BREVE ANALISI DE "LA COGNIZIONE DEL DOLORE" di C. E. Gadda

 

Carlo Emilio Gadda nasce a Milano il 14.11.1893 e muore a Roma il 21.05.1973.

Tra le sue opere ricordo, oltre a "La Cognizione del Dolore" (uscito nel 1963 e vincitore del Prix International de Littérature), la raccolta di racconti "La madonna dei Filosofi" (apparsa nel 1931 per le edizioni di "Solaria"), la seconda raccolta "Il Castello di Udine" (pubblicata nel 1934 e che ottiene, nel 1935, il premio Bagutta), "L'Adalgisa" (serie di frammenti e racconti pubblicati tra il 1938 e il 1943, organizzati in affresco milanese nel 1944) e, infine, "Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana" (apparso in volume nel 1957).

Essendo sempre molto scettica di fronte alle biografie, spesso elenco di date luoghi e nomi ininfluenti e altre volte frutto di analisi precostituite, l'interesse per la vita di Carlo Emilio Gadda si concentrerà solamente su quei tratti dell'esperienza umana che si intrecciano direttamente con l'opera dell'autore analizzata nella presente analisi, ovvero "La Cognizione del Dolore", lavoro nel quale il motivo autobiografico ha il più ampio sviluppo e la cui stesura accompagnò Gadda durante tutta la vita.

Il racconto è un pastiche non-finito, che pare realizzare il Italia uno dei primi romanzi "aperti", frutto di una sperimentazione linguistica che ricorda analoghe esperienze di un Joyce o di una Virginia Woolf, e il cui protagonista, come il Tristram Shandy di Sterne, si perde nella moltiplicazione di particolari svincolati gli uni dagli altri, invece di svolgere linearmente il racconto della propria esistenza. A queste ricerche si sovrappone però un tema, pressoché coevo alla poetica Montaliana, quello del "Male Oscuro", quel male di vivere dell'uomo contemporaneo che però, in Gadda e nel suo alter ego, si trasforma nell'effacement di qualsivoglia altro da sé e nell'apologia del proprio dolore.

Seguendo i paralleli tra la vita di Carlo Emilio Gadda e il personaggio da lui inventato, Gonzalo Pirobutirro d'Eltino, ritroviamo innanzitutto l'enorme villa, nella realtà a Longone e nell'invenzione in una sorta di Brianza sudamericana, vissuta come prigione da entrambi. In quest'enorme casa, smisurata sia per le condizioni economiche della famiglia Gadda che per quelle del suo corrispettivo letterario, si snocciolano piccoli fatti quotidiani e mostruose crudeltà, spesso di genere autolesionista.

L'ambientazione dell'opera nel Maradagàl può essere anch'essa trasposizione dell'esperienza di Gadda in Argentina, dove visse tra il 1922 e il 1924, e quella dell'infanzia dell'autore in una Brianza gretta e meschina, subita durante l'infanzia fatta di ristrettezze e sacrifici, utili al mantenimento di una dimora serbata dalla madre contro tutto e tutti per il solo scopo, citando dal libro "di potersi infilare a metà dell'anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti… l'idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco".

Più semplicemente noteremo altresì il rapporto quasi esclusivo intrattenuto da Gadda (e da Gonzalo) con la madre. Rapporto privilegiato al di là degli incontri della vita reale o fittizia che, infatti, nel libro, sembrano scivolare come frammenti di esistenza disgregati, esclusi dalla reale esperienza del protagonista. E ancora, il senso di colpa, nei confronti della madre, esplicitato nel "Giornale di Guerra e di Prigionia", per una donna che "ha fatto infiniti, troppi sacrifici" e che torna nel libro, per esempio, nelle confessioni di Gonzalo al dottore, ma soprattutto nelle descrizioni della donna, sola, che vaga nella casa tra gli oggetti, e rammenta l'altro figlio, quello "non difettivo", caduto in guerra, in frammenti di esplorazione dell'animo altrui, in cui si confonde il dolore di Gadda con quello della figura della madre, reale o letteraria, in uno squarcio di improvvisa simpatia.

I paralleli potrebbero continuare a lungo, quello che mi premeva era sottolineare alcuni spunti di lettura, in questo caso autobiografici, dato che è l'opera stessa, qui brevemente indagata, a suggerire tale parallelo. Poiché il libro è soprattutto l'analisi, attraverso figure oggettive, del proprio fondo psichico e di tutte le nevrosi condizionanti dell'esistenza.

Ma come giungere a questa cognizione, ovvero quali strade percorrere per avvcinarsi alla nozione del dolore? Come fare del dolore non solamente argomento di trattazione ma dipingerne i paesaggi, i movimenti, i silenzi di personaggi creati a parole?

Gadda utilizza forme di espressionismo che vanno dal plurilinguismo alla creazione pura di vocaboli, al rovesciamento sintattico e alla distorsione grottesca, dal piacere barocco per l'invenzione e l'abbondanza al volo pindarico che trasporta da un frammento di vita a un'elaborazione intellettuale a un dialogo superficiale solo in apparenza.

Si legge "La Cognizione del Dolore" con la consapevolezza che non sarà sufficiente una volta, che ogni pagina può essere approfondita sotto molteplici punti di vista, dalla ricerca linguistica all'esplorazione delle pieghe più nascoste, dell'inconfessabile che non è possibile ammettere nemmeno a se stessi, trovando sempre nuovi percorsi di approfondimento e questo è meccanismo raro nella letteratura italiana che, spesso, non riesce a fare propri né a sviluppare autonomi percorsi di ricerca, che hanno invece contraddistinto la letteratura europea, e non solo, del secolo trascorso.

Concludo con poche righe, tratte dal libro, che ancora ai tempi delle superiori mi spinsero a affrontare il discorso gaddiano e che ancora, di tanto in tanto, amo rileggere e che spero suggeriranno a altri lettori di affrontare quest'opera (e scrivo "affrontare" cosciente del suo significato, perché non è facile impresa calarsi nell'animo umano