
diventare grande come me. Adesso uso l’unghia come un bisturi, apro il corpo
dalla gola alla pancia, tolgo tutti gli organi interni, mi sento calmo. So che
quello che sto facendo è giusto, va fatto. Una volta svuotato degli organi,
entro io in quel corpo, mi adagio sulla schiena e richiudo cucendo con l’unghia
come fosse un ago. Dentro tutto è di un bellissimo blu, non so se sia acqua o
cielo. A un certo punto ho la netta sensazione che sto morendo, ma non sono
spaventato. Chiuso lì dentro contengo tutto l’universo, mi vedo da fuori e
mentre guardo, il “me” dentro il corpo apro l’involucro con l’unghia e comincia
a uscire il blu, un fiume di blu, prima denso, poi sempre più fluido e fluisce,
fluisce, è il cielo, è l’universo stesso che fluisce, è l’oceano … e nel blu ci
sono delfini e gabbiani, alberi, stelle, galassie, fiori, altri animali. Oh
dio! E’ meraviglioso! Mi sento libero e vivo. Una pace e una gioia infinite mi
pervadono. Una vera estasi.”
Questa era la nona seduta e, anche se c’erano già
stati notevoli miglioramenti, segna la vera e propria guarigione. La seduta
seguente insiste ancora sul tema della morte e della nascita. Rivive il
funerale di una persona amica avvenuto da poco e a cui questa volta è riuscito
a partecipare. Poi si vede piccolo al centro di un cerchio fatto di pietre in
una tenda indiana, è un neonato con il pannolino. La tenda e l’ambiente
all’intorno sono blu. Anche se è un neonato capisce tutto come un adulto,
intuisce che si tratta di una specie di rito, sente una musica, una nenia. E’
il rito per la nascita del bambino. Di nuovo il corpo del bambino cresce e
diventa grande come è lui adesso, la tenda diventa sempre più calda, prova
malessere, sussulta, si torce. Il bambino ha al collo la collana di unghie, con
un’unghia taglia la tenda e scivola fuori, di nuovo si riversa fuori il liquido
blu. Si ritrova in un luogo dove c’è una vallata verde in lontananza. C’è una
montagna. Lui è la montagna. Una voce dentro dice: non morirai mai. Di nuovo un
senso profondo di benessere, pace, gratitudine, comprensione. Sa che è guarito.
Questo caso esprime, credo, in modo molto chiaro
l’intreccio dei molti fattori che concorrono, in molti casi, a generare i DAP.
Questi elementi, come dicevo, non sono sempre tutti presenti, non emergono
necessariamente con la stessa intensità, né sempre sono accompagnati da vivide
immagini simboliche. Ma sono permanenti i temi di fondo, che stiamo
analizzando, uniti alle manifestazioni fisiche dei sintomi da panico con
successivo scioglimento e superamento.
Il primo attacco si manifesta dopo un cambiamento
importante nella vita di M. che funziona da attrattore per l’acutizzarsi di
antiche paure e complessi. Sposarsi vuol dire assumersi un’enorme
responsabilità verso gli altri, ancor più dopo la nascita dei figli. Non si
sentiva pronto. Si manifesta il senso di inadeguatezza e di inferiorità non
soltanto come espressione di incapacità, timidezza, difficoltà nelle relazioni
sociali, ma come “paura di vivere”, per la generale vulnerabilità dell’essere
umano di fronte all’ignoto, all’imprevisto, a quello che non si può controllare
e soprattutto di fronte alla morte. La paura lo immobilizza, lo mantiene
contratto e rigido, è estremamente perfezionista e cerca di non lasciare niente
al caso e allo stesso tempo di non dare adito a critiche o giudizi negativi su
di sé, mentre si sente incapace di reagire esprimendo quello che pensa, di
farsi valere e questo provoca una notevole accumulo di energia aggressiva
repressa.
