GOSTANZA DA LIBBIANO
di Roberto Escobar
dal Sole 24 Ore (11/3/2001)

 

        "E andammo via con il vento in lontani paesi... alla casa del diavolo". Così, nel 1594, Monna Gostanza da Libbiano (una grande Lucia Poli) dice ai suoi accusatori, agli occhiuti difensori della fede che la tormentano per cavarle fuori la "verità". Impegno tanto forte, questo dei santi inquisitori, che lo si deve intendere alla lettera. Gliela cavan fuori dalle membra, appunto, quella verità. Le legano le mani dietro la schiena, a un capo d'una fune che scende dal soffitto, e la tiran su, lasciandola a penzolare. Poi, quando la "strega" si dichiara vinta, la calano sul pavimento, dove il boia con un colpo secco le riaggiusta le articolazioni delle spalle. Di quel suo gesto atroce a noi, in platea, giunge il crepitio, breve e secco come l'urlo di Gostanza. Tuttavia, non è questa la violenza più terribile raccontata in Gostanza da Libbiano (Italia, 2000, 90'). Ben più impietosa è quella che alla sua anima fanno gli "amorevoli" persecutori: prima il Reverendo Messer Tommaso Roffia (Valentino Davanzati) e l'inquisitore vicario Padre Mario Porcacchi da Castiglione (Paolo Spaziani ), poi anche Padre Dionigi da Costacciaro, inquisitore generale (Renzo Cerrato). A loro con penna d'oca e calmaio e senza un fremito d'orrore, presta i suoi servigi ser Vincenzo Viviani, notaio fiorentino (Lele Biagi). Alla sua solerzia puntigliosa e glaciale si deve se ora Paolo Benvenuti può affidare i dialoghi del suo film a un "copione" ufficiale, esso stesso puntiglioso e glaciale, percorso da espressioni ormai desuete, che anche per questo hanno una sonorità inquietante. In un bianco e nero intenso, Gostanza e i suoi carnefici si fronteggiano per quasi tutto il film. Nonostante la sua solitudine inerme, nonostante l'abbandono cui è condannata dal suo ruolo di donna e di strega, lei sta loro "di fronte", appunto, reggendone lo sguardo e la prepotenza. Il dolore fisico vince più d'una volta la sua coscienza, ma sempre le riesce di capovolgere la sconfitta in un attacco, in un'affermazione impossibile di dignità e autonomia. Ogni sua frase, ogni oggetto della sua vita, ogni sua azione e affetto, tutto agli occhi degli inquisitori vale come prova del suo crimine, della sua complicità con il Nemico. Non c'è scampo per la vecchia levatrice, per la guaritrice che allevia con erbe e oli le sofferenze dei contadini. Per quanto dica - che sia veritiera o che menta -, sempre i persecutori ne traggono conferme di colpevolezza. Questa è la violenza più radicale: quest'impossibilità di prender davvero la parola, di esser parte nel giudizio, e non solo pretesto processuale, vittima designata. Gostanza è povera ed è donna: in lei si sommano due marginalità, due potenziali mostruosità. Inoltre è levatrice. Dunque, sia sul limite della vita, alla soglia dell'essere, in un luogo ambiguo e di confine, colmo di possibilità d'angoscia, di prodigio e di spavento. Insomma, è una di quegli infelici che in ogni tempo e in ogni luogo, seppur in modi diversi, sono esposti alla violenza e all'odio. La loro persecuzione e il loro dolore sono rimedi antichi, arcaiche vie di fuga dalle paure diffuse, dalle ansie individuali e sociali, dalle insicurezze dei potenti, e più in genere dallo spaesamento e dalla fatica del dubbio. Che cosa può fare, la vittima inerme, fisicamente e moralmente nuda, abbandonata ai suoi aguzzini? La regia di Benvenuti e la grandezza d'attrice di Lucia Poli trovano qui risposte emozionanti. Una prima volta, con le ossa doloranti, Gostanza guarda dritta negli occhi del Reverendo Roffia e del Padre Porcacchi. Il suo sguardo non è d'una povera vecchia vinta, ma d'una donna in rivolta. Sono una strega, afferma con orgoglio, ho fatto "malie" mortali, e voi stessi ne subirete danno. Il ruolo che le è imposto si capovolge da negativo in attivo: la vittima, la marginale, la strega si ribella, si "solleva" in quanto vittima, marginale, strega. Poi, dopo altra solitudine e sconfinato terrore, richieste di pietà e tentativi di resa, di nuovo non le resta che quel capovolgimento. Con occhi colmi di un'ultima, estrema felicità, Gostanza racconta e vive il suo rapporto con il Nemico. Non c'è altro modo, per lei, di fingersi e anzi d'essere "via nel vento". Il suo ruolo di donna e di strega non è più la sua prigione: almeno nell'attimo in cui i suoi occhi risplendono, è la sua libertà. La manderanno assolta, i persecutori (ma per sempre sarà spiata, controllata). Se non lo facessero, se non proclamassero che Gostanza mente, dovrebbero riconoscere la verità profonda della sua felicità e libertà. Ben altra, infatti è la verità del loro Nemico di quello che si son costruiti a immagine e somiglianza.