IL TEMPO DELLO SGUARDO
23 Aprile 1998, San Giovanni Valdarno
Intervista a Paolo Benvenuti di Roberto Chiesi


 

        Paolo Benvenuti è uno dei rarissimi autori di rilievo del cinema italiano degli anni novanta. Oltre ad alcuni documentari e cortometraggi, ha realizzato solo tre lungometraggi, Il bacio di Giuda (1987), Confortorio (1992) e Tiburzi (1996), che è stato proiettato durante il festival di Valdarno Cinema Fedic 1998.

 

Puoi parlarci dell'importanza che assegni al lavoro di documentazione storica che precede la realizzazione dei tuoi film?

La ricerca storica ha come fine la comprensione più approfondita possibile di un evento avvenuto in un'epoca diversa dalla nostra. Spesso negli eventi passati ci sono i caratteri viventi che ci coinvolgono oggi direttamente. E' molto difficile capire una realtà complessa nel momento in cui si verifica, ma ci può aiutare comprendere le origini di questa realtà. Se scopro come si è sviluppato cento anni fa un fenomeno che ci interessa oggi, sono in grado di leggere la sua forma attuale in maniera completamente diversa. Un tema mi affascina non perché io lo sia andato a cercare ma perché è il tema stesso che trova me. Tutti i miei film sono nati per caso, un giorno mi sono imbattuto in una certa storia dove ho colto un rapporto tra passato e presente. Tutto il lavoro di approfondimento storico è finalizzato a capire quell'evento nel modo più profondo e più corretto possibile. Gli strumenti del ricercatore storico sono gli strumenti di indagine, si va alla ricerca di tracce per ricostruire il senso di quell'evento. Mi sono reso conto che a volte non riuscivo a cogliere l'essenza di un evento perché cercavo di leggerlo con la mia cultura e con il mio sguardo di uomo dell'oggi. Allora mi sono posto il problema di come imparare a guardare gli eventi del passato con gli occhi del passato. Il cinema mi aiutava moltissimo, perché è un linguaggio che comunica attraverso le immagini e, visto che le immagini hanno sempre accompagnato la storia dell'uomo, nelle immagini si racchiude la chiave di come guardare la realtà di quel tempo. Se io avessi capito come osservare la realtà medievale attraverso uno sguardo medievale, e fossi riuscito a riprodurlo, allora questo approccio avrebbe dato risultati diversi da uno sguardo moderno che ci rivolge al passato. Avrei avuto una visione più forte. Man mano che la ricerca storica su un determinato argomento si andava sempre più approfondendo, contemporaneamente si approfondivano anche le mie riflessioni su come guardare dal punto di vista iconografico, studiare i pittori di quell'epoca e di quel luogo , perché, evidentemente, un luogo non è uguale a un altro. Mi sono reso conto che l'avvicinamento ad un episodio era molto più forte, soprattutto i ritmi narrativi, scoprivo i ritmi narrativi di quell'epoca. Gli uomini del medioevo, per esempio, avevano un tempo interiore diverso rispetto a quello degli uomini del Rinascimento e lo stesso discorso vale per questi ultimi rispetto agli uomini dell'età barocca e per gli uomini dell'Ottocento rispetto a quelli dell'età moderna.
Ne consegue che non si può raccontare una storia ottocentesca con i ritmi e tempi contemporanei perché non si può capire un gesto, uno sguardo, un'azione di un uomo dell'Ottocento se non lo guardo con un ritmo interiore. Devo sforzarmi di assumere il ritmo interiore di un uomo dell'Ottocento, di un pittore dell'Ottocento che si pone problemi di iconografia, cioè di immagini. Per Tiburzi, infatti, ho lavorato molto sui Macchiaioli, sulle fotografie e anche sulle immagini popolari, sugli ex-voto, sui tabelloni dei cantastorie, che rappresentavano lo sguardo popolare. Nel film si coglie lo sguardo del pittore macchiaiolo che è un pittore borghese ma anche lo sguardo popolare. C'è un'immagine della campagna toscano-laziale che potrebbe uscire dalle fotografie dei fratelli Alinari. E' un modo di guardare lo spazio dietro cui si intravede che hanno assimilato la pittura di Masaccio. La ricerca storica non riguarda soltanto i documenti storici o d'archivio che è la base del lavoro, ma è anche una ricerca sullo sguardo e sul tempo. I tre elementi chiave del racconto cinematografico sono appunto la storia, il tempo e lo sguardo.

