PERCORSI DI EDUCAZIONE

ALLA CITTADINANZA



Unità di lavoro


Ragionando di giustizia e ingiustizia






A. S. 2008/2009

Scuola media statale “Cardarelli” di Milano

Classe I C

Prof. Paolo Alpino





Riferimenti bibliografici:


J. L. Nancy, il giusto e l'ingiusto, Feltrinelli 2007

G. Colombo, Sulle regole, Feltrinelli 2008

(a cura di Paola Ronfani), Non è giusto! Dilemmi morali e senso della giustizia nelle rappresentazioni degli adolescenti, Donzelli 2007




Introduzione e obiettivi


L’esperienza del lavoro che qui si presenta è stata realizzata con alunni di I media di 11 o 12 anni: la scommessa che vi stava alla base – vinta alla luce dei risultati conseguiti – è che si potesse contare sugli adolescenti come persone capaci e mature, come cittadini informati e responsabili, insieme ai quali conoscere, dibattere e valutare questioni relative alla giustizia (e all’ingiustizia).

Le questioni presentate variavano dall’esperienza più prossima a quella degli adolescenti, perché legata a dinamiche di gruppo a loro note – la famiglia o il gruppo degli amici – fino ad esperienze più lontane e astratte, di cui essi venivano a sapere attraverso la mediazione dell’insegnante e/o la lettura di testi: in entrambi i casi gli alunni hanno sperimentato la fatica della giustizia e hanno preso consapevolezza che il fare giustizia è attività complessa e difficile, tante sono le variabili di volta in volta presenti nei diversi contesti, così da rendere impossibile ridurre quella fatica ad un’applicazione meccanica e sicura di una regola.


Contemporaneamente al dibattito sui casi di giustizia e alla messa a fuoco dei concetti collegati al termine “giusto”, gli alunni hanno collegato l’esigenza di giustizia alle caratteristiche dell’uomo in quanto animale politico, uomo che vive in società, all’interno della quale nascono e si sviluppano i problemi di convivenza. La giustizia non è un’arte di pochi professionisti quindi ma l’esercizio di una dote che gli dei hanno donato a tutti perché appunto sia possibile la società (come si evince dal mito di Platone sulla genesi della giustizia)

Acquistavano contorno così i profili di due società entro cui collocare e risolvere i problemi di giustizia: una autoritaria, l’altra democratica, l’una basata sulle gerarchie fra gli uomini, l’altra per sua natura volta al riconoscimento dell’universale singolare, che è ogni singolo individuo, la prima con tanti esempi ben realizzati, la seconda più difficile da proporre e soprattutto più difficile da realizzare con efficacia.


Nell’orizzonte della società democratica, in cui gli alunni si sono più ritrovati, essi hanno sperimentato la tematica dei diritti e dei doveri proponendo, a partire dalle loro esperienze, carte del cittadino bambino e hanno potuto constatare quanta strada sia stata fatta per realizzare quelle carte e quanta strada ci sia ancora da fare per realizzarle del tutto.

La conclusione, difatti, che il lavoro stesso sui casi di giustizia, portava alla luce è che non c’è affatto una conclusione: con le parole del filosofo possiamo solo dire che “essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre” (J. L. Nancy, il giusto e l'ingiusto, Feltrinelli 2007, pag.28).


Il metodo usato nell’indagine sulla giustizia assieme agli alunni è fondamentale. Nel secondo quadrimestre due delle ore di italiano sono state usate per privilegiare una modalità collaborativa del lavoro scolastico: quasi sempre la classe è stata divisa in gruppi, ai gruppi si demandava una prima scrematura di opinioni, alla classe i gruppi attraverso i portavoce di volta in volta scelti riferivano sui risultati conseguiti, la classe infine registrava i diversi punti di vista e, alla fine, decideva il verdetto per il caso proposto mediante votazioni. Ma non finiva qui, perché si trattava di esplicitare i criteri scelti, di confrontare gli uni con gli altri, di vedere i limiti delle decisioni adottate e i vantaggi di altre scelte possibili.

Come si vede non si voleva prescrivere valori di giustizia e raccomandarne l’applicazione ai casi proposti, si trattava invece di far nascere i problemi e le soluzioni facendo affidamento sulla capacità che gli adolescenti hanno di provare sentimenti morali, di fare ragionamenti sulla base di tali sentimenti, modificando talvolta stereotipi di comportamento e pratiche abitudinarie


Detto in termini più tecnici, l’alunno ha sviluppato in questo percorso competenze tipiche da testo e contesto argomentativo. Data una situazione per lo più si operava:



Nel resoconto dell’esperienza, per ogni fase operativa, si indicano le indicazioni fornite dall’insegnante, i testi utilizzati, le procedure attivate dagli alunni, e i risultati ottenuti.

Quanto ai casi di giustizia proposti si è in gran parte in debito con precedenti esperienze didattiche (cfr AA.VV, Non è giusto! Dilemmi morali e senso della giustizia nelle rappresentazioni degli adolescenti, Donzelli 2007). Per i testi per lo più si è fatto ricorso a quelli di una comune antologia di italiano, ma altri possono benissimo svolgere la medesima funzione.

Percorso di lavoro:




  1. Introduzione e messa a fuoco: cosa significa “giusto”? Gli usi linguistici della parola e la complessità del concetto di giustizia.

