Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo
Forse il romanzo del giovane scrittore leccese De Cataldo non ha ricevuto l'attenzione che merita. Forse l'urgenza di dimenticare una delle tante pagine buie della storia italiana degli ultimi anni - peraltro recentemente assurta di nuovo agli onori della cronaca grazie alla condanna del senatore a vita Andreotti nell'ambito del processo per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli - ha contribuito a creare attorno a questo libro una sorta di oblio.
Eppure ci troviamo di fronte ad un romanzo che possiede una forza rara, straordinaria,
un'opera fluviale e complessa (il romanzo consta di più di 600 pagine!)
che però si legge d'un fiato.
De Cataldo, e questo è un altro punto a suo favore, oltre ad essere
uno scrittore di notevole talento è anche magistrato presso la Corte
di Assise di Roma; eppure riesce a smettere la toga e a farsi romanziere senza
appesantire troppo la sua opera con la ricerca della verità storica
sui crimini della cosiddetta banda della Magliana. L'autore infatti non è
troppo interessato alle migliaia di pagine dei faldoni processuali che riguardano
i personaggi del romanzo, ma a conti fatti la sua ricostruzione è più
che convincente.
De Cataldo è rimasto affascinato per primo dalla storia, da una trama
che si è messa in piedi da sé (all'autore basta infatti narrare
le vicende in ordine cronologico per avere un plot esplosivo fatto di colpi
di scena e imprevisti) e trasmette al lettore tale sensazione grazie ad una
straordinaria capacità affabulatoria.
Si può solamente accennare alla trama vista la sua imponenza e la presenza
di innumerevoli personaggi: tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 una
feroce banda di malavitosi tenta di fare il grande colpo: impossessarsi di
Roma. Nel paese tira una brutta aria: tutte le attenzioni degli inquirenti
e delle forze dell'ordine sono rivolte alle stragi e alle BR, per cui si può
"lavorare" in relativa tranquillità.
I componenti della banda della Magliana (Franco Giuseppucci: "er Negro",
ma "il Libanese" nel libro; Enrico De Pedis: "Renatino",
ma "Dandi" nel libro; Maurizio Abbatino: "il Freddo";
Danilo Abbruciati: "Nembo Kid"; per rimanere allo stato maggiore
dell'organizzazione) mettono a ferro e fuoco la capitale, cercando di trasformarsi
da piccoli delinquenti di quartiere a capi della criminalità romana,
sfruttando i legami con la camorra e i Corleonesi, con i neofascisti e i servizi
segreti deviati.
Con l'arrivo a Roma della droga la banda riesce ad accumulare un'enorme quantità
di capitale, che reinveste in ogni tipo di attività, non solo illegale
(si pensi che il più celebre locale romano degli anni '80, il Jackie
'O ma Full '80 nel romanzo, è di proprietà dei ragazzi
della Magliana).
Ma il tentativo di controllare da soli la piazza romana, di trasformare l'anarchia
criminale della capitale attraverso una struttura solida e organizzata, alla
siciliana, fallisce a causa di una serie infinita di rivalità e tradimenti,
guerre tra bande rivali ed anche, in minima parte, grazie all'ostinazione
con la quale un poliziotto, il commissario Scialoja, classica figura di sbirro
duro, il "cane sciolto" per eccellenza, perseguita i fuorilegge.
Il sogno del Libanese, uno dei fondatori della banda, si rivela impossibile
da realizzare e si spegne nella tomba con lui.
Tra i tanti motivi di interesse del romanzo c'è anche l'aspetto stilistico:
Romanzo criminale non è il corrispettivo italiano del giallone
americano o anglosassone, ma piuttosto un'opera che affonda le sue radici
nella letteratura italiana del dopoguerra.
Grazie a questo parallelismo ben si spiega il lavoro profondo sulla lingua
che l'autore affronta, sfruttando appieno tutte le potenzialità espressive
del dialetto romanesco e del gergo della malavita (si veda, ad esempio, l'ampio
ricorso ai cosiddetti nomi parlanti: Il Freddo, Fierolocchio, Il Sorcio,
ecc.).
La questione è tutt'altro che secondaria, e meriterebbe una ben più
approfondita trattazione. Tuttavia non è difficile individuare i modelli
di De Cataldo, vale a dire i due scrittori contemporanei che più di
altri hanno raccontato Roma anche attraverso il suo dialetto: Carlo Emilio
Gadda e Pier Paolo Pasolini (sarà un caso ma entrambi, proprio come
De Cataldo, si servono del romanesco pur non essendo romani).
Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, Torino, Einaudi Stilelibero, 2002, pp.628, 14,50 euro.