Una volta hai dichiarato che intendi il cinema come un'arte didattica...

Il cinema cha amo fare è un cinema utile, nel senso che può essere utilizzato per lavorarci didatticamente. Confortorio potrebbe essere un film multidisciplinare che fornisca spunti all'insegnante di lettere, di storia, di educazione artistica, di religione. Lo stesso anche Tiburzi che consente di capire come il passaggio da un certo tipo di politica ad un altro può determinare fratture fortissime da cui possono nascere forme di criminalità organizzata che negli anni, nei secoli, possono diventare dei gangli cancerogeni come la mafia. I latifondisti agrari di Tiburzi li troviamo in parlamento come ministri ma amministravano le loro terre impiegando i briganti per il controllo del territorio, i rapporti tra criminalità organizzata e potere politico erano strettissimi attraverso l'interesse personale.
Tutto questo non arriva nelle scuole, la Mafia rimane un fenomeno astratto, romanzesco. Tiburzi è un film su un episodio abbastanza marginale del secolo scorso avvenuto tra la Toscana e il Lazio ma i meccanismi che hanno determinato la nascita di Tiburzi e il dominio di un quarto di secolo su un'area territoriale sono gli stessi che hanno determinato la nascita della Mafia.

Agli inizi della tua carriera hai lavorato al fianco di Rossellini. Che cosa hai trattenuto e in che cosa ti dei distaccato dal suo lavoro?

Credo di aver trattenuto l'assunto ideologico, cioè l'idea di un cinema utile, un'idea rosselliniana, non mia. Rossellini ha vissuto una crisi molto forte e da La presa del potere da parte di Luigi XIV cominciò a fare cinema per la televisione, con un percorso che, dal punto di vista culturale, mi interessa moltissimo, dal punto di vista dei risultati, invece, lo leggo in maniera difforme.
Ci sono opere molto importanti e altre poco significative, ma l'idea era importantissima. Io credo di aver ereditato questa idea e sto lavorando in questa direzione. Il bacio di Giuda è stato girato nel 1986 ma l'idea risale a dieci anni prima e nasceva come risposta a Il Messia di Rossellini. Lo accusai di aver trattato la figura di Cristo esattamente come qualunque altro personaggio della storia, come Cartesio, Socrate. Mentre la storia degli altri personaggi era basata su documenti storici che appartenevano alla scienza della storia, Rossellini ha utilizzato come documenti storici i Vangeli che non sono affatto tali, non sono la cronaca di un fatto storico rigorosamente attestato da prove archeologiche assolute. La figura del Cristo dei Vangeli non è storica ma metastorica, è una figura la cui vicenda appartiene più al mondo dell'immaginario che alla scienza della storia. Tant'è vero che non sappiamo nemmeno che viso avesse.
Addirittura io ho avuto dei problemi perché ho preso per Il bacio di Giuda un attore dal naso particolarmente lungo che mi ricordava i Cristi del Cimabue, i Cristi lignei medievali. E' stato rifiutato perché non corrispondeva all'immaginario codificato. Rossellini aveva contribuito a storicizzare qualcosa che storico non era. Io ho sentito il bisogno di fare un film antistorico dove la rappresentazione sullo schermo ha elementi di astoricità totale come, ad esempio, i soldati che arrestano Gesù vestiti come armigeri del Seicento. Si vedono oggetti anacronistici, Giuda sfoglia una Bibbia a stampa del Settecento.
Ho mescolato costumi ed epoche ispirandomi alla grande tradizione pittorica italiana.Si pensi a Caravaggio.

L'altro grande protagonista del film è Giuda...

Credo che per raccontare una storia bisogna riuscire ogni volta a trovare la chiave, non la si può raccontare frontalmente ma diagonalmente. Raccontare la storia di Cristo attraverso Giuda poteva servire a riscoprire un Cristo diverso, perché lo stiamo guardando di fianco, di lato, di dietro. Il cinema deve servire a cogliere dalla realtà aspetti inusuali, deve essere lo strumento che aiuta a leggere la realtà in modo problematico.