  2. Analisi di tre casi di giustizia. Discussione, decisioni ed esplicitazione dei criteri usati

  3. Come è nata la giustizia? (dal Protagora di Platone)

  4. Primo modello di società: la società verticale

  5. E' giusto ribellarsi alle leggi ingiuste? Analisi di un caso di giustizia: Michael Kohlhaas

  6. Secondo modello di società: la società orizzontale

  7. La carta dei diritti (e dei doveri)

  8. I diritti dei bambini sono rispettati? La giustizia come un ideale (che modifica la realtà)

  9. Casi di giustizia nelle società dei bambini

  10. Conclusioni e verifica finale



  1. Introduzione e messa a fuoco: cosa significa “giusto”?

Gli usi linguistici della parola e la complessità del concetto di giustizia.



Non è giusto! Non mi ammalo mai quando c'è scuola!

Tagliando la torta hai fatto delle parti giuste.

La tua osservazione è giusta.

Hai l'età giusta per fare nuoto?

Vorrei giusto sapere di cosa parlerai.

Il giudice ha inflitto una giusta pena.

Paolo è stato giustamente condannato.

E' giusto votare a 18 anni.

Ecc. Ecc




Uguaglianza

Precisione

Adeguatezza

Verità

Fortuna

Conformità a legge

Esattezza

Ecc. Ecc.





  1. Analisi di tre casi di giustizia.

Discussione, decisioni ed esplicitazione dei criteri usati


Il metodo è quello della discussione a piccoli gruppi, ciascuno dei quali propone poi a classe intera i risultati del dibattito: alla fine si tabulano le osservazioni più importanti, si confrontano i punti di vista e, mediante votazioni, si prendono decisioni sui casi in questione


I caso. Il signor Carlo chiede a Gianni, Luca ed Elisa, figli di alcuni vicini di casa, se vogliono guadagnare 15 euro lavando la sua automobile. I ragazzi accettano. A lavoro concluso, il signor Carlo deve decidere come distribuire la somma tra i 3 ragazzi.

Immagina i diversi modi in cui il signor Carlo può distribuire la somma tra i ragazzi.


Nelle risposte e nella discussione prevale di gran lunga il criterio di giustizia distributiva in parti eguali, come se a contare sia il gruppo e non i singoli bambini che vi fanno parte.

Meno voti prendono i criteri: di più a chi ha lavorato di più, decidono i ragazzi stessi, di più al bambino la cui famiglia è in difficoltà economica


II caso. Nel comune di Vattelapesca un benefattore lascia al sindaco una somma di denaro per istituire delle borse di studio a favore dei ragazzi che hanno ultimato le scuole medie. Il sindaco deve decidere come distribuire il denaro.

Immagina le diverse proposte possibili.


Nelle risposte e nella discussione prevale un criterio diverso, quello del bisogno: le borse di studio vanno date agli studenti in difficoltà economiche. In subordine compare il criterio secondo il merito, certificato dal punteggio d'esame o da un ulteriore concorso.


III caso. La paghetta è giusta? Discutete il problema osservando le seguenti fasi di lavoro:

Trovate le ragioni che ci fanno dire che la paghetta è giusta.

Trovate le ragioni che ci fanno dire che la paghetta non è giusta.

A quanto deve ammontare la paghetta? Ogni quanto deve essere data?

Come si stabilisce e chi la stabilisce?

Immaginate infine una discussione in famiglia in cui si contratta la paghetta. Scrivete le battute che potrebbero pronunciare genitori e figli, distribuitevi le parti, e recitatele realizzando una piccola drammatizzazione.


Dalle risposte e dalle situazioni proposte la paghetta ed il suo ammontare appaiono giusti se sono il risultato di una contrattazione tra genitori e figli, non un atto unilaterale degli uni o degli altri. E’ fondamentale quindi la discussione tra le parti.





  1. Come è nata la giustizia? (dal Protagora di Platone)



nascita delle stirpi mortali

equilibrio di Epimeteo nella distribuzione delle risorse e delle caratteristiche alle diverse specie, precarietà della specie umana

furto del fuoco da parte di Prometeo e donazione dello stesso e della perizia tecnica agli uomini

sviluppo della civiltà degli uomini e suoi limiti

difficoltà della convivenza fra uomini

“rispetto e giustizia” donati a tutti gli uomini da Zeus


Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco.

Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai". Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie.

Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi.

Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.

Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro.

La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.

Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia».






  1. Primo modello di società: la società verticale



Il piccolo principe si trovava nella regione degli asteroidi 325, 326, 327, 328, 329 e 330. Comincio' a visitarli per cercare un'occupazione e per istruirsi.
Il primo asteroide era abitato da un re.
Il re, vestito di porpora e d'ermellino, sedeva su un trono molto semplice e nello stesso tempo maestoso.
"Ah! ecco un suddito", esclamo' il re appena vide il piccolo principe.
E il piccolo principe si domando':
"Come puo' riconoscermi se non mi ha mai visto?"
Non sapeva che per i re il mondo e' molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi.
"Avvicinati che ti veda meglio", gli disse il re che era molto fiero di essere finalmente re per qualcuno.
Il piccolo principe cerco' con gli occhi dove potersi sedere, ma il pianeta era tutto occupato dal magnifico manto di ermellino. Dovette rimanere in piedi, ma era tanto stanco che sbadiglio'.
"E' contro all'etichetta sbadigliare alla presenza di un re", gli disse il monarca, "te lo proibisco".
"Non posso farne a meno", rispose tutto confuso il piccolo principe. "Ho fatto un lungo viaggio e non ho dormito..."
"Allora", gli disse il re, "ti ordino di sbadigliare. Sono anni che non vedo qualcuno che sbadiglia, e gli sbadigli sono una curiosita' per me. Avanti! Sbadiglia ancora. E' un ordine".
"Mi avete intimidito... non posso piu'", disse il piccolo principe arrossendo.
"Hum! hum!" rispose il re. "Allora io... io ti ordino di sbadigliare un po' e un po'..."
Borbotto' qualche cosa e sembro' seccato. Perche' il re teneva assolutamente a che la sua autorita' fosse rispettata. Non tollerava la disubbidienza. Era un monarca assoluto.
Ma siccome era molto buono, dava degli ordini ragionevoli.
"Se ordinassi", diceva abitualmente, "se ordinassi a un generale di trasformarsi in un uccello marino, e se il generale non ubbidisse, non sarebbe colpa del generale. Sarebbe colpa mia""
"Posso sedermi?" s'informo' timidamente il piccolo principe.
"Ti ordino di sederti", gli rispose il re che ritiro' maestosamente una falda del suo mantello di ermellino.
Il piccolo principe era molto stupito. Il pianeta era piccolissimo e allora su che cosa il re poteva regnare?
"Sire", gli disse, "scusatemi se vi interrogo..."
"Ti ordino di interrogarmi", si affretto' a rispondere il re.

