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Incontro con Paolo Benvenuti
Torino, 21 marzo 2001

Doppiaggio fascista: "un sistema barbaro che toglie il piacere del suono, di sentire il fruscio delle vesti"

L'incontro che abbiamo avuto con Paolo Benvenuti - una persona di una disponibilità deliziosa, la cui pacatezza non soffoca l'adamantino impegno civile e politico, uno dei pochi che ancora usano il termine "fascista" come insulto (e il regista che usa solo la presa diretta lo scaglia contro il sistema del doppiaggio, che fu voluto da Mussolini in occasione dell'autocratica difesa della lingua: "un sistema barbaro che toglie il piacere del suono, di sentire il fruscio delle vesti") - ci permette di integrare le impressioni derivate dalla visione del film con le precisazioni che ci ha regalato in una serata di "rivelazioni" interessanti.

Nel suo ultimo film ci sono insistite riprese di finestroni fonti di luce esterne che inondano la torre, corrispondono alla rosselliniana acquisizione dell'offerta della realtà: il regista adatta quella luce naturale proveniente da un ambiente che è lo stesso teatro dell'azione di 500 anni fa. E così a partire dall'accettazione della realtà, adattata alla fotografia, si ottengono momenti di grande poesia; dal desiderio di "operare affinché si possa osservare la natura per l'avvenire" si arriva a scoprire la luce autentica ("C'erano due fonti di luce: una un po' più forte e un'altra diffusa", il resto era questa inondazione che proveniva dalle finestre) tra i corridoi bui e i saloni spogli, nei quali si stagliano le ombre; queste ultime sono proiezioni di corpi e talvolta li sostituiscono. Quello di Lucia Poli possiede una conclamata fisicità, la sua alternanza con le ombre deriva "soltanto" dall'esigenza di diversificare le suggestioni, mantenendosi però fedeli ai documenti: le sedute di tortura attestate erano tre e quindi dovevano essere mostrate tutte. Questa esigenza di precisione, associata alla ricerca da parte dell'occhio del pittore di quale sia la giusta inquadratura arriva a creare sequenze particolarmente felici, come appunto la soggettiva, percepita all'inizio come falsa, perché vediamo allungarsi sotto di noi l'ombra di Gostanza appesa, poi con l'ingresso in campo del primo inquisitore che si rivolge verso la cinepresa, operiamo l'equivalenza tra la torturata e la mdp; in quel caso di totale immedesimazione attraverso una inquadratura particolare avviene anche la trasmissione di una percezione di supremazia della "strega" sui suoi persecutori ed è importante che avvenga in un momento in cui il suo punto di vista coincide con quello del pubblico. Sono criteri puramente dettati da fascinazione eppure questa estrema fisicità di Gostanza che è fatta di carne, a tutto tondo, diventa anche e soprattutto incarnazione di un'idea di resistenza.

Cinema utile: "rispettare il respiro della realtà" (...) "Ogni soggetto può essere ripreso da infiniti punti di vista, ma è il soggetto stesso che richiede qual è il lato migliore: il maggior numero di informazioni con il minor numero di elementi rappresentati deve essere il criterio da tenere sempre presente" (...) "Il cinema non è un veicolo di contenuti, ma è linguaggio. L'inquadratura è qualcosa che ha a che fare con la matematica, la geometria. Io faccio un cinema che cerca di recuperare questo sguardo, uno sguardo che sceglie. Questo sguardo consapevole ha caratterizzato il cinema fino alla fine degli anni 50, poi si è perso. La consapevolezza dello sguardo significa anche ricercare una fedeltà allo sguardo di chi si rappresenta, una ricerca accurata, ancora più occupandosi di film storici."

