DAL MITO E DALLA STORIA IL CINEMA E' UN DONO
di Tullio Masoni

        Nel 1972 Paolo Benvenuti lavorava come assistente volontario sul set dell'Età di Cosimo dei Medici di Roberto Rossellini ed aveva alle spalle alcuni cortometraggi. Nello stesso anno, per i programmi sperimentali della Rai, va collocato un medio: Medea, il teatro del Maggio di Buti, che il regista pisano riconosce a tutt'oggi come fondamentale e di svolta per la propria opera. L'esperienza con Rossellini fu notevole: «Apparentemente Rossellini» ricorda «sembrava uno a cui non importa niente di nessuno, però dietro questa apparenza c'era pazienza, umiltà e rigore. L'ho visto fare cinquanta volte uno stesso movimento di macchina: era un carrello indietro che partiva da un dettaglio, una natura morta, un cesto di frutta e dei personaggi intorno a un tavolo, per allargarsi fino a un totale. Tutto doveva avvenire in un certo modo. A Rossellini non importava se la luce non era bella, ma quel movimento di macchina era un'equazione che doveva tornare» (1).
        Riguardo alla famosa ricettività del maestro, Benvenuti ama ripetere una risposta che Rossellini diede su se stesso proprio in quegli anni: «Io sono un asino. Sai quando gli asini si strusciano per terra? Quando si alzano gli restano attaccati addosso rametti, fili d'erba, terra...» (*). Come non accorgersi, da queste parole, che la proverbiale attitudine a cogliere la concretezza del reale è intrisa di spontanea sensualità? Rigore, dunque, e abbandono. Il cinema di Benvenuti cerca spesso di inverare questo equilibrio; tanto che si potrebbe attribuirgli, a proposito, una "proprietà" di indagine storica pressocché unica nel panorama italiano. Egli vuole dar corpo e sangue al freddo documento. Con ciò rischia di tradire, inevitabilmente, la Storia, ma non abbastanza da mistificarla con banalità romanzesche. O meglio, è fedele alla Storia come può esserlo un contemporaneo che si sforza di immaginarla, oltre che ricostruirla, in un sentimento di vita. Da una parte, in questa sua ambizione, c'è il principio benjaminiano caro a Huillet-Straub: «L'audacia del salto della tigre nel passato»; dall'altra c'è un'attrazione per la verità, limitata ma fatale, del documento immodificabile. Infine c'è una particolarissima curiosità per il sacro, visto talvolta come luogo nel quale si confrontano inesauribilmente il mito e l'antropologia moderna.
        Proprio sul sacro Benvenuti ebbe a suo tempo una discussione con Rossellini riguardo al Messia. Il film del maestro gli pareva ovviamente apprezzabile in quanto tale, ma trattava il testo evangelico, a suo dire, con una errata impostazione "oggettivistica"; in altre parole il Vangelo veniva affrontato come qualsiasi altro documento storico. Benvenuti ritiene invece di considerarlo come documento del pensiero e creazione dello spirito umano, ove con quest'ultima formula si intenda la vocazione al sublime e per Vangelo la sintesi formale più alta da essa raggiunta in Occidente. «Sono inciampato sul Vangelo» ammette da miscredente non convertito «e vi ho scoperto la matrice di ogni pensiero veramente libertario. La forza più rilevante del testo si ricava dallo scontro di Gesù con le strutture politiche; il Gesù che combatte lo strapotere del Sinedrio è profondamente antisecolare. Forse proprio per questo le stesse strutture politiche, rinnovatesi in suo nome, hanno poi cercato nella storia qualcuno o qualcosa contro cui esercitare la supremazia "morale" oltre che di fatto: gli ebrei, cioè, in quanto più vicini, i veri infedeli, e le donne, trasformate in streghe e démoni per la loro femminilità. I libri che mi hanno più formato in tal senso e che, assieme al Vangelo, ho tenuto per lunghi periodi vicini sono "L'opera del tradimento" di Mario Brelich e il "Gesù" di Dreyer, un testo di sceneggiatura mai trasformato in film, come è noto, ma perfettamente autonomo sia sul piano letterario che su quello teorico».
        Se l'insoddisfazione per lo "storicismo" rosselliniano nel Messia gli aveva confermato la priorità del simbolico, nondimeno la Storia, che assieme al simbolico si struttura, restava una decisiva occasione: «Il documento» dice «dà il gusto della scoperta ed esige uno straordinario impegno di rappresentazione: la verità è molto più affascinante della fantasia». Ecco allora La strega Gostanza, il film che Benvenuti sta girando adesso e che, tiene a sottolineare, completerà il trittico di cui fanno già parte Confortorio e Il bacio di Giuda. «Il trittico» spiega il regista «ha Il bacio di Giuda come tavola centrale, Confortorio e La strega Gostanza ai lati. La strega Gostanza è ricavato dai verbali di un processo, pubblicati in un libro curato da Franco Cardini. Se limitiamo la mia opera ai lungometraggi, è il quarto film, ma avrebbe dovuto, anche per coerenza col tema del sacro, essere il terzo. Tiburzi in un certo senso è un passo avanti rispetto al Bacio e Confortorio – un passo avanti nel senso dell'"anomalia" e della dichiarata libertà di scrittura – mentre La strega è, rispetto a Tiburzi, un passo indietro».