"Sire, su che cosa regnate?"
"Su tutto", rispose il re con grande semplicita'.
"Su tutto?"
Il re con un gesto discreto indico' il suo pianeta, gli altri pianeti, e le stelle.
"Su tutto questo?" domando' il piccolo principe.
"Su tutto questo..." rispose il re.
Perche' non era solamente un monarca assoluto, ma era un monarca universale.
"E le stelle vi ubbidiscono?"
"Certamente", gli disse il re. "Mi ubbidiscono immediatamente. Non tollero l'indisciplina".
Un tale potere meraviglio' il piccolo principe.
Se l'avesse avuto lui, avrebbe potuto assistere non a quarantatre' , ma a settantadue, o anche a cento, a duecento tramonti nella stessa giornata, senza dover spostare mai la sua sedia! E sentendosi un po' triste al pensiero del suo piccolo pianeta abbandonato, si azzardo''a sollecitare una grazia dal re:
"Vorrei tanto vedere un tramonto... Fatemi questo piacere... Ordinate al sole di tramontare..."
"Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all'altro come una farfalla, o di scrivere una tragedia, o di trasformarsi in un uccello marino; e se il generale non eseguisse l'ordine ricevuto, chi avrebbe torto, lui o io?"
"L'avreste voi", disse con fermezza il piccolo principe.
"Esatto. Bisogna esigere da ciascuno quello che ciascuno puo' dare", continuo' il re.
"L'autorita' riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, fara' la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l'ubbidienza perche' i miei ordini sono ragionevoli".
"E allora il mio tramonto?" ricordo' il piccolo principe che non si dimenticava mai di una domanda una volta che l'aveva fatta.
"L'avrai, il tuo tramonto, lo esigero', ma, nella mia sapienza di governo, aspettero' che le condizioni siano favorevoli".
"E quando saranno?" s'informo' il piccolo principe.
"Hem! hem!" gli rispose il re che intanto consultava un grosso calendario, "hem! hem! sara' verso, verso, sara' questa sera verso le sette e quaranta! E vedrai come saro' ubbidito a puntino".
Il piccolo principe sbadiglio'. Rimpiangeva il suo tramonto mancato. E poi incominciava ad annoiarsi.
"Non ho piu' niente da fare qui", disse il re. "Me ne vado".
"Non partire", rispose il re che era tanto fiero di avere un suddito, "non partire, ti faro' ministro!"
"Ministro di che?"
"Di... della giustizia!"
"Ma se non c'e' nessuno da giudicare?"
"Non si sa mai" gli disse il re. "Non ho ancora fatto il giro del mio regno. Sono molto vecchio, ma c'e' posto per una carrozza e mi stanco a camminare".
"Oh! ma ho gia' visto io", disse il piccolo principe sporgendosi per dare ancora un'occhiata sull'altra parte del pianeta. "Neppure laggiu' c'e' qualcuno".
"Giudicherai te stesso", gli rispose il re. "E' la cosa piu' difficile. E' molto piu' difficile giudicare se stessi che gli altri. Se riesci a giudicarti bene e' segno che sei veramente un saggio".
"Io", disse il piccolo principe, "io posso giudicarmi ovunque. Non ho bisogno di abitare qui".
"Hem! hem!" disse il re. "Credo che da qualche parte sul mio pianeta ci sia un vecchio topo. Lo sento durante la notte. Potrai giudicare questo vecchio topo. Lo condannerai a morte di tanto in tanto. Cosi' la sua vita dipendera' dalla tua giustizia. Ma lo grazierai ogni volta per economizzarlo. Non ce n'e' che uno".
"Non mi piace condannare a morte", rispose il piccolo principe, "preferisco andarmene".
"No", disse il re.
Ma il piccolo principe che aveva finiti i suoi preparativi di partenza, non voleva dare un dolore al vecchio monarca:
"Se Vostra Maesta' desidera essere ubbidito puntualmente, puo' darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di partire prima che sia passato un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli..."
E siccome il re non rispondeva, il piccolo principe esito' un momento e poi con un sospiro se ne parti'.
"Ti nomino mio ambasciatore", si affretto' a gridargli appresso il re.
Aveva un'aria di grande autorita'.
"Sono ben strani i grandi", si disse il piccolo principe durante il viaggio.



idea che l’umanità sia posta su una scala gerarchica secondo caratteristiche naturali

articolazione o gerarchia sociale (dal re ai diversi tipi di sudditi)

prevalenza del ruolo sociale sulla persona individuale

immobilità sociale attraverso il succedersi delle generazioni

idea di giustizia come stare al posto assegnato e come obbedienza agli ordini del superiore