Questo spiega il concetto di cinema utile che trova ragione di essere nell'intento di "rispettare il respiro della realtà". L'autore si inalbera quando si parla di cinema "lento", perché vuole che venga spiegato rispetto a quale parametro si può parlare di lentezza. Se questo è il ritmo imposto dalle multinazionali, dal neo-liberismo produttivo, allora rivendica la sua scelta di rifiutare quella frenesia a favore di un altro ritmo a cui ricondurre ogni scelta espressiva: il ritmo cardiaco deve ridiventare l'unità di misura per restituire la capacità di rispettare ciò che si sta guardando: "perché tagliare il vento che scompiglia gli alberi?". Allo stesso modo c'è un piano sequenza di 7'20'' in Gostanza, mantenuto perché funziona la tensione emotiva: egli aveva ripreso sia Lucia Poli monologante sia i suoi interlocutori, poi il respiro dell'azione fu tale che preferì non tagliarla per inserire altri punti di vista. "Ogni soggetto può essere ripreso da infiniti punti di vista, ma è il soggetto stesso che richiede qual è il lato migliore: il maggior numero di informazioni con il minor numero di elementi rappresentati deve essere il criterio da tenere sempre presente".

L'attrice: "Lucia Poli, che ha dovuto lavorare per non buttare fuori tutto come si fa in teatro. Più che un film sul corpo, è un film sull'anima (che è ciò che si filma di un attore cinematografico, contrariamente a ciò che viene comunicato a teatro), di cui il corpo è involucro. Ho voluto ridare dignità all'attore proprio come soggetto di cui si mostra l'anima."

Si sprecano le immagini affezione sul volto di Lucia Poli, tagliato a metà: può essere una ricerca di un'anima divisa tra la sua visionarietà (quella che tiene in scacco l'altro immaginario istituzionale), la parte in ombra capace di raccontare le favole, e la conoscenza dei saperi naturali (le erbe, i rudimenti di fisica e chimica): infatti il regista ha detto a proposito della donna processata che "il corpo è solo involucro dell'anima" e probabilmente questa fotografia contrastata ricavata dall'uso di quelle luci, impegnate a non trasfigurare la realtà (la quantità di luce era tale, che risulta impossibile non venirne attratti o eluderla), racchiude anche nel volto di Gostanza l'arcano del passaggio epocale: compresenti in un unico primo piano, con l'elemento minimo del viso, sono evidenti i tratti delle due epoche diverse. Potrebbe essere un modo per rappresentare la dicotomia del tardo '500: con gli ultimi afflati rinascimentali che si trovano a scontrarsi con il virus barocco. In pratica l'epoca compresa, nelle sue contraddizioni, nella resistenza di Gostanza già contaminata dall'immaginario fantastico del barocco, eppure ancora figlia del rinascimento; il momento in cui è più evidente il taglio tra luce e ombra sul suo volto è infatti quello in cui i capelli le scivolano come un sipario ulteriore e lei comincia ad autodenunciarsi, innescando quella forma di resistenza apparentemente folle ed invece così sottilmente eversiva da tenere in scacco le vecchie modalità di espressione del potere.

Il potere: "Nel film ci sono due processi, due fasi. Nel primo, i più ingenui inquisitori sono portati a condannare Gostanza. L'inviato del Sant'Uffizio, invece, rovescia la strategia passando dalla condanna (che avrebbe riconosciuto l'eversività dela femminilità di Gostanza) alla negazione, e ha come risultato la morte civile, l'emarginazione. In questo ci vedo un passaggio dal processo medievale al processo moderno. Vedo molte similitudini con processi che si svolgono oggi." (...) "Non essendo sul mercato, vivendo e mangiando con un altro mestiere, non sono ricattabile. Il film è costato 1,5 miliardi. Tutti i miei film sono fatti con soldi pubblici. Questa legge che tutti biasimano permette che vengano prodotti questi film."

