Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig

 

Con la traduzione del libro di McCloskey il lettore italiano è introdotto al momento più recente e controverso della discussione metodologica in economia. In effetti, la filosofia della scienza economica è uno dei rami di questa disciplina in rapida crescita, come testimonia - soprattutto in ambito anglosassone - il proliferare delle pubblicazioni ed il nascere di nuove riviste. Stupisce, semmai, che dei numerosi testi di epistemologia dell'economia solo il McCloskey abbia goduto del privilegio di una traduzione: è come, che so, se dopo Popper (nella fattispecie, impersonato dal Friedman de "Il metodo dell'economia positiva") fosse stato tradotto il solo Feyerabend ma non Lakatos, o Kuhn, che hanno imperversato nel boom del postpositivismo in atto tra gli economisti dell'ultimo quindicennio. Non c'è però troppo da lamentarsene, perché certamente il libro di McCloskey ha molti meriti: la "Retorica dell'economia" è scritto in uno stile brillante e piacevole, ed il suo autore si segnala per la capacità - inconsueta tra gli economisti di oggi - di non perdere il contatto con quanto avviene nel resto delle scienze umane: McCloskey ha per questo suscitato all'estero l'interesse di lettori che vanno ben oltre la ristretta cerchia degli economisti: e così probabilmente avverrà anche in Italia. Ma la ragione principale, diciamolo francamente, per cui la lettura del libro di McCloskey può aspirare a non essere l'ultima ma l'unica in materia, è che "La retorica dell'economia" sferra un attacco di rara durezza alla corporazione degli economisti in generale e alla congrega dei filosofi dell'economia in particolare. Non si potrebbero trovare parole più efficaci di quelle adoperate da Augusto Graziani nella sua introduzione all'edizione italiana per sintetizzare l'atteggiamento di McCloskey: a suo parere, gli economisti sono antiquati nei loro riferimenti culturali, ingenui nel mantenere un ideale di conoscenza certa e dimostrabile importata dalle scienze naturali mentre queste ultime nel frattempo hanno cambiato strada, autoritari nella loro convinzione che l'applicazione del giusto metodo garantisce della verità, ignoranti della storia della propria disciplina. Giunti al fondo di un vicolo cieco, ha poco senso ripercorrerlo una seconda volta.
Il filo del ragionamento di McCloskey che contiene una parte distruttiva ed una patte costruttiva, può essere sintetizzato in poche affermazioni. Per quanto riguarda l'argomentazione critica, essa prende a suo bersaglio la metodologia ufficiale degli economisti, che individua un principio di demarcazione tra scienza e non scienza: le caratteristiche della scienza sarebbero la finalizzazione della ricerca alla predizione, al controllo, all'esperimento riproducibile, all'oggettività, alla quantificazione, mentre l'introspezione, le credenze le moralità o i valori uscirebbero dai sacri recinti della logica rigorosa e svalutativa. Questa impostazione secondo McCloskey, generalizza a qualsiasi scienza, in modo astorico e con pretese di assolutezza, il modello della fisica seicentesca e ottocentesca: essa può essere qualificata come positivista se ci si limita ad analizzarne lo statuto sul terreno della filosofia della scienza, ma è più corretto chiamarla modernista, dal momento che permea la cultura degli ultimi quattro secoli, a partire almeno dal programma cartesiano di fondare la conoscenza sul dubbio radicale.
Tale metodologia - positivista o modernista che dir si voglia - è da di rigettare per varie ragioni: perché abbandonata dai filosofi della scienza, perché non è possibile una falsificazione definitiva di una teoria con un esperimento cruciale, perché non è possibile la predizione in una scienza storica come l'economia. Ma, soprattutto, perché è una metodologia generale e prescrittiva che pretende di definire i criteri della scienza prima dello svolgersi concreto dell'impresa scientifica, e perché non è seguita nel proprio lavoro concreto dall'economista - come peraltro, da nessun altro scienziato, naturale o sociale.