  1. E' giusto ribellarsi alle leggi ingiuste?

Analisi di un caso di giustizia: Michael Kohlhaas



Il mercante di cavalli Michael Kohlhaas, dopo aver chiesto giustizia contro il nobile sassone Von Tronka che gli ha sequestrato e danneggiato due cavalli e malmenato un servo, non avendola ottenuta decide di farsi giustizia da solo. Si mette a capo di una banda di criminali e assalta il castello del nobile, incendia e fa stragi per ricevere ascolto e vedere riconosciuto il suo diritto negato. Ottiene quindi la riapertura del processo per la questione dei cavalli. Il tribunale sentenzia a favore di Kohlhaas, ma i suoi nemici lo fanno arrestare per gli atti di banditismo. Egli quindi ottiene giustizia per il danno subito, ma contemporaneamente viene condannato a morte per aver minacciato l’ordine dell'impero.

Pur avendo la possibilità di sottrarsi, ritiene doveroso scontare la pena per i reati commessi affermando così il valore morale supremo della giustizia.


La classe viene divisa in due gruppi. Agli alunni del primo viene chiesto di scrivere un discorso da avvocato difensore di Michael Kohlhaas, gli alunni del secondo scrivono invece un discorso da pubblico ministero che sostiene l’accusa.

Si procede poi alla lettura dei discorsi e al verdetto mediante votazione da parte degli alunni stessi: l’imputato a larga maggioranza viene considerato colpevole.





  1. Secondo modello di società: la società orizzontale



La giostra

Bambino negro alla fiera:


Dov’è il reparto dei negri

In questa giostra,

signore? Perché ci voglio salire.

Giù nel Sud da dove vengo

bianchi e negri

non possono sedere vicini.

Giù nel Sud nel treno

C’è un vagone per i negri.

Sul tram ci mettono dietro:

ma non c’è un dietro

nella giostra!

Dov’è il cavallo

Per i bambini negri?





Ogni persona è dignità e valore (ha dei diritti)

Ogni persona rispetta dignità e valore dell’altro (ha dei doveri)

Il punto di partenza è uguale: eguali diritti per tutti

Il punto di arrivo è diverso: ciascuno è artefice del proprio percorso

Le istituzioni servono per tutelare i diritti degli individui

Le istituzioni sono rappresentative: la sovranità è del popolo




  1. La carta dei diritti (e dei doveri)



Tanto tempo fa, un popolo di extraterrestri decise di invadere la Terra ed assoggettare gli umani.

Erano esseri informi che si muovevano, rotolando su se stessi, forniti di intelligenza di computer, che li faceva pensare tutti allo stesso modo. Prima di atterrare, il capo pensò che sarebbe stato opportuno mandare in avanscoperta quattro ambasciatori, perché cominciassero a scoprire la realtà con cui avrebbero avuto a che fare e illustrassero agli umani il futuro che li attendeva, convinti che questi si sarebbero arresi a loro, uniformandosi alla nuova vita con entusiasmo

Gli ambasciatori svolsero, come sempre, il loro compito in maniera ineccepibile e, tornati, si presentarono al capo per la relazione.

- Maestà - dissero - gli umani che abbiamo incontrato sono felici di unirsi a noi, ma pongono tutti una condizione: vogliono restare uomini. - Che significa restare uomini? - insistette il capo

- Significa tante cose - dissero, e uno spiegò - il primo umano, che

abbiamo incontrato, era un filosofo; ci disse che, poiché gli uomini hanno la testa, vogliono essere liberi di pensare ognuno con la propria ed esporre agli altri i propri pensieri.

- Interessante - commentò il capo - e gli altri?

- Il secondo era un meccanico e stava sistemando un motore. Ci disse

che, poiché gli uomini hanno le mani, vogliono poter lavorare e compie­re il lavoro che più gli si addice. «A ciascuno il suo lavoro» specificò.

- Hanno delle pretese questi uomini - disse il capo.

- E non è finita - aggiunse un altro - il terzo, che abbiamo incontrato,

si trovava in una stazione ferroviaria ed era carico di bagagli. Disse che, poiché gli uomini hanno i piedi, vogliono avere il diritto di andare da qualche parte e poi tornare indietro, uscire e rientrare, come desiderano.

- Che strano - mormorò il capo - strano, ma interessante.

- L'ultimo - aggiunse un terzo - era un ragazzo; disse che, poiché gli

uomini hanno un cuore, vogliono essere liberi di amare, di essere alle­gri o malinconici, di rimpiangere, desiderare, arrabbiarsi o affezionarsi.

- È difficile capirli - disse il capo - questi personaggi sembrano tutti diversi; siete sicuri che fossero tutti umani? - Certo - risposero - tutti sembrano diversi tra loro, ma tutti hanno la testa, il cuore, le mani, i piedi: sono tutti umani. Vogliono una dichiarazione che contenga l'elenco di quello che possono fare; li chiamano i loro diritti.

- Se è così - sentenziò il capo, dopo avere riflet­tuto - se per restare uomini hanno bisogno di tutte queste cose, l'affare non fa per noi: sarà meglio perlustrare un altro pianeta.

E fu così che la terra si salvò.