Infatti il regista ci conferma che la sua poetica mira a far rilevare i meccanismi del potere invariati nel tempo nelle sue trasformazioni e nei camuffamenti dei mezzi di repressione: la rappresentazione si cimenta nell'individuazione di un processo invariato da parte del potere, che si modernizza, diventando più infido, e cambiando il proprio approccio inquisitorio non è più contrastabile: le contromisure sviluppate - quasi degli anticorpi quelli messi in atto da Gostanza - non sono più efficaci per il nuovo aspetto che la reazione assume quando la microfisica del potere si accorge che ai suoi metodi si è trovato l'antidoto. Ecco dunque apparire Dionigi Costacciaro, l'inquisitore nuovo per applicare i nuovi metodi, di fronte ai quali Gostanza capitola, ammette di aver inventato tutto: il suo racconto era frutto del sapere popolare elaborato sapientemente, rappresentava il successo nell’intento di "riuscire a immaginare il diavolo". Questo è il vero potere che si contrappone all’autorità e che dalla versione moderna di questa viene negato, non riconosciuto e da questa viene decretata la morte civile con il confino, perché non contamini il nuovo ordine. Dunque una sconfitta, come avviene da sempre nella contrapposizione al potere delle classi subalterne.

In fondo la circolarità del ritorno della prima immagine nell'ultima serviva per sottolineare che alla fine, conclusa la resistenza surreale (attraverso l'auto-denuncia che esalta un immaginario alternativo), si torna ad avere la situazione iniziale di marginalità della donna, non piegata ma esiliata, mentre dall'altro lato rimane inscalfibile l'intolleranza ideologica dell'inquisizione nella minacciosa silhouette della torre, solo che ha cambiato orizzonte di riferimenti e metodi: è passato dal processo medievale a quello moderno, come il capitalismo si è evoluto e sta schiacciando la democrazia popolare, evolvendo verso una oligarchia finanziaria senza diritti.

Si direbbe addirittura che il primo inquisitore stesso sia preda di dubbi: quello sguardo dall'alto sulla bambina al pozzo evocativo di Ivan, non trasmette sicumera, piuttosto come un'ombra di dubbio. Persino quando c'è la divisione manichea all'inizio tra lei in luce che occupa la parte destra dello schermo e l'inquisitore racchiuso nella penombra, quasi mai a figura intera, anzi spesso presente per particolari, o addirittura invisibile, persino in quel caso i due mondi hanno una zona grigia di incontro dalla quale sembrano scaturire le visioni sataniche non ortodosse di Gostanza, ma anche le perplessità dell'inquisitore. E questo è molto pericoloso per il potere, che interviene cambiando completamente l’universo di riferimenti.

"Al contrario di Confortorio, Gostanza è stato girato senza storyboard. Confortorio rappresenta una profonda riflessione sull'inquadratura ed è il prodotto di un grande lavoro sulla pittura."

Lungo tutta la trilogia (Il bacio di Giuda vedeva sorgere il fatto a partire dall’impianto, Gostanza - come Tiburzi - invece fa sì che i personaggi determinino il fatto, mentre Confortorio riceve l’impianto e il fatto totalmente costruiti a tavolino a priori) si nota una passione per la storia, apparentemente senza fini didattici, di quella che si costruisce a partire da documenti, ma soprattutto che dall'episodio lascia trasparire la ricostruzione della Storia. Quella di Benvenuti è una ricerca storica dell’immagine: è come se ci fosse la sensazione che ogni piega della storia abbia lasciato qualcosa di irrisolto che si trascina invariato fino a noi, ma l’inquadratura giusta lo può rivelare, urlare che il re è nudo. Infatti per il regista l’immagine è un valore in quanto rappresenta un punto di vista preciso sulla realtà, matematico, estetico, un elemento formale che l’autore sceglie come fa il pittore; di qui nasce l’esigenza di riferimenti, che per Benvenuti sono i registi precedenti agli anni cinquanta, un momento in cui si è persa la percezione dell’immagine che caratterizzava Dreyer, Bresson, Bergman, Ozu, per i quali esisteva ancora quel ritmo che la globalizzazione capitalista ha distrutto. E che Benvenuti cerca di restituire a quei pochi che riescono a vedere i suoi film, con maniacale ricerca dei particolari: per Tiburzi, il racconto del brigante maremmano, è andato a riesumare le fotografie degli Alinari, gli ex voto dei cantastorie e si sentono echi dei Macchiaioli, mentre in Gostanza è evidente l’arte luministica di Caravaggio, che sta a monte di quelle lame di luce che s’impongono nelle segrete. Ma non solo: egli è andato a scovare Stefano Bacci, un giovane amanuense, che - come per certi monumenti viventi giapponesi - vediamo alle prese con il pennino, mentre forgia un documento in stile secentesco: questi è uno dei pochissimi in grado di effettuare questo tipo di scrittura e i gesti documentati dalla mdp restituiscono un tratto e dei movimenti fluenti che paiono danzare sul foglio.

