Segreti di Stato

di Goffredo Fofi

29 agosto 2003

 

 

Una lezione di storia, però con la maiuscola, di quelle che nelle scuole italiane non si sono mai fatte. Ma anche di cinema. Segreti di Stato è un film importante per più motivi. Perché Benvenuti è accolto per la prima volta in una manifestazione maggiore. Perché porta a compimento una ricerca decennale di stile, di metodo, di linguaggio, essendo Benvenuti allievo del Rossellini didascalico, ma in questo settore molto migliore del maestro, ed è di Straub piuttosto un fratello minore che un allievo. Perché riesce a fare quello che a nessun “brechtiano” è mai riuscito, e tanto meno al cinema di denuncia all’italiana, sempre retorico e pieno di ricatti e di trappole che fanno appello al cuore e alle viscere o alle logiche di schieramento e molto poco, o niente, al cervello. Perché contiene alcune sequenze di grande cinema: l’assassinio di Pisciotta visto dagli specchi di un mobiletto di bagno, degna di Hitchcock; e quella delle carte-fotografie che dimostrano la rete di collegamenti che, da un nome all’altro, stabiliscono a rete dell’occulto che sta dietro una strage, e che un colpo di vento butta all’aria. Dietro ogni strage italiana, quale infinita rete di responsabilità! Se il pozzo della storia lontana è forse impenetrabile, lo è ormai ancora di più quello della storia vicina, sulla quale, come è il caso di Portella, è nata ahinoi la nostra Repubblica. La “lezione di storia” di Paolo Benvenuti, allargando il quadro delle responsabilità, rimettendo in discussione le interpretazioni già date, compresa ovviamente quella del bel film di Rosi, non dice certo che le responsabilità non sono indicabili, ma che esse sono più vaste e complesse di quello che non abbiamo pensato finora. Riporta la storia italiana, dal ’45 a oggi, come un pezzo di storia dell’impero di cui l’Italia è, da allora, parte o colonia.