Scuola sec. I grado - ICS "V. Navarro" - Ribera (A G), (Da AA.VV., La Costituzione raccontata ai ragazzi, Palombo 2007)





ciascuno ha la propria testa / libertà di pensiero

ciascuno ha le mani / libertà nella scelta della professione

ciascuno ha i propri piedi / libertà di muoversi

ciascuno ha un cuore / libertà di esprimere i sentimenti e gli affetti



  1. Diritto di essere rispettato: ognuno ha il diritto di essere rispettato dal prossimo.

  2. Diritto di istruzione: ognuno ha il diritto di imparare cose nuove.

  3. Diritto al tempo libero: diritto di avere del tempo da impiegare come più ci aggrada.

  4. Diritto di parola.

  5. Diritto di avere qualcuno che ti accudisce.

  6. Diritto di creare.

  7. Diritto di potersi cimentare in quello che più ci piace.

  8. Diritto di avere una proprietà privata.

  9. Diritto di gusto.

  10. Diritto di vestirsi: ognuno deve avere il diritto di indossare quello vuole senza essere preso in giro.


oppure


  1. Diritto di avere una persona che ti accudisce

  2. Diritto di andare a scuola

  3. Diritto di esprimere i propri sentimenti

  4. Diritto di essere curati in caso di malattia

  5. Diritto di avere un pasto sano

  6. Diritto di avere una casa

  7. Diritto di giocare

  8. Diritto di non essere costretti a lavorare

  9. Diritto di scegliere la propria religione

  10. Diritto di uscire con gli amici




  1. Dovere di andare a scuola

  2. Dovere di rispettare il prossimo

  3. Dovere di rispettare il proprio aspetto fisico

  4. Dovere di rispettare l’ambiente

  5. Dovere di fare i compiti

  6. Dovere di avere la propria fede

  7. Dovere dell’accoglienza

  8. Dovere di non essere violenti

  9. Dovere di rispettare le regole

  10. Dovere di rispettare i genitori




  1. I diritti dei bambini sono rispettati?

La giustizia come un ideale (che modifica la realtà)



bambini clienti (cioè consumatori di beni e servizi)

bambini che lavorano

bambini che si prostituiscono

bambini soldati

bambini che muoiono di fame



Quando faccio l'appello, i bambini ridono. A loro pia­ce ridere. Sono incuranti o semplicemente felici? Malgra­do le difficoltà della vita, sono allegri. Il secondo giorno di scuola, mancano due allievi. Sono ammalati o si sono persi per strada? Nessuno risponde. Due assenti su tren­ta non sono tanti. Verranno domani. In realtà, l'indoma­ni non arrivano. Mancano altri tre bambini. Mi preoccu­po. Non ho un direttore cui rivolgermi. Sono il maestro, il direttore, il bidello e il guardiano della scuola. Gli altri bambini non dicono niente. Faccio lezione nonostante la preoccupazione. Alla fine del mese, mi ri­trovo con la metà degli allievi. Dove sono finiti gli altri trovo con la metà degli allievi. Dove sono finiti gli altri quindici? A questa domanda, i ragazzi ridono e rispondono una cosa qual­siasi. Decido di parlarne al capo del villaggio, Hadj Baba. Lo trovo sul tardo pomeriggio sotto l'albero, circondato da alcuni uomini, sempre gli stessi. Mi dice, scacciando con la mano le mosche che gli ronzano intorno: «I bambi­ni sono sassi, rami di un albero che perde le foglie, parole azzurre, scoppi di risa ... vanno, vengono, passano e non lasciano tracce ... tutto questo tu che vieni dalla città dovresti saperlo! Ricordati, non hanno ancora l'abitudine di andare a scuola con regolarità. Forse, poi, non ti prendono sul serio, sei trop­po giovane, hai l'aspetto di un ragazzo. Per loro, il sapere deve essere inse­gnato da un uomo maturo, un anziano con la barba bianca, un uomo che sappia parlare agli alberi e agli animali. Tu vieni dalla città e hai dimentica­to la realtà del tuo villaggio».

«No, è proprio perché amo il mio villaggio che sono tornato, per render­mi utile. Ma perché non vengono a scuola?».

«Ah! La scuola! Tu chiami questo rudere una scuola? Non hai neanche una lavagna. Quanto ai tavoli e alle sedie, aspetta, aspetta pure. Perché questo vil­laggio sperduto dovrebbe essere preso in considerazione dalle autorità della città? Sei ingenuo, figlio mio. E poi, hai visto le condizioni del bestiame? L an­no scorso tu non c'eri. Non ha fatto una sola goccia di pioggia. Intorno a que­ste colline si aggira la morte. Tieni, siediti e guarda il cielo. Se hai pazienza, imparerai che il cielo è vuoto; non ci riserva nulla di buono. Siamo maledet­ti. E in ogni caso, dopo la morte del nostro maestro, il villaggio continua a morire. Quindi la scuola ... ».

[ ... ]

Ho preso quindi la bicicletta, e sono andato alla ricerca dei bambini.

Un pastore mi indica un edificio, all'orizzonte. Non ci avevo mai fatto ca­so. Mi dice che gli piacerebbe andare in quell'edificio bianco, ma non trova nessuno che gli controlli gli animali.

«Cos'è quell' edificio?».

«Un posto dove si guadagnano dei soldi». «E come?».

«Non lo so. Tutti quelli che ci vanno, escono con dei soldi. lo non ho mai avu­to denaro. Anche le capre sono attirate da quell' edificio bianco. Un giorno, anch'io partirò al mattino e tornerò la sera con dei soldi. Credo che a quel punto non tornerò qui, andrò in città. Lì, col denaro si ottiene tutto. Qui, abbiamo so­lo vento e polvere. Passo il mio tempo contando il bestiame. Do un nome a ogni capra. La più grossa, la chiamo 'Palazzo Bianco'. Peccato che sia nera!».