Gli elementi importanti che caratterizzano le sedute
e i colloqui si riferiscono, dunque, a un bisogno di ridefinire e ampliare la
visione di se stessi e del mondo che è troppo angusta, rigida e soffocante e
non permette nessuna ulteriore evoluzione. E’ stritolato dal dilemma di
sentirsi fragile e vulnerabile dentro (avendo represso la sua genuina
vulnerabilità), mentre vorrebbe essere un eroe perfetto, demiurgico, che
controlla il mondo e non subisce nessun limite (la sua identità non si è
costruita in modo armonico tra il riconoscimento e il sostegno alle sue
capacità e potenzialità, alla sua “unicità”, e l’accettazione delle limitazioni
e della vulnerablità propri di ogni essere vivente
immerso in una rete di “tu”, in una rete di “interessere”: maschile e
femminile, o, usando i termini di Wilber, agency e
communion,
individualità e intersoggettività). Per rimettersi in cammino con fiducia e
positività, M. deve regredire per completare fasi di sviluppo precedenti
rimaste incompiute. Ha bisogno di un’esperienza di morte e rinascita per
sperimentare che morire non vuol dire “cessare di esistere”, ma trasformarsi;
per capire che cambiare, lasciar andare il passato, idee e concetti falsi,
bisogni regressivi di protezione, non vuol dire morire, ma crescere ed
evolversi. Dentro di sé M., che è a digiuno di letture psicologiche,
antropologiche o mitologiche trova una grande ricchezza di risorse energetiche
e simboliche per portare a termine il suo compito.
Le esperienze di morte-rinascita
fanno parte del bagaglio dell’umanità che ha sempre avvertito come il confronto
con la morte fosse necessario per accedere a un più elevato livello di
coscienza. Dai viaggi sciamanici, ai rituali dei
Misteri ellenistici, ai cammini spirituali e contemplativi, l’esperienza della
morte simbolica è sempre stata considerata uno strumento potente di
trasformazione e di crescita.
Rivivere la propria nascita è certamente
un’esperienza molto intensa e fondamentale per risolvere un certo numero di
disturbi psicosomatici. Come ho ampiamente esposto nel brano Il trauma della nascita e il rebirthing pubblicato su questo sito, la nascita
biologica, soprattutto nella MPIII, contiene, appunto, una forte connotazione
di “lotta morte-rinascita” e come tale è una
componente del complesso di esperienze che si riferiscono a questo tema, non
solo perché il feto vive una vera propria minaccia alla propria sopravvivenza,
ma anche perché la nascita è un passaggio dal fulcro 0 al fulcro 1, cioè un
primo e molto precoce passaggio da un livello di coscienza a un altro (Wilber chiama fulcro
un passaggio dell’Io da un livello di coscienza a un altro). Ogni passaggio di fulcro,
nel procedere dell’evoluzione della coscienza individuale e collettiva degli
esseri umani, implica il movimento triplice descritto da Wilber
sulla base del lavoro di molti psicologi evolutivi e sulla base della teoria
evoluzionistica dei sistemi (poiché anche la coscienza è un olone e segue i principi che regolano
gli oloni). Questi tre passaggi sono:1)
identificazione con un livello, 2) disidentificazione
e trascendenza (quindi “morte” a quel livello), 3) identificazione con il nuovo
livello e inclusione del precedente (e di tutti i precedenti). Il movimento è
sempre trascendi e includi.
Negli attacchi di panico, la regressione al momento
della nascita e la risoluzione di tensioni e blocchi psicofisici connessi a quell’evento, si presentano come un aspetto di un nodo
molto più complesso di problematiche che si collocano, a mio avviso,
essenzialmente ai fulcri 4 (convenzionale), 5 (razionale) e 6
(integrale).Questo perché, come abbiamo mostrato nel brano già citato sul
Trauma della Nascita, l’esperienza di morte e rinascita non è solamente quella
connessa alla nascita biologica (come S. Grof sembra
sostenere), ma si ripropone a ogni cambiamento di fulcro di coscienza, e anche
quando bisogna tornare indietro per completare l’integrazione di aspetti dei
fulcri precedenti da cui non ci siamo disidentificati
e che non abbiamo trasceso. Questo viene spesso vissuto simbolicamente come
“nascere di nuovo”, perché la ripresa del cammino evolutivo, grazie
all’eliminazione degli ostacoli che bloccavano l’energia creatrice, è un
tornare alla vita. Allora si attiva anche il ricordo della nostra prima
nascita, quella biologica. Sottolineiamo che, anche se un confronto con la “morte-rinascita” dell’io a qualsiasi livello di coscienza è
un’esperienza potente e trasformativa, il fulcro 6,
livello esistenziale/integrale, è quello più importante in questo contesto,
perché a questo punto la coscienza comincia a decostruire la sua identità
esclusiva con il corpomente. Emergono quindi più
facilmente quelle barriere che costituiscono la maggior parte delle
dissociazioni di vissuti traumatici (rimozioni, repressioni) che si sono
costituite al livello del corpomente grossolano e
vitale/emotivo. Quindi è soprattutto a questo punto che si tende a diventare
più consapevoli di tutte le problematiche irrisolte del passato che funzionano
da ostacoli allo sviluppo successivo e da attrattori regressivi che impediscono
ogni ulteriore crescita.
