ECCO LA VERA STORIA DEL BRIGANTE TIBURZI
di Lietta Tornabuoni
L'Espresso n. 33 - anno XLII - 15 agosto 1996


       
Nella sua "Storia sociale della fotografia" pubblicata da Feltrinelli, Ando Gilardi descrive come venissero ritratti alla fine dell'ottocento gli sconfitti nella lotta anti-brigantaggio condotta dai carabinieri e dal recente Stato italiano soprattutto nel Mezzogiorno, in Campania e in Calabria. I briganti uccisi venivano legati con i piedi a un palo, con l'arma assicurata tra le mani, invisibili stecchini per tener aperte le palpebre: così di quei cadaveri si forniva immagine e parvenza di una vita destinata a confermare la loro terribilità. L'impresa vittoriosa delle forze dell'ordine celebrava le sue prime manipolazioni e mistificazioni. Una delle più famose immagini del genere rappresenta il brigante maremmano Domenico Tiburzi, pluriprocessato, incarcerato, evaso, colpito da diciassette mandati cattura, sette dei quali per omicidio, catturato e ucciso un secolo fa, la notte tra il 23 e il 24 ottobre 1896, in una casa colonica nelle vicinanze di Capalbio: straordinario mix formale di sapienza e narrazione molto eloquente all'italiana. Detto Domenichino a causa della piccola statura, diventò fuorilegge ribellandosi contro i campieri della marchesa Guglielmi che volevano punirlo avendolo sorpreso a rubare erba per nutrire i suoi animali. Tiburzi sparò, uccise, si dette alla latitanza. Si mise poi al servizio dei maggiori proprietari terrieri della Maremma (il principe Corsini, il marchese Guglielmi) assicurando con la propria banda quell'ordine che lo Stato non era in grado di garantire, acquisendo in cambio della protezione il proprio dominio brigantesco a lungo esercitato nella bassa Toscana e nell'alto Lazio.
        Mutata la situazione politica, l'ormai incomodo Tiburzi fu spedito dai grandi latifondisti in esilio, a Roma e poi in Francia. Dopo qualche anno Tiburzi tornò, rompendo la promessa di scomparire per sempre: questo segnò la sua condanna a morte. I latifondisti decisero di far catturare e uccidere il brigante prima che potesse venir interrogato dai carabinieri che lo cercavano: e a questo scopo si rivolsero a un brigadiere dei carabinieri più fedele a loro che all'arma. I modi della morte di Tiburzi rimasero infatti misteriosi (come sarebbe più tardi accaduto in Sicilia per il bandito Giuliano); con uno storico compromesso, venne sepolto al cancello del cimitero, metà dentro e metà fuori la terra consacrata. Lo storico intreccio italiano tra padronato, criminalità e parti deviate dello Stato è raccontato dal film con un'esemplare chiarezza; con una semplicità che fa ricorso alla cultura contadina d'epoca (canti popolari tra i quali non manca naturalmente "Maremma amara", sintesi alla maniera dei cantastorie, immagini simili a ex voto); con uno stile che s'affida alla macchina da presa fissa, alle suggestioni del paesaggio, ad attori non professionisti. La vicenda è scandita in tre tempi: l'indagine dei carabinieri; il percorso attraverso la natura dei luoghi; e l'attesa della fine da parte di Tiburzi, seduto a un tavolo, canuto, calmo, triste e solo, intento a bere vino rosso aspettando di morire. Un'altra prova riuscita di quel cinema "altro" a cui s'è dedicato Paolo Benvenuti, pisano, cinquantenne, impiegato al Provveditorato agli Studi per vivere, ex assistente di Rossellini e di Straub-Huillet, cineasta indipendente già autore degli ammirati "Il bacio di Giuda" e "Confortorio", regista diverso da tutti.