In Tiburzi c'è, credo, l'unica sequenza onirica del tuo cinema. Quando Tiburzi si addormenta e sogna la propria morte ma in chiave simbolica, per la prima volta nel tuo cinema c'è un'irruzione dell'onirico, c'è una visione soggettiva...

Questa introduzione dell'onirico non mi è nata da un'immagine ma da un attacco di montaggio. Mentre montavo Confortorio, ho deciso di tradire il tempo. Il film è cronologico, i fatti avvengono secondo l'ordine assegnato dal vecchio signore dalla barba bianca che redige il verbale ma, nel finale di Confortorio, io avevo girato una scena che era chiaramente avvenuta dopo la morte dei due condannati, dove il vecchio scriveva dell'ultimo tentativo di convertirli prima di condurli al martirio. Inserita prima che avvenga l'esecuzione, mi sono accorto che aveva una forte valenza onirica: sembra un sogno, la proiezione in un'altra dimensione. In Tiburzi ho voluto andare ancora oltre. Dato che il brigante era stato in Francia prima di tornare nella Maremma nel 1896, ho immaginato che potesse aver saputo dell'esistenza del cinema. Mi è venuta l'idea di inserire dei brani in bianco e nero, visioni che potevano appartenere all'esperienza di Tiburzi ma in forma di brevi film. Ho girato due scene alla maniera dei fratelli Lumiére: la marchiatura di un vitello, che non ho montato, e una sequenza con un toro che se ne stava a mollo nell'acqua. L'ho collocata alla fine e così diventa simbolica: Tiburzi si identifica col toro, un'immagine regale, come regale è il cinghiale, la cui immagine è richiamata all'inizio. La sua vicenda viene ad essere inserita tra le immagini di questi due animali. L'immagine del toro potrebbe essere più un sogno di libertà che di morte (il toro impantanato si libera e si allontana), l'idea della morte è legata soprattutto all'altro animale, una faina, che si vede in primissimo piano, con in sottofondo il ticchettio dell'orologio. La faina è un simbolo di morte nella Maremma. Impagliata, veniva messa nelle case dei contadini perché si diceva che, quando una faina viva si accorgeva che in una casa ce n'era un'altra morta, non si avvicinava e quindi non faceva strage di polli e conigli. E' la rappresentazione di un animale morto che richiama la fotografia di Tiburzi morto, legato alla colonna, con gli occhi tenuti aperti dagli stecchini. Da documenti e testimonianze, sappiamo che il brigante scriveva poesie e si dilettava di improvvisarle ai pranzi e ai matrimoni. La poesia che sta scrivendo, Orologio da rote, una poesia bellissima di un poeta spagnolo vissuto a Firenze nella seconda metà del Seicento, dice: "Mobile ordigno di dentate rote/ lacera il giorno e lo divide in ore/ ha scritto di fuor/ con fosche note/ a chi legger le sa/ sempre si muore". E' il rapporto tra il senso del tempo ed il senso della morte, tipico del fatalismo della cultura contadina, dove la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia e la morte è accettata con naturalezza. Tiburzi è l'ultimo rappresentante di una vecchia civiltà che viene schiacciata dalla nuova.

Uno degli aspetti più importanti del film è il modo in cui riprendi il paesaggio. L'individuo vi si perde, è rimpicciolito nel paesaggio. A differenza dei primi piani drammatici di Confortorio, che era giocato anche sulla massa dei corpi piagati e sofferenti, sulla claustrofobia, in Tiburzi c'è la contemplazione di un paesaggio antico che diventa protagonista...

Mi interessava riprendere l'epica del western, ma contraddicendola. Nel momento in cui ti aspetti che succeda qualcosa, nel mio film non accade nulla.
L'unica cosa che può succedere, è il passaggio del tempo che è inesorabile. I fatti umani sono così poco interessanti rispetto alla grandiosità della natura che non vale nemmeno la pena di raccontarli. L'uomo, presuntuosamente, si sente più grande della natura e la sta uccidendo, ma è solo una piccola parte di essa. L'uomo è un cancro della natura, una malattia della terra, l'uomo distruggerà la natura e quindi se stesso. Tiburzi, che è un uomo antico, che appartiene ad un'epoca che sta scomparendo, si rapporta alla natura in modo diverso, la rispetta. Gli altri, invece, viaggiano in carrozza e non hanno rapporto con la natura