L'argomentazione di McCloskey prende le mosse dalla convinzione che la filosofia modernista, che insegue il miraggio della conoscenza certa di "qualcosa là fuori", può essere soppiantata da un diverso modo di autocomprensione da parte degli intellettuali, quali pensatori illuminati impegnati in una conversazione che si svolge secondo modalità retoriche. La verità, secondo questo modo di vedere le cose, va ricondotta interamente all'universo discorsivo: in altri termini, essa non viene tanto accertata quanto creata nella conversazione, e si risolve nella persuasione dei partecipanti. A conferma di ciò, McCloskey ricorda che in economia, come altrove, hanno largo spazio analogia e metafora, come anche tropi retorici di vario genere, da quelli classici ad alcuni più interni alla disciplina, spesso mutuati dallo stesso scientismo. In conclusione, il successo di una teoria è dovuto all'efficacia della sua retorica, è ciò costituisce l'unico criterio per valutarla: visto che la recente filosofia della scienza ha mostrato l'inconclusività di qualsiasi riferimento esterno per fondare o giustificare una teoria, l'unica misura appropriata della maggiore o minore bontà di una teoria è la capacità di convincere, o addirittura creare, l'audience. Il vero metodo d'analisi dell'economia, come nelle scienze sociali, è cioè la critica letteraria: in effetti, un paragrafo del libro di McCloskey si intitola "La linguistica costituisce un modello appropriato per la scienza economica".
Che dire di una posizione dall'apparenza così simpaticamente modesta e libertaria? Già Augusto Graziani nell'introduzione citata, e sia pure come nota a margine di una presentazione ampiamente favorevole ha notato due risvolti avvelenati di questo discorso contro il metodo. Vale la pena di citare Graziani per esteso: innanzitutto, la posizione di McCloskey rischia "di trasformare quella che dovrebbe essere l'onesta ricerca di una convinzione in un'opera poetica di arbitraria creazione personale"; inoltre, "se il consenso degli esperti è sufficiente a definire scientifica una proposizione... non si corre d'altro canto il rischio che mediante un accordo corporativo i cultori di una medesima disciplina presentino al mondo esterno come credibili proposizioni dettate soltanto da interessi organizzati?".
Il mito della creatività del ricercatore individuale ed i rischi del convenzionalismo sono però, a me sembra, solo la punta visibile dell'iceberg costituito dal disegno intellettuale, aggiornato e cionondimeno conservatore, che McCloskey porta a compimento con il suo libro. Non è difficile dire il perché. L'antimetodologia di McCloskey riesce a sfuggire alla difficoltà in cui sono incappati tentativi analoghi - difficoltà consistente, in breve, nel dover giustificare in modo generale e prescrittivo ("tutto va bene") l'abbandono delle metodologie generali e prescrittive - ricorrendo alla mossa intelligente di mettere al proprio servizio la riflessione filosofica del pragmatista americano Richard Rorty. Qualsiasi discorso intellettuale è inteso come "una voce nella conversazione dell'umanità", contro il modernismo, cioè contro quel pensiero arrogante che vorrebbe intervenire nelle cose del mondo, il postmodernismo alla Rorty, cui McCloskey aderisce, sarebbe invece il pensiero modesto della ineliminabile pluralità dei punti di vista e modi di vivere (identificato sbrigativamente con l''American way of life').
All'interno di questo modo di vedere le cose, il lavoro del ricercatore è paragonato ad una "partita a scacchi" (è questo il titolo, del tutto appropriato al modo di vedere le cose di McCloskey, dell'introduzione di Graziani). Non solo, dunque, presupponendo una pari dignità degli studiosi contendenti - pari dignità che, per la verità, più che un fatto sembra una norma, poco rispettata ovunque, che semmai ci si dovrebbe chiedere come realizzare - ma anche rinunciando a qualsiasi pretesa rivoluzionaria, nella scienza prima che nella politica. Tale pretesa, infatti, richiede un qualche riferimento ad una realtà esterna, che si tratta di conoscere - e trasformare, mentre l'oggettività, come ha scritto bene Vattimo a proposito di Rorty, è qui "felicemente" scomparsa; presupporrebbe, inoltre, un qualche diritto di parola ai profani, che sono invece rigorosamente esclusi da questo salotto dei competenti.