Riepiloghiamo brevemente le tappe che più ci
interessano dello sviluppo della coscienza secondo il modello di Ken Wilber.
Il fulcro 3, io mentale e concettuale, mente
rappresentativa o, con la terminologia di Piaget,
conoscenza pre-operazionale. Verso i quattro/sette
anni, dopo le immagini e simboli, cominciano ad apparire i concetti. Il bambino
inizia a entrare nel mondo linguistico, nella noosfera.
A questo stadio il bambino, se tutto è andato bene, ha integrato i livelli
precedenti, l’io fisico/corporale e l’io emozionale. Con l’emersione dell’io
mentale, è possibile anticipare il futuro, avere preoccupazioni e ansietà, e
anche ricordare il passato, avere sensi di colpa e rimorsi. La mente
concettuale esiste in un “mondo astratto di pensieri” e per questo può
reprimere e dissociare gli aspetti anteriori, gli impulsi che vengono dal corpo
e le emozioni. Invece di differenziarsi, trascendere e includere, reprime. La
patologia di questo livello è la nevrosi (la mente reprime corpo ed emozioni).
La visione del mondo corrispondente a questo livello è quella mitica, che
lascia il posto a quella magica del livello precedente. Il bambino si rende
conto che la magia non funziona, non può comandare il mondo in modo magico e
onnipotente, ma pensa che forse qualcun altro può farlo: dei, demoni e fate che
possono sospendere le leggi della natura. Il potere egocentrico lascia il posto
alla preghiera e al rituale egocentrico. La visione del mondo mitica inizia con
la mente rappresentativa e continua anche nel livello successivo, la mente
regola/ruolo per poi essere trascesa dalla mente razionale, che realizza che
per cambiare qualcosa della realtà, devi farlo tu stesso.
Il fulcro 4 è la mente regola/ruolo, chiamata da Piaget conoscenza concreta-operazionale
(dai 7 ai 14 anni). L’io è capace di formare regole mentali e di assumere ruoli
sociali. Il bambino comincia a rendersi conto che il suo punto di vista non è
l’unico al mondo. La linea evolutiva morale passa dal preconvenzionale
al convenzionale, si assumono i comportamenti collettivi dominanti, si è
conformisti. Rispetto ai tre stadi precedenti, qui c’è una profonda
trasformazione. Le mie preoccupazioni ora si estendono al gruppo, ma non oltre.
Ci si identifica con la propria famiglia, tribù, mitologia, ideologia e chi non
ne fa parte è il nemico. A questo livello troviamo un forte etnocentrismo,
che Wilber chiama “appartenenza mitica”. La visione
del mondo è ancora mitologica. L’identità dell’io è sociocentrica,
deve rappresentare dei ruoli ed è qui che si colloca la “patologia del
copione”. Quando ci sono problemi nel superamento di questo livello, rimaniamo
prigionieri di false e distorte maschere sociali, di copioni crudeli che
affermano “Sono un fallito”, “non combinerò mai niente di buono”.
Tra gli undici e i quindici anni emerge il fulcro 5,
la mente operazionale-formale. Mentre nel precedente
livello, operazionale-concreto, si può operare solo
sul mondo concreto, questo può operare sul pensiero stesso. Per la prima volta
si possono fare ipotesi: cosa succederebbe se…, si aprono mondi ideali, nuove
possibilità. E’ l’adolescenza, in cui diventa possibile l’introspezione; si
comincia a giudicare i ruoli e le regole assunti prima, la morale diventa postconvenzionale, si passa da un io sociocentrico
a un io centrato sul mondo, universale. Il mondo stesso è il mio gruppo, e
allora si inizia a pensare che tutti gli individui devono avere accesso allo
stesso rispetto e alle stesse opportunità senza differenze di sesso, credo,
razza, credenze, ecc. Dal punto di vista psicologico, quando si supera il
livello sociocentrico con la sua morale convenzionale
e i ruoli e le regole predefinite, inizia il problema dell’identità. “Chi sono
Io, cosa voglio dalla vita, qual è il mio posto?” Erikson
chiama questa fase “crisi di identità”, che è una tipica patologia
dell’adolescenza.
