L'ODORE DEL CINEMA
di Paolo Benvenuti
Dalla rivista "Lo straniero" - diretta da Goffredo Fofi
inverno 1997/98


 

        Il cinema era soprattutto un odore. Quell'odore acre, acido e intenso che sentivo dentro l'armadio dove mio padre (il padre di Paolo Benvenuti, Mario, è stato un ottimo documentarista attivo fino al 1939. Negli anni 1951-54 ha insegnato i primi rudimenti di cinematografia a Paolo e Vittorio Taviani, suoi collaboratori) teneva le pellicole. Quando ne schiudevo le scatole di metallo, quelle nere scatole tonde piene di storie arrotolate, l'odore d'aceto diventava così intenso da riempire la stanza. Avevo paura allora che rimanesse nell'aria, sospeso, e che tradisse a tutti ciò che mi era stato proibito. Mio padre non voleva nemmeno che aprissi l'armadio, figurarsi le scatole! Ma io avevo visto dove teneva la chiave e così, dopo uno sguardo furtivo a quelle figure trasparenti misteriosamente uguali, riponevo tutto al primo rumore e fuggivo via col batticuore.
        Per vederle muovere, quelle figure, si doveva girare la manovella, altrimenti stavano ferme. Ma il visore con le manovelle era sopra l'armadio delle pellicole e anche se salivo sulla sedia non ci arrivavo. Dovevo aspettare la sera quando venivano Paolo e Vittorio se volevo vedere qualcosa. Loro venivano sempre dopo cena. Mio padre stendeva allora i fili dei panni, con tutte le mollette, da una parte all'altra del suo studio, poi prendeva il visore da sopra l'armadio e lo appoggiava sul tavolo infilando la spina.
        A volte, quando i suoi amici tardavano, mi prendeva sulle ginocchia, infilava una bobina nella macchina e cominciava a girare la manovella facendomi guardare nella finestrella luminosa. Però la manovella la volevo girare io. Lui non voleva perché andavo troppo forte e si poteva rompere tutto, ma a me facevano ridere, quelle storie, solo se le giravo veloci! Quando la pellicola era finita si girava al contrario per riavvolgerla e la gente camminava all'indietro che era uno spasso. Poi arrivavano quei guastafeste dei suoi amici e io venivo messo nella poltrona vecchia. Mio padre mi guardava allora di sottecchi e sollevava l'indice dinanzi al viso. Quello voleva dire di stare buono. C'era sempre una strana eccitazione fra quei due e mio padre. Come una sorpresa da rivelare. I due erano fratelli, uno parlava in continuazione e l'altro aveva i baffi. Si levavano le giacche e tiravano fuori ogni volta un pacchetto sigillato che veniva da Milano. Dentro, lo sapevo, c'erano le pellicole sviluppate. Toglievano le bobine dalle scatole tonde di metallo nero e tenendole tra il pollice e l'indice facevano srotolare la pellicola sul pavimento. Poi si fermavano eccitati e guardavano contro la luce della lampada le prime figure. L'eccitazione a volte li faceva ridere a volte imprecare. D'un tratto si buttavano sul visore e gareggiano nel mostrare la loro abilità nell'inserire il film negli ingranaggi. Bisognava essere molto esperti per infilare i denti nei buchi della pellicola e mio padre era sempre il più bravo. Toccava a lui alla fine girare le manovelle.
        Poi mio padre prendeva le forbici e cominciava a tagliare la pellicola. Qualche volta me ne dava dei pezzi, altri me li tiravano. Ma non c'era nulla, mancavano le figure. Inutili strisce trasparenti o nere che loro chiamavano code.
        Uno dopo l'altro i pezzi tagliati venivano appesi ai fili con le mollette. Parevano stelle filanti. La stanza diventava bella come a Carnevale.
        I due fratelli discutevano e litigavano a volte su quale pezzo staccare dal filo dei panni. Quando si mettevano d'accordo passavano il pezzo a mio padre e si chetavano. Lui prendeva il pezzo a un'estremità e lo leccava, poi lo infilava in una macchina che si chiamava pressore. Prendeva il capo del film che pendeva dalla bobina inserita nel visore, ne grattava l'estremità con una limetta, la spennellava col diluente per unghie della mamma e col pressore la faceva aderire all'estremità dell'altro pezzo della pellicola, tenendoci sopra le dita.
        Allora sollevava lo sguardo su Paolo e Vittorio e contava fino a dieci. A dieci apriva il pressore e i due pezzi erano diventati uno solo. Dopo una rapida occhiata nel visore mio padre faceva avvicinare i due fratelli che per vedere meglio si litigavano il finestrino luminoso. Girando ora in un senso ora in un altro la manovella, passavano quel pezzo di pellicola avanti e indietro fino alla nausea. Per vedere se attaccava bene – dicevano – ma a me pareva che fosse attaccato, mio padre ci aveva persino soffiato, sull'incollatura! E giù discussioni a non finire. Quando finalmente si erano messi d'accordo prendevano un altro pezzo di pellicola dal filo dei panni, lo passavano a mio padre e la storia ricominciava daccapo. Dopo un po' mi addormentavo sulla poltrona vecchia e qualcuno mi veniva a prendere per andare a letto.