Questa conclusione, solo a prima vista paradossale, spiega la strana circostanza per cui una proposta "anarchica" come quella di McCloskey si conclude poi nella sua ferma adesione alla teoria ortodossa, che certo non brilla per progressismo. Per un verso, a McCloskey, sembra potersi applicare forse meglio che a Rorty stesso ciò che Zygmunt Bauman ha scritto di quest'ultimo nel suo recente "Legislators and Interpreters", cioè che la riflessione del filosofo americano "sembra si adatti molto bene all'autonomia e all'interesse istituzionalmente legittimato della filosofia accademica per la propria autoriproduzione" (dove, ovviamente, nel caso di McCloskey si dovrà sostituire economia accademica a filosofia accademica). Per l'altro verso, l'immagine della partita a scacchi rende difficile resistere alla tentazione di ricordare un celebre detto di Keynes, secondo cui "l'economia politica non è una partita a scacchi e le nostre teorie devono essere tali da poter essere usate". Questa dimensione, del legame tra teoria e uso, tra conoscenza e pratica, è ciò che appunto scompare interamente nel punto di vista di McCloskey, e spiega - dal punto di vista interno dell'epistemologia: certo, occorrerebbe indagarne anche le prosaiche ragioni materiali - come mai la dimensione della lotta nella società e nella politica, con i suoi risvolti di lotta nella cultura siano così assenti nella "Retorica dell'economia".
Significa questo che la critica di McCloskey al metodo dell'economia positiva, e ai suoi flebili critici postpositivisti, sia mal posta? Tutt'altro: il quadro che McCloskey dà degli economisti e del loro metodo è, ahimè, abbastanza fedele. Il problema è semmai l'inverso, che la critica di McCloskey non è abbastanza radicale: all'immagine della scienza come rappresentazione fedele del mondo esterno, McCloskey, come molti postpositivisti, non è in grado di contrapporne un'altra. Mentre i postpositivisti più moderati si affannano a contestualizzare e qualificare l'impostazione tradizionale, McCloskey, che fa parte del drappello più battagliero, si limita a dichiararne piuttosto l'impraticabilità. Alla base delle sue conclusioni c'è probabilmente una confusione tra un condivisibile antifondazionalismo - che critica l'idea che esistano garanzie assolute, esterne alla teoria, della verità della conoscenza - e un meno condivisibile relativismo - cioè la convinzione che l'unica accezione di verità ancora praticabile è quella pragmatista, secondo cui vero è solo ciò che è vero (desiderabile, migliore) dal punto di vista della nostra comunità, ma potrebbe tranquillamente essere falso per altri. In questo modo, per esempio, un movimento di contestazione - finché non vince, ovviamente, e definisce, solo per questo, i criteri del vivere comune - è, per definizione, arbitrario o violento: mai un conflitto di ragioni, in linea di principio capace di soluzione: per persuasione dell'altro, per trasformazione della realtà, o per un intreccio delle due cose.
Il torto di McCloskey, per cui la sua critica si trasforma in un'apologia, è quello di non rendersi conto che una immagine alternativa di scienza esiste: l'immagine è appunto quella che vede la scienza come un intervento, che sostiene cioè la presenza di una relazione tra conoscenza e pratica. Prima e dopo la conoscenza vi è l'attività umana, e la conoscenza stessa altro non è che una forma particolare di attività. In questo modo di vedere le cose, ogni teoria sarà retta da regole sue proprie proprio come gli scacchi sono giocati secondo certe regole e non altre - salvo il cambiar gioco. La giustificazione della pretesa di essere conoscenza non potrà che essere, dunque, contestuale. Al tempo stesso, una teoria, per essere conoscenza di qualcosa, dovrà rimandare al momento che Keynes definiva di "uso": alla verità di una teoria, per cui essa può descrivere il mondo in un certo modo e non in un altro, concorre cioè qualcosa di non proposizionale. Questa immagine della scienza è certo ancora debole, in epistemologia come in economia: ma non sarebbe male se l'esempio di Keynes, su questo ancora attuale, trovasse più imitatori (per non andare ancora più indietro, o avanti, a quel Marx che sulla natura pratica della conoscenza imposta tutte le "Tesi su Feuerbach", e che della natura determinata delle astrazioni fa il centro del suo metodo anche negli scritti più tardi). Poteva andare diversamente? Credo di sì: uno dei non piccoli meriti del libro di McCloskey è infatti l'aver suggerito, sul terreno dell'epistomologia, un legame tra retorica presocratica e pragmatismo. Sarebbe un peccato perdere di vista la possibilità di edificare meglio su quelle fondamenta per la fragilità della costruzione di McCloskey: tanto più che i limiti dell'impostazione de "La retorica dell'economia" emergono bene dal paragone con un libro - che ha ormai quindici anni, ma è stato da poco ristampato con una nuova postfazione proprio prima dell'estate da Adelphi - che fa riferimento alle stesse fonti, per così dire, di McCloskey, ma per andare in tutt'altra direzione.