Lo stadio 6 è chiamato da Wilber
visione logica o pensiero integrativo, che opera sintesi e trascende i
dualismi. La mente operazionale-formale
(corrispondente al pensiero razionale moderno) possedeva già la capacità di
sintetizzare e integrare, ma esisteva ancora una tendenza a separare, analizzare,
una logica basata sulla dualità e l’alternativa o/o. Con la visione logica le
parti sono messe insieme e si coglie una rete di interazioni. Nel Quadrante
Sociale di Destra che si riferisce al mondo oggettivo (per la figura che
riproduce i 4 Quadranti vedi il brano: Introduzione
di Ken Wilber a Medicina
Integrale, su questo sito), lo stadio 6 produce la Teoria dei Sistemi; nel
Quadrante dell’interiorità e della soggettività (Alto/Sinistra) produce una
personalità integrata, simbolizzata dal centauro che rappresenta l’integrazione
di mente e corpo e corrisponde a un io integrato in una rete di responsabilità
e servizio. Dice Wilber citando John
Broughton: “a questo livello mente e corpo sono
entrambi sperimentati come un Io integrato”. L’io è cosciente sia del corpo sia
della mente come sua esperienza. Non è più la mente che osserva il mondo, ma
l’io osservante osserva la mente, il corpo e il mondo. Questo è anche chiamato
livello esistenziale. A questo fulcro 6, l’io identificato con il corpomente sta morendo. Non ha più appigli e stampelle da
nessuna parte: né la visione magica o mitica, né la razionalità gli sono più
d’aiuto. Accettare la propria mortalità, i propri limiti è necessario per
trovare il “proprio essere nel mondo”.
Gli esistenzialisti hanno realizzato questo io
autentico, hanno analizzato le menzogne e le illusioni che rendono impossibile
l’autenticità. Mentiamo circa la nostra mortalità e la nostra finitezza
costruendo simboli di immortalità, mentiamo circa la nostra responsabilità nelle
scelte che facciamo, presentandoci come vittime della famiglia, della società,
del destino, del nemico. Mentiamo perdendo la ricchezza del presente perché
siamo sempre macerati nei sensi di colpa legati al passato o nell’ansia
riguardo al futuro. Non siamo autentici perché rifiutiamo la responsabilità di
essere fino in fondo noi stessi senza maschere e infingimenti.
Perdute tutte le consolazioni illusorie, se non riconosciamo ulteriori fasi di
sviluppo, cadiamo come gli Esistenzialisti, nell’angoscia e nella disperazione
dell’assurdo e della mancanza di significato di noi stessi e dell’universo.
Questa è la patologia del livello esistenziale,
poiché non si è ancora nel transpersonale, ma non si
è più ancorati al personale. L’io che si è evoluto fino a questo livello, come
dicevamo all’inizio, per non regredire a più rassicuranti fasi precedenti
(anche perché ogni fase trasformativa fa emergere in
modo più pressante i nodi irrisolti degli altri fulcri) e non bloccarsi in un
sentimenti di impotenza e di terrore, deve passare a una nuova visione del
mondo, deve aprirsi a un nuovo livello di coscienza dove l’identificazione con
l’ego viene superata completamente e il senso di identità personale entra in
una nuova relazione con il Tu. Ed è qui che si colloca l’esperienza più
pregnante di morte-rinascita che può aprire alle fasi
evolutive successive che sono ormai quella della sfera transpersonale
e spirituale: olistica o psichica iniziale (il meme turchese), psichica, sottile, causale, Assoluto.
M. si colloca al fulcro 5, razionale postconvenziale, con problemi irrisolti al livello 3, 4 e
5, prima emersione del livello 6 e apertura verso esperienze di vetta transpersonali. E’ importante tenere presente che quando si
descrivono i processi della psiche umana è inevitabile cadere in
schematizzazioni troppo semplificatorie. In ogni
individuo si accavallano e intrecciano molti livelli e linee evolutive, viviamo
contemporaneamente su molti piani e qualsiasi schema o mappa va sempre
considerata come approssimativa e comunque riduttiva della ricchezza immensa
che nessun strumento analitico razionale potrà mai cogliere integralmente.