La porta dell' edificio è chiusa. La forzo. Un guardiano mi minaccia con un bastone. Faccio un passo indietro e aspetto. Gli offro delle sigarette e a quel pun­to mi apre. Entro in un corridoio e mi trovo di fronte a una sala in cui un cen­tinaio di ragazzi stanno cucendo pezzi di cuoio, bianco e nero. In fondo, una dozzina di ragazze molto giovani lavora con le macchine da cucire. I miei allie­vi fanno palloni da calcio o scarpe. Sulle pareti sono appesi dei manifesti pub­blicitari in cui c'è un campione sportivo negro che sta per iniziare una corsa. Il simbolo della marca assomiglia a un grande accento grave bianco su un fondo nero. Cosa rappresenta questo accento grave? Un uccello senza testa, un piede strappato, un' onda o una semplice freccia disegnata male? Non lo so. Leggo: «Le scarpe da pallacanestro del terzo millennio», «Lo spirito della vittoria». Quale vittoria? Quella che fa lavorare i bambini, quella che li allontana dalla scuola per poterli sfruttare visto che sono poveri e non possono difendersi?

Con la testa bassa, lavorano in silenzio e senza perdere tempo. Gli ogget­ti confezionati vengono controllati da un capo bianco, occidentale, quindi messi dentro scatole di cartone. Mi avvicino. Lui si stupisce, Poi mi dice: «Immagino che lei sia il maestro».

«Sì» .

«I tuoi studenti preferiscono la mia fabbrica alla tua scuola. Almeno qui guadagnano» .

«Ma sono dei bambini, dei minorenni, lei non ha il diritto di farli lavorare». «Non li obbligo io. Del resto, è qui tutta la tua classe. Potrai tenere le le­zioni quando avrai dato loro da mangiare. Perché io, qui, li faccio anche mangiare. In America, si lavora con le macchine. Qui, si cuce ancora a mano. È roba buona, questa. Si fa notare».

«La denuncerò. Le ricordo l'articolo 4 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo: 'Nessuno potrà essere tenuto in condizione di schiavitù e di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite in qualsiasi forma: Ha capito? 'In qualsiasi forma: Il lavoro minorile è una forma di schia­vitù. È punito dalla legge».

«o la smetti o ti spacco la testa con questo bastone. Qui non abbiamo bi­sogno di persone che ci diano lezioni di morale. Chiedigli di seguirti. Vedrai che nemmeno un ragazzino lascerà il suo posto. È meglio che tu te ne vada».

Gli allievi non osano guardarmi in faccia.

Forse per paura, forse per vergogna. Cerco di rivolgermi a loro, ma il ca­po occidentale mi spinge verso la porta. Mi ritrovo fuori senza sapere cosa fare, solo con la mia rabbia. Mi ripeto: «Far lavorare i bambini anziché la­sciarli andare a scuola, che cattiveria! È una forma di sfruttamento, di schia­vitù».

Il guardiano mi osserva, un po' imbarazzato.

[ ... ]

Alla fine della giornata, sono tornato a scuola; ho guardato le stuoie per terra, le pareti screpolate, ho sentito le urla dei bambini e poi il silenzio. Co­sa fare in una classe vuota? Non ho nessuno con cui parlare. Ho pensato che avrei potuto aspettare il ritorno dei bambini. Una settimana. Un mese. For­se più. Aspettare leggendo. Andare in città a cercare le sedie e i tavoli. Ma non ho denaro. Ho raccolto le mie cose, il vocabolario, i libri. Ho fatto un pd d'or­dine nella stanza e sono uscito senza voltarmi indietro. Ho preso la biciclet­ta per ritornare in città. Ho ripensato a quello che diceva il mio maestro, il saggio. La miseria non è una fatalità, qualcosa di inevitabile. Non sta scritto da nessuna parte che questo villaggio debba continunare ad essere maledet­to, senza avvenire. Bisogna combattere, non bisogna incrociare le braccia. Ma io qui sono il solo a reagire. Gli altri, soprattutto i vecchi, sono pigri e passa­no il tempo a parlare per non dirsi nulla.

[ ... ]

Per strada, ho incontrato alcuni studenti. Stranamente, erano calmi e di­sciplinati. Parlavano tra di loro a voce bassa, Appena mi hanno visto, mi so­no venuti incontro impedendomi di proseguire. Sul loro viso, mi è sembra­to di leggere una preghiera: «Resta!». Credo anche di aver sentito qualcosa come: «Abbiamo bisogno di te, torneremo presto.» Prima devo avere fatto un passo indietro, poi due, spinto da tutti questi bambini stretti l'uno contro l'altro. Ho indietreggiato, commosso. Erano cambiati. Forse la mia visita al la fabbrica li aveva fatti riflettere. Il fatto che non vengano a scuola non si­gnifica che non siano intelligenti.

Qualche giorno dopo, il pastore bussa alla mia porta. Mi dice:

«Mio padre non è più malato; ha ripreso il suo gregge, quindi io torno a scuola».

«Non hai più voglia di andare alla fabbrica?».

«No, ci ho pensato. Ho voglia di imparare a leggere, a scrivere, a contare, a guidare il camion, a conoscere il nome delle stelle, a fare molte cose».

«Ma non potrò aprire la scuola per un solo ragazzo». «Non sarò solo. Ci saranno anche Dialo, quello che ha un braccio solo, la fabbrica non l'ha vo­luto; Moh, quello che ha un occhio distrutto dalla polvere e che non sì è nem­meno presentato all'incontro per l'assunzione; e Souleymane, quello che il capo ha mandato via dalla fabbrica perché non era abbastanza veloce; e ci sarà Felix, quello che non parla con nessuno e gioca con gli scorpioni, i suoi genitori hanno un frutteto dall' altra parte della collina. Altri due bambini ar­riveranno dall' oasi, perché hanno sentito parlare della nostra scuola e prefe­riscono venire qui; e poi ci sarà Modibo, quel bambino piccolo e grasso a cui la scuola piace, e la sorella gemella Aisha: non si lasciano mai»

Ecco, siamo abbastanza per fare una piccola classe ... aspettando.