Si tratta de "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta" di Robert Pirsig: non sembri irriverente il confronto tra un saggio ed un romanzo, perché certo, e a ragione, non sembrerebbe irriverente a McCloskev, propositore di una "critica letteraria dell'economia". E come il libro di McCloskey è scritto con la brillantezza di un romanzo, così il libro di Pirsig è un testo di divulgazione e riflessione filosofica di alto livello. Il libro di Pirsig è la storia di una viaggio del protagonista con il proprio figlio undicenne dal Minnesota a San Francisco: a casa, una moglie ed un altro figlio, che non compaiono mai nella vicenda; sino al Montana i due sono accompagnati da una coppia di amici, di cui poco ci viene detto. E d'altronde, lo stesso figlio - di cui la postfazione ci racconta la triste sorte - appare sullo sfondo del racconto e del dialogo, benché in questo caso la difficoltà del dialogo tra padre e figlio sia al centro, a volte implicitamente, a volte esplicitamente, del libro. Il romanzo è occupato in buona parte dai monologhi del protagonista, che si indirizzano ben presto verso due questioni connesse, da un lato il dualismo tra intelligenza classica (scientifico-tecnologica) e romantica (arte, creatività, intuizione) e dall'altro lato "quella strana separazione tra quello che l'uomo fa e quello che l'uomo è". Questi monologhi lo portano a recuperare dal passato un personaggio (che è poi un sé precedente), cui dà - non a caso - il nome di Fedro, che contro queste medesime scissioni si era scagliato anni prima in una ricerca che l'aveva condotto all'isolamento e alla follia. Non starò qui a ricordare come attraverso questo racconto venga a crescere nel lettore una tensione costruita da materiali all'apparenza (anche linguisticamente) scarni e (anche narrativamente) fragili. Né come la soluzione del plot stia nel recupero da parte del narratore delle razioni del folle Fedro contro le parole della Scienza e della Filosofia - dunque Fedro non aveva poi del tutto torto - e nel riattivarsi di una relazione affettiva con il figlio, oltre il suo silenzio - dunque, Fedro non aveva poi del tutto ragione, nel cercare solo in altre parole ciò che sconfigga altre parole. Ciò che qui interessa è che Fedro insegnava, appunto, retorica, e che nei racconti del narratore si sente un'inconfondibile aria pragmatista: gli stessi materiali di McCloskey. Ma quanta differenza! McCloskey, con una ricca scrittura, ci comunica un messaggio tranquillizzante: stiamo solo conversando, in fondo anche questa è una specializzazione, non stiamo combattendo l'uno contro l'altro per la verità. Pirsig con una scrittura semplice, crea inquietudine: l'inquietudine di una ricerca, della Qualità prima che della Verità, una ricerca che morde talmente in ciò che è essenziale da divenire una vera e propria lotta per la vita o la morte. Mi sono chiesto come mai il romanzo di Pirsig mi sia piaciuto, mentre il saggio di McCloskey no: e non credo che la risposta stia soltanto nella diversa natura dei due libri. Forse, una parte della ragione sta proprio nel differente atteggiamento filosofico, a dispetto della somiglianza dei punti di partenza. Quale è, davvero, la risposta di Pirsig alle scissioni della conoscenza contemporanea? Di che pasta è fatta la sua retorica? Che genere di pragmatismo è il suo? Per rispondere alla prima domanda credo sia utile una citazione: "Sì o no... questo o quello... uno o zero. L'intera conoscenza umana è costruita sulla base di questa discriminazione elementare a due termini. Ne è una dimostrazione la memoria dei calcolatori, che immagazzinano tutta la loro conoscenza sotto forma di informazione binaria. Tanti uno e tanti zero, nient'altro. Dato che non ci siamo abituati, di solito non ci accorgiamo che esiste un terzo termine logico possibile equivalente al sì o al no, il quale è in grado di espandere la nostra conoscenza in una direzione non riconosciuta. Non esiste nemmeno il termine per indicarlo, per cui dovrò usare la parola giapponese 'mu'. 