        A questo punto, dopo Rossellini, occorre sia pur brevemente chiamare in causa – quali numi tutelari venerati e "scomodi" – personaggi come Danièle Huillet e Jean-Marie Straub. Benvenuti ha lavorato con loro in Moses und Aaron, nel 1974, ma, a parte questa esperienza, ha svolto una preziosa funzione di "accompagnatore". Intendo dire che nell'opera italiana di Huillet-Straub un rilievo non trascurabile ha avuto la conoscenza delle tradizioni teatral-popolari di Buti e che, a riguardo, il regista pisano s'era già fatto notare con la ricordata Medea. Tornando alla filmografia di lungometraggio a prescindere da cronologie reali o virtuali, cioè mantenendo Tiburzi nella posizione di terzo, azzarderei che proprio quest'ultimo lavoro è quello più huillet-straubiano. Il bacio di Giuda coi maestri faceva i conti dal vivo e avviava l'autonomia; Confortorio li metteva fra parentesi, cioè lasciava che agissero sul metodo ma, per così dire, dietro le quinte; Tiburzi celebra un distacco metodologico e stilistico ma, proprio per questo, recupera l'"espediente" del mito in forma matura e, soprattutto, il concetto di Storia come simultaneità, ossia come spazio che concentra il tempo.
        Ovviamente il film vale per quel che ha da insegnarci ben oltre i debiti e gli omaggi. Vale in quanto "lezione di storia" concepita nei modi della più alta scientificità contemporanea. «La perlustrazione di Tiburzi» osserva puntualmente Goffredo Fofi «è ostinatamente, minuziosamente, realisticamente storico-geografica insieme, come Tiburzi esigeva, bandito di strada e di macchia, di forre e di grotte, di casolari e di rocche, dentro un paesaggio di natura e di civiltà, transfuga dal secondo ma obbligato ad agirvi. Ma è proprio la confluenza fra il mondo reale della storia e quello concreto della natura a produrre il mito, storico e anti-storico insieme, del brigante. E l'astuzia del regista sta allora nel collocare le spie del mito dentro i luoghi della storia, ad accostare e scostare il mito, a leggerlo criticamente bensì aderendo alle sue ragioni, o volendole assumere» (2).
        Una lezione di storia. Sa il cielo quanto sia necessario farne oggi, innovando stili e metodi; oggi che ogni patrimonio memoriale tende a inaridirsi e a rinchiudersi nelle cripte degli specialismi, e il cattivo uso delle nuove tecnologie fonda presunzioni di catalografica onniscienza. Ancora Fofi, in proposito, usa termini quasi programmatici: «Se l'Italia non fosse il paese balordo che è, e la cultura delle sue istituzioni una delle più squilibrate e insensate che sia possibile ipotizzare, il Tiburzi di Benvenuti sarebbe – magari a fianco e in aiuto, che ne so?, ai Promessi sposi e ai manuali di storia – una "lezione" che, con i modi di un'arte adulta, rigorosamente semplice nell'approccio e rigorosamente complessa nelle sue aperture, potrebbe aiutare gli studenti, e cioè noi tutti, a capire meglio di dove veniamo, e perché siamo come siamo» (3).
        Ce n'è abbastanza per collocare Benvenuti nella prospettiva "necessaria" del nuovo secolo? Certo. Ma rimane qualcosa da aggiungere. In primo luogo che il valore intrinseco del suo cinema, quello cioè che stima una rinnovata ricerca di linguaggio e di rapporto con le fonti, non preclude alcuna ambizione "spettacolare". Cinema di "non-fiction" nella sostanza e nei presupposti teorici, è anche cinema "fiction" nel cosciente uso di certe convenzioni formali. Ora, se come penso il futuro del cinema sta nell'estensione della "non-fiction" in alternanza con una "fiction" di alto profilo – un po' come è accaduto e accade col romanzo –, il cinema di Benvenuti potrebbe rispondere a entrambe le esigenze, non perché prometta una via mediana ma perché già ora presenta una fisionomia autonoma e matura. In secondo luogo mi pare di grande interesse la figura professionale di cineasta che Benvenuti incarna: autore part-time, o prestato al cinema dal lavoro di impiegato, e tuttavia lontanissimo dall'amatore o dal cine-videomaker in fregola perenne. In terzo luogo, infine, mi sembra preziosa un'arte che concepisce se stessa come ricerca e dono. Benvenuti ammette di aver cominciato col cinema sapendo di «non aver niente da dire» e che, dunque, gli restavano le scoperte da offrire agli amici in dono. Pensate: tutto un film ad alta professionalità come dono. C'è da stupire e rallegrarsi davanti a un'utopia simile.
        Dopo La strega Gostanza, Benvenuti potrebbe dedicarsi a un altro progetto: un film sulla strage di Portella della Ginestra, maturato negli anni scorsi quando collaborava alla scuola di Danilo Dolci: «Col materiale che Danilo custodiva e le piste che mi aveva indicato prima di morire» afferma il regista «si potrebbe fare un film fondamentale sulla storia d'Italia dal dopoguerra a oggi». Per uno che parte dall'invidiabile condizione di non aver niente da dire e dal desiderio di fare un dono, lavorando magari alla sua preparazione per anni, il progetto, oltre che caldeggiabile, mi sembra davvero grandioso.

(1) Paolo Benvenuti: Non sono un regista italiano..., in: Tullio Masoni (a cura di), «Paolo Benvenuti», Sant'Ilario d'Enza, 1994.

(*) Tutte le parti di discorso non contrassegnate dal numero di nota sono desunte da una conversazione informale col regista. Giugno '99.