«Ho vissuto per quasi tre anni con Kony», mi dice John Oto e mentre ascolto il suo dramma di schiavo-sol­dato, .non posso fare a meno di notare che ha ancora le movenze di un adolescente. John è alto a occhio e croce un metro e cinquanta, è asciutto e ha lunghe braccia che quando parla agita, dondola e scuote come se gli fossero d'impaccio. Ha quindici anni e conosce solo l'acholi, la lingua della sua etnia. Padre Carlos me lo presenta al­l'ingresso della missione cattolica di Kitgum, capoluo­go dell'omonimo distretto nordugandese, più di cinque­cento chilometri a nord della capitale, Kampala. Tra una pausa e l'altra del suo racconto John accenna a testa bassa qualche timido sorriso. Seduto su un gradino sotto la veranda della canonica, mi spiega di essere stato sequestrato nel novembre del 1995 dai famigerati ribelli.

Fa un caldo insopportabile: il termometro segna 39 gra­di e il sole picchia forte. Anche John ha caldo. Il sudore gli scende copioso dalla fronte sulle guance, fino al col­letto della camicia, ma forse non è solo colpa dell' afa. Forse c'entra anche l'emozione di quei ricordi.

«Vennero di notte nel mio villaggio, distrussero tutte le capanne e le diedero alle fiamme. Mia madre fu massacrata a colpi di panga e tre dei miei fratel­lini furono bruciati vivi. lo fui catturato con una decina di miei coetanei», racconta non senza qual­che esitazione. Improvvisamente però il suo linguaggio si fa più sciolto, spedito e i suoi toni più decisi: «Gli olum ci co­strinsero a camminare notte e giorno per quasi un mese. Mangiavamo bacche e qualche frutto selvatico, mentre potevamo bere solo al tramonto in qualche ruscello o palude. Ormai distrutti giungemmo nel Sudan meridionale, nel campo base di Jabuleni, nella regione dell'Equatoria. Fummo sottoposti a un impietoso indottrinamento. Dovevamo cancellare dalla mente i nostri ricordi e affetti, rinascere nella comunità degli 'eletti'. La disciplina era ferrea e l'addestramento principale consisteva nel correre per ore intere nei campi con un sacco di pietre sulle spalle. Chi mollava era spacciato.

Le tre ragazze che facevano parte del mio gruppo furono subito costrette a prostituirsi per i capi. Di notte le sentivo piangere e io piangevo con loro.

Quando andavamo a combattere avevamo tutti un po' paura. Ci si muove­va in piccoli gruppi, di dieci-quindici ragazzi. I primi tempi non riuscivo a spa­rare con precisione e allora per paura di colpire i miei stessi compagni alzavo la canna in alto, tanto per spaventare il nemico. Sapevamo che la parola d'or­dine era una sola: nekare ('uccidere'). Uccidere la nostra stessa gente».


Il trono di paglia di Kony

Ma chi è Kony? Appena pronuncio questa parola John chiude gli occhi.

Poi riprende a parlare, ma come se avesse un nodo in gola. Si accovaccia strin­gendo la testa tra le grandi mani affusolate e si copre gli occhi. «Kony è il comandante supremo degli olum. Ha il potere di vita o di morte su ciascuno dei membri della guerriglia. Lo vidi per la pri­ma volta perché giorni dopo il mio arrivo a Jabuleni un venerdì mattina, giorno di preghiera. È incredibile, ma dovevamo anche pregare, nonostante ci costringessero a essere macellai. Cantavamo insieme e invoca­vamo l'aiuto di Dio per poter liberare un giorno l'Uganda», racconta.

John ha avuto in sorte di vivere fianco a fianco con il «re» dei ribelli. «Fu Kony in persona a volermi come suo attendente. Il mio ser­vizio consisteva nell' accompagnarlo ovunque, portando in testa sempre la sua sedia, una specie di trono rega­le fatto di legno e paglia. Mi stancavo facilmente perché oltretutto avevo in spal­la il mitragliatore e sul petto e ai fianchi grappoli di bombe a mano, oltre allo zaino pieno di caricatori», asserisce.

Con il suo racconto, John, mi fa pensare a un soldati­no per forza, costretto a giocare una guerra maledetta­mente vera. «Quando di notte aveva le visioni, Kony mi svegliava a colpi di bastone per costringermi ad assister­lo come fossi il suo chierichetto. Era il Tipu Maleng (lo Spirito Santo) che gli suggeriva le scelte da compiere: do­ve andare per le razzie, quando uccidere ... ».