'Mu' significa 'nessuna cosa'. Come 'Qualità', 'mu' punta il dito fuori dal processo di discriminazione dualistica, dicendo semplicemente: "nessuna classe, non uno non zero, non sì non no. Afferma che il contesto della domanda è tale per cui la risposta sì o la risposta no sono errate e non dovrebbero essere date. Il suo significato è "non fare la domanda". 'Mu' è appropriato quando il contesto della domanda diviene troppo angusto per la verità della risposta".A me pare che la risposta alla classica domanda dell'epistemologia se esiste una verità oggettiva, domanda a cui McCloskey risponde decisamente di no, sia 'mu': almeno sino a che rispondere di sì comporta l'aderire ad una visione dell'oggettività della conoscenza come rappresentazione, e il rispondere di no comporta la "felice perdita" del mondo esterno come parte del processo conoscitivo. Mentre non mi sembra lontano da una immagine della conoscenza come pratica Pirsig quando scrive: "Alla fine Fedro si rese conto che la Qualità non poteva essere collegata singolarmente n‚ al soggetto n‚ all'oggetto: la si riscontrava solo nel loro rapporto reciproco. La Qualità è il punto in cui soggetto e oggetto s'incontrano. La Qualità non è una cosa, è un evento. È l'evento che vede il soggetto prendere coscienza dell'oggetto. E dato che senza oggetto non ci può essere soggetto - sono gli oggetti che creano nel soggetto la coscienza di sé - la Qualità è l'evento che rende possibile la coscienza sia dell'uno che degli altri. Questo vuol dire che la Qualità non è solo conseguenza di una collisione tra soggetto e oggetto. L'esistenza stessa di soggetto e oggetto è dedotta dall'evento Qualità. L'evento Qualità è causa del soggetto e dell'oggetto, erroneamente considerati come causa della Qualità''. Il fatto che una ripresa pragmatista della retorica classica conduca a vie d'uscita così differenti come quelle di McCloskey e di Pirsig mi sembra giustificabile se tanto nella retorica quanto nel pragmatismo si individuano filoni diversi. Non si tratta, peraltro, di una ipotesi priva di sostegni. In una interpretazione recente della sofistica che Salvatore Natoli ha sviluppato nella storia della filosofia a dispense curata da Severino per la Fabbri - si può leggere di una differenziazione tra il filone dialettico - retorico di Gorgia e quello empirico - pragmatico di Protagora: per Gorgia, se anche qualcosa esistesse non potrebbe essere conosciuto, e vi è dunque una compiuta dissociazione tra parole e cose, linguaggio e realtà; per Protagora, l'uomo è misura di tutte le cose secondo il modo in cui ne fa esperienza, per cui nella relazione tra il linguaggio e la realtà la verità si dà come circolarità dei due momenti del conoscere e del fare. Per quanto riguarda il pragmatismo americano, è noto che Charles Peirce definì suicida la torsione irrazionalistica impressagli da William James, su cui si innesterà John Dewey, uno degli autori più amati da McCloskey. Mentre in James e Dewey la nozione di verità si dissolve nella nozione di utile, Peirce mantiene una nozione forte, benché ipotetica e fallibilista, di verità universale: ad essa tende la ricerca, che si fa oggettiva mediante la continua messa alla prova degli effetti pratici concepibili delle teorie. Alla luce di quanto precede, si potrebbe azzardare la tesi che McCloskey è prigioniero di una visione della retorica ereditata da Gorgia e di una versione del pragmatismo secondo la linea James-Dewey: sarebbe anche a causa di ciò che egli finisce con l'approdare ad una risposta relativistica alla attuale crisi del fondamento. Al contrario, si potrebbe dire, l'esito differente, e più stimolante, del romanzo di Pirsig affonda le sue radici in una diversa retorica ed in un diverso pragmatismo, che puntano il dito verso una ridefinizione del significato di verità oggettiva nell'impresa scientifica. Ma qui, in bilico sul filo sottile di una genealogia filosofica non so quanto fondata e quanto arbitraria, debbo fermarmi.

Robert M. Pirsig, Lo zen e l'arte della manutenzione della bicicletta, Adelphi.