Il bianco e nero e la location: "i cromatismi della campagna toscana a fine ottobre erano troppo belli: quegli ocra, quell’esplosione di luce avrebbe distratto con la sua bellezza"

Le parole sono evocative. Gli elenchi di erbe, noci moscate… somigliano a una litania laica, ammaliante: parte di questo effetto è dovuto al mestiere teatrale di Lucia Poli. E invece l'uso di formule ("non vi ho da curare io, ma vi ha da curare iddio") impatta sulla fonè e quindi sul Verbo: la macchina da presa sembra attratta dalla voce di Gostanza che saccheggia l'immaginario popolare, ma più che dal racconto e dalle teratologie (che catturano i due inquisitori ancora suggestionabili dai racconti popolari, mentre Dionigi da Costacciaro colpirà invece i racconti moderni di Giordano Bruno) sembra avvicinarsi a lei fisicamente soprattutto per una affezione al timbro del sussurrato dell'attrice; Benvenuti dice che era a tal punto interessato alla Parola, che ha deciso di agire per sottrazione su tutto il resto, affinché il pubblico non venisse distratto dalla percezione delle parole, assaporando proprio la melodia. Così gli elementi scenografici sono stati ridotti all’essenziale, anche alcuni personaggi sono stati eliminati e addirittura alla fine anche il colore ha dovuto lasciare spazio per dare il massimo risalto alla forza evocatrice della Parola, perché "i cromatismi della campagna toscana a fine ottobre erano troppo belli: quegli ocra, quell’esplosione di luce avrebbe distratto con la sua bellezza". E quello che doveva risaltare era la capacità di affabulare e da quei racconti comunicare l’aspetto della Città del Diavolo immaginata da Gostanza allo spettatore, a ciascuno la sua città.

"Il progetto del film è nato già nel 1990 e si è realizzato nel 1999. E' stato un lungo processo di "levare", di sottrazione." (...) "La sottrazione voleva dare risalto alla parola evocativa, al gusto oggi perduto della narrazione e delle immagini che essa genera (pensate al volto del diavolo descritto da Gostanza)." (...) "La musica è ridotta all'osso, anzi nella copia definitiva del film non c'è nemmeno, anche se nei titoli di coda c'è una citazione: questo perché all'ultimo momento e a titoli già stampati, ho deciso di togliere anche quel pezzo. Il motivo della scarsezza di musica è il mio disprezzo per il doppiaggio"