John è traumatizzato dall'esperienza e sebbene sia riu­scito a fuggire nel luglio del 1997, da allora vive nel pe­renne terrore di finire nuovamente prima o poi nelle ma­ni dei suoi crudeli carcerieri. Ora fa il cuoco in missione e ogni sera, poco dopo l'imbrunire, si rinchiude nella sua casupola fatta di mattoni di fango e paglia per recitare il rosario. «Se sono vivo è perché la Madonna mi ha dato la forza per sopravvivere anche se mentre dormo, di not­te, ho spesso degli incubi. Vedo Kony tutto arrabbiato che urla contro di me per essere fuggito: nel sonno mi dice che me la farà pagare»

Un' altra storia allucinante è quella di Mary Akulo, una ragazza di ventun anni incontrata, nel corso del mio ul­timo viaggio in Uganda, nel giugno del 2004. Ha trascorso tre anni e mezzo con i ribelli. «Non ne potevo più di quel­la vita e un giorno decisi di fuggire dal campo. Strisciai in mezzo all'erba per oltre due ore, poi mi misi a correre come una saetta finché dopo molte ore rimasi senza for­ze e stramazzai a terra. Due giorni dopo, alla sera, credo fossi vicina alla missione di Padibe, mi trovai tra le brac­cia di un'anziana che mi aveva trovata mezza morta sul sentiero e aveva provveduto a farmi portare nella sua ca­panna», spiega.

«Le violenze cui sono stata sottoposta non voglio raccontarle. Sono state umilianti ... Dico solo che non è più possibile tollerare questa ferocia», sottolinea. «Mi chiedo: perché nessuno si preoccupa delle migliaia di ragazzi e ragazze come me sequestrati dai ribel­li e costretti con la forza a combattere senza saperne il motivo. Perché anco­ra oggi la nostra terra è in preda a questi banditi?».

Vorrei dirle che le responsabilità sono note a chi conta, sia a Kampala sia nei circoli del Palazzo di vetro a New York. Eppure, la tragedia dei sequestri continua inesorabilmente.



La discussione concorda che le carte dei diritti sono comunque utili perché:

misurano il grado di ingiustizia nel mondo e, quindi, funzionano come obiettivi a cui bisogna tendere con realismo e con tenacia




  1. Casi di giustizia nelle società dei bambini



Inventa tre situazioni (una in famiglia, una nel gruppo di amici e una a scuola) in cui si dicono bugie

Scrivi una sceneggiatura per ciascuna situazione

Rappresenta le situazioni dando voce ai personaggi delle situazione




Scrivi un discorso di difesa del comportamento di Buddy ed un altro in difesa di quello della signorina Sook.

Ascolta i diversi discorsi e prendi posizione votando per l’uno o per l’altro

Votazione finale: prevale ma di misura (11 contro 8) il comportamento istintivo di Buddy rispetto a quello più riflessivo della signorina Sook






  1. Conclusioni e verifica finale




Presenta con tue parole le diverse storie, rifletti su azioni e pensieri dei personaggi e prendi posizione dicendo quale è secondo te il comportamento giusto. Non dimenticare di volta in volta di fare riferimento alle discussioni fatte in classe sull’argomento della giustizia



Situazione n. 1.

In un bar, su un tavolino dove non c'è seduto nessuno, Stefania vede un biglietto da 20 euro. Due mesi di mance settimanali! Li prende ma poi esita. È forse male prendere quei soldi? Sarebbe forse meglio por­tarli al padrone del bar?

Così, se la persona che li ha persi ritorna, il padrone potrà renderglieli. Ma che cosa proverà che erano veramente i suoi? Non c'è nome sui soldi.

E come essere sicuri che il padrone del bar non terrà i 20 euro per sé? "Se lo fa, tanto vale che li tenga io", pensa Stefania.

Allora che cosa è bene?

Tenere i soldi?

Darli al padrone?

Gridare: «Chi ha perso 20 euro?» ...


Situazione n. 2.

Nella banda di Ronaldo sono in sette, Ronaldo è il capo. È lui che ha creato la banda. Hanno un posto segreto per incontrarsi, una parola d'ordine che cambia tutte le settimane e una missione da compiere Oggi la missione è speciale e un po’ perico­losa: bisogna tagliare a coltellate le gomme delle ruote delle biciclette di Ettore e Kevir.

«Di solito non facciamo cose di queste genere» protesta Olga, «facciamo cose divertenti, non cose veramente cattive; trovo che non sia giusto.»

«Non discutete, sono io che decido se é bene o male. Ettore e Kevin meritano una buona lezione, quello che faremo è bene. risponde Ronaldo.

Olga guarda gli altri. Nessuno discute la missione. "Bene, dopotutto Ronaldo è il ca­po» pensa Olga.


Situazione n. 3.

Un deputato italiano ha proposto che nella metropolitana di Milano ci siano posti riservati ai milanesi, e posti riservati agli stranieri.


Situazione n. 4. Il ladro di asce di Lie Yokou

Un contadino non trovava più la sua ascia. Allora gli venne il sospetto che l'avesse pre­sa il figlio del suo vicino, e così si mise a osservarlo. Aveva la tipica andatura del la­dro di asce. Il suo viso era quello di un la­dro di asce. Le parole che pronunciava non potevano essere che quelle di un ladro di asce. Tutti i suoi comportamenti e modi di fare tradivano l'uomo che aveva rubato un'ascia.

Ma un giorno, per caso, spostando alcu­ni tronchi, il contadino ritrovò la sua ascia.

Quando l'indomani guardò di nuovo il figlio del suo vicino di casa, questi non ave­va più niente del ladro di asce, né nel com­portamento, né nell'andatura, né nei modi di fare.


Situazione n. 5. I due sandali di Jean Claude Carrière

Un uomo viaggia in treno. Il vago­ne tutto a un tratto viene sballot­tato e l'uomo perde uno dei san­dali, che cade fuori.

Egli raccoglie subito l'altro san­dalo e lo getta via.

Alla persona che gli sta accanto e si stupisce del suo gesto, risponde:

«Di un sandalo solo non so che farmene. E se qualcuno trova quello che è caduto, non gli sarà di grande utilità. Tanto meglio se trova tutti e due.»






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