TIBURZI, L'ULTIMO ETRUSCO
di Cristina Piccino
Inviata a Volterra
Il Manifesto, domenica 28 luglio 1996

        Un laboratorio
        Se si dovesse riassumere l'atmosfera di Volterra teatro in una sola parola,questa è la prima che viene in mente. Non solo un luogo di ricerca e sperimentazione (sono le parole chiave del Centro di Pontedera che organizza il festival, ma soprattutto di incontri, di esperienze che vengono a contatto. Capita di parlare con Fadela e Ahcene Assous, del Theatre Lamalif di Algeri, scoprendo che hanno lavorato vent'anni con Kateb Yacine. Emozionati ti raccontano di quando lui tradusse L'Internazionale e loro la cantavano ovunque in Algeria... Poco più ìn piazza dei Priori, ragazzini, vecchietti e turisti occupano tutto il giorno le sedie davanti al palco, che bello sentirsi parte dello spettacolo anche così... Altri incontri: alle prove aperte dell' Iliade dìVassiliev c'è Grotowski, che ieri ha tenuto una conferenza. E la notte, in piazza e al circolo Frankestein, si continua a discutere, le ragazze brasiliane hanno appena finito di inscenare la loro Passione per le strade della cittadina, e le storie da raccontare, magari con un occhio alle Olimpiadi che vanno avanti malgrado tutto, sono ancora tante...

        Rossellinianamente
        Dunque è bello che al teatro quest'anno si sia aggiunto anche il cinema, nella rassegna curata da Goffredo Fofi e Luca Bosso. Tra i protagonisti della neo-sezione c'è Paolo Benvenuti, al quale è stata dedicata una mini personale: qui si è visto un frammento del suo ultimo Tiburzi che sarà presentato tra pochi giorni in concorso a Locarno. La storia? Quella di Tiburzi, appunto, brigante della Maremma morto nel 1896. ma soprattutto mito rimasto nei secoli, fino a oggi che -racconta il regista pisano - «ci sono nella zona radio di estrema sinistra che si chiamano Radio Tiburzi».
        Da qui un possibile punto di partenza: voler capire cioè perché questa figura è diventata mitica, e lo è rimasta nonostante tutto, nonostante fosse quello che Benvenuti chiama «un lacchè dei proprietari terrieri». Però, ci tiene a precisare, «io ho voluto levare il mito e ripartire dal documento». Rossellinianamente, in linea col suo cinema, fatto di ricerca minuziosa nella Storia da usare come strumento per capire l'oggi.
        Tiburzi ha alle spalle quattro anni di indagini negli archivi di stato (con l'aiuto di Alfio Cavoli), tra materiali, giornali d'epoca, e i fascicoli dell'inchiesta relativa alla vita e alla morte del «brigante». Anche Tiburzi, come tutti i miti, venne ammazzato all'alba e non era più giovane (aveva oltre 60 anni) ma sempre bello, tanto che - dice ancora Benvenuti - «l'idea del film l'ho avuta vedendo la fotografia di quest'uomo austero, con la barba bianca, scattata quando era già morto». Nell'inchiesta che seguì finirono i due contadini proprietari del casale dove venne ritrovato il corpo di Tiburzi (Pio Gianelli nel film), messo a tacere prima che sulle sue tracce arrivasse un capitano dei carabinieri, tale Michele Giacheri (Marcello Bartolomei) che poi, spiega il regista, « sarà la vera vittima di tutta la vicenda. Lui condusse le indagini in modo lucidissimo, era uno dei massimi esperti in brigantaggio, aveva già lavorato in Calabria ma non si rese conto del potere dei proprietari terrieri che gli impedirono di arrivare alla verità».
        Il film, come una indagine, copre dunque i tre giorni precedenti alla morte di Tiburzi: «Dopo 25 anni di incontrastato potere era scomparso per cinque anni, poi riapparso all'improvviso. - continua Benvenuti - Da quei documenti esce fuori che il brigante era un uomo dei proprietari terrieri e si faceva pagare una tassa per garantire loro il controllo del territorio. Ma era anche una figura complessa, uno che è finito in galera, da dove poteva evadere quando voleva, e c'è rimasto due anni per imparare a leggere e a scrivere».
        E aggiunge: «All'origine di tutto il brigantaggio, che prima dell'Unità era limitato allo stato pontificio, c'è lo stato italiano che all'improvviso cancellò le leggi di quelle che sono diventate le regioni, senza tutelare i poveri. Fino allora per esempio potevano raccogliere il grano dopo la mietitura, la legna; lo stesso Tiburzi aveva ammazzato uno che voleva impedirgli di raccogliere l'erba facendogli una multa di 20 lire... Insomma, quello che esce fuori dall'indagine è che il legame tra potere e mafia non è solo una questione del sud ma ha radici anche in Toscana, tra i nobili raffinati, visto che poi uno dei cervelli era proprio il principe Corsini».

        Un delitto di stato

        Il Potere e il suo esercizio, dunque, come negli altri film di Benvenuti, come in Confortorio e per altri versi nel Bacio di Giuda : «Qui il potere ha tante facce, lo stato italiano, i proprietari terrieri, che a loro volta hanno dei rappresentanti nel governo, Tiburzi, la gente. Se lo stato sapeva? Certo, e in qualche modo la morte di Tiburzi fu un delitto di stato, e lui d'altra parte ha scelto di morire, lo sa. Ma il film è aperto, pone delle domande, non risponde. Dal punto di vista narrativo è forse il film più semplice che ho fatto, mentre è molto complicata la struttura formale».
Lo sfondo è la Maremma, «una Maremma mai vista, non il parco dell'Uccellina, nel momento in cui lo stato italiano decide di prenderne possesso. Il territorio, soprattutto nella seconda parte del film è molto importante. In questo senso ho tentato di superare la pittoricità e di arrivare al cinema, col vento, la pioggia... il vero protagonista della parte centrale del film è il suono. Abbiamo girato in presa diretta (di Tullio Morganti col quale poi ha lavorato Alessandra Pertignani, n.d.r.)». E poi c'è la memoria di quei luoghi, un universo scomparso, contadino, persino etrusco, « perché Tiburzi è l'ultimo etrusco vivente. - conclude Benvenuti - C'è una parabola del rapporto tra antico e moderno in questa storia, che racconto senza malinconia. Mi piace pensare al cinema come a un mezzo con cui mettere ordine nelle cose dimenticate del passato, come diceva Straub, per offrire strumenti di analisi».