In questo procedimento c’è la lezione di Bresson, senza che si indulga allo stesso afflato spirituale, perché i maestri di Benvenuti sono anche Snow, Warhol, le avanguardie sovietiche: l’affacciarsi dell’inquisitore al finestrone deve molto a Ivan, ma forse è uno di quei casi in cui l’autore si schermisce, dicendo di non conoscere un’opera dal titolo, quando probabilmente essa lavora in lui dopo una fugace visione, ad esempio l’Angelus di Millet tanto caro a Dalì e Buñuel sembra evocato nella sequenza del camino con il francescano e Gostanza di profilo che ricalcano la positura del quadro, tuttavia Benvenuti non lo conosce. Questo avviene perché il cinema è vissuto come momento multidisciplinare, crogiuolo in cui si mescolano contributi diversi, che si amalgamano, portando a compimento il corto circuito tra le arti; in Gostanza trovano spazio echi da I Benandanti, a Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi) e da tutte quelle pietre miliari della storia orale. A questo proposito il regista ama ricordare che c’è una diatriba su chi abbia condizionato l’altro: se siano state le opere d’arte a ispirare la commedia dell’arte in certi tableaux vivant e in talune rappresentazioni o non piuttosto viceversa, il teatro sta a monte di taluni affreschi. Lui ama pensare - e evocare da parte sua, proseguendo la catena - il fatto che si viene a creare una rappresentazione di una rappresentazione della realtà in un graduale allontanamento dalle idee platoniche per avvicinarsi invece alla realtà come ci viene recapitata dalla sensibilità di un’artista, che mantiene una maggiore aderenza con la realtà, nonostante le mediazioni, che ne hanno soltanto arricchito l’immaginario.

Niente da dire: "Sono solo curioso; prima di trovare le storie non ho nulla da raccontare"

Due aspetti stanno a cuore al regista e si intrecciano: l’ambito didattico e la distribuzione. Egli è un insegnante e a cagione di ciò non è ricattabile; fa cinema come noi la rivista, senza scopi di lucro, senza doversi mantenere con questo tipo di lavoro e dunque può permettersi di rifiutare compromessi: il suo cinema sarà sempre "utile" o non sarà; iniziò seguendo l’impulso di raccontare le storie che nella sua infinita curiosità trovava nei suoi pellegrinaggi ("Sono solo curioso; prima di trovare le storie non ho nulla da raccontare") e così continua a fare. L’unico suo obbligo è quello che si è auto-imposto, un dovere morale di rifondere almeno in parte le sovvenzioni che lo stato gli ha elargito. Ma l’aspetto didattico non si ferma al suo mestiere, bensì si allarga nelle sue frequenti proposte di testi filmici alle scuole per alfabetizzare, perché ritiene essenziale trasmettere i rudimenti della lettura delle immagini e del testo filmico con lo scopo di evitare l’omologazione del gusto sugli standard che impediscono di discernere la bellezza delle immagini da lui prodotte.

Il fatto che non sia un regista, ma un insegnante ha impedito che potesse proseguire la sua collaborazione con la Scuola Nazionale di Cinema di Roma, poiché Caterina D’Amico, figlia di Suso Cecchi D’Amico, lo ha cacciato dalla docenza con la motivazione che non "è" un regista. Infatti è un insegnante.

La vita del film: "La politica distributiva è mafiosa e condizionata dal capestro dell’accordo stipulato dall’Italia con gli Usa nel 1947" (...) ". La distribuzione nelle sale mi interessa forse meno della circolazione nelle scuole. Anche l'autore è responsabile: secondo me, abbandonare il film, una volta terminata la produzione, è sbagliato, perché è proprio in quel momento che comincia la vita del film"

Questo inficiò anche probabilmente un’iniziativa che aveva già una struttura, una sede, il personale altamente specializzato da occupare e l’appoggio del comune di Palermo; poi Lino Micciché arrivò da Roma e impose al sindaco Orlando di non dare corso alla scuola di cinema, cui Benvenuti stava lavorando e che Danilo Dolci stava organizzando. E questo si intreccia al giudizio sulla distribuzione: "La politica distributiva è mafiosa e condizionata dal capestro dell’accordo stipulato dall’Italia con gli Usa nel 1947 che prevedeva si dedicassero il 90% delle sale del territorio nazionale per le proiezioni di cinema americano; un contratto che scadeva cinquant’anni dopo e che l’Italia si è affrettata a rinnovare nel ’97 solo riducendo la quota del 10%".

a cura di Adriano Boano e Marcello Testi