Fatta questa
premessa, continuiamo il nostro discorso. Nel caso di M. la nascita biologica,
oltre al valore in sé come evento che, rivissuto, porta al superamento di molte
tensioni psicofisiche, è anche l’occasione per inscenare un vero e proprio
rituale iniziatico di morte e rinascita in cui M.
adulto “opera” sulle sue parti infantili per farle crescere e per integrarle.
In qualche modo opera su se stesso quella iniziazione al mondo adulto che non
ha mai realizzato nella vita. Il bambino non ha superato una serie di paure
legate al mondo esterno che può essere minaccioso e mettere a rischio la sua
sopravvivenza, rimane traumatizzato dal confronto precoce con la morte di una
persona cara e nessuno lo aiuta a capirla e accettarla, crede di essere stato
abbandonato nelle mani di un dottore “carnefice” che forse lo ucciderà. Poiché
la famiglia, e il padre in particolare, non lo hanno aiutato a costruirsi una
positiva immagine di sé e una sufficiente autostima, è ancorato a idee
menzognere su se stesso circa la propria inadeguatezza e si porta dentro un
senso di fallimento che il DAP non fa che confermare e acuire. Il suo tentativo
di mettere in discussione la visione del mondo e di se stesso in cui è immerso
e di riconoscere/rifondare il senso di sé, non è stato accompagnato da una
consapevole ricerca e sostituzione di nuovi valori e significati. Così si trova
in mezzo al guado ad affrontare la vita con una “mancanza di essere” e un
fardello enorme sulle spalle, in una solitudine terrificante, non più inserito
in una rete di interessere.
Come negli antichi rituali iniziatici che
implicavano la morte simbolica e la rinascita a una nuova vita e a una nuova
identità, M. partorisce di nuovo se stesso dopo essersi guarito dalle ferite
che erano rimaste aperte nel corso del suo percorso di sviluppo e nello stesso
tempo passa da una visione puramente razionale, che lo aveva dissociato dal
corpo e dalle emozioni, all’inizio dello stadio esistenziale con una maggiore
integrazione di corpomente e con una apertura alla
dimensione transpersonale. Con la comparsa
dell’angelo fin dalla prima seduta, sorprendente anche per lui che sostiene di
avere una visione assolutamente razionale e scettica sulla realtà, dimostra che
la sua sensibilità ricettiva, l’intuizione e la creatività sono molto più
sviluppate di quanto egli stesso non sia disposto inizialmente a credere.
Inoltre, la progressiva capacità a lasciarsi andare e accogliere i messaggi che
vengono dalla profondità del suo essere, a fidarsi e affidarsi, senza
controllare, trattenere, ancorarsi alla sofferenza, come unica certezza e come
coazione a ripetere autodistruttiva, gli permettono di beneficiare al massimo di
tutte le esperienze, sensazioni, emozioni, immagini, insight
che il rebirthing gli permetterà di vivere con
intensità ed efficacia terapeutica. Si colloca qui la maggiore integrazione
delle componenti maschili e femminili della sua psiche che lo porterà anche a
riprendere attività artistiche che aveva completamente abbandonato.
Possiamo dire, sintetizzando, che il problema
fondamentale di M., come di molte persone, donne e uomini della nostra società
che non necessariamente sono soggetti ai DAP, ma che comunque esprimono un
livello elevato di sofferenza psicofisica, era quello di riprendere il cammino
evolutivo della coscienza, dopo il superamento di blocchi energetici e
problematiche psicosomatiche connessi alla necessità di ridefinire la propria identità
in relazione al mondo, raggiungendo una nuova comprensione in cui libertà e
responsabilità, scelta e destino, possibilità e limiti, io e tu fossero
coniugati in un modo nuovo e creativo. Questo ha implicato la necessità di
tornare indietro a vari momenti del suo percorso evolutivo e, soprattutto, un
confronto con la paura e con la morte. L’iniziale comprensione del
funzionamento dell’ego e della mente come costrutto sociale e collettivo e il
contatto con il Sé più profondo gli ha permesso di assaporare cosa significhi
essere soggetto della propria vita immerso nello stesso tempo in una Vita più
ampia, in cui accettare ciò che è
diventa la più grande libertà.
Dott.ssa Giovanna Visini
Associazione Rebirthing ad
Approccio Transpersonale
Via G. B. Moroni, 22
20146 Milano
Tel.
02/45 23 842; 338 21 24 389
www.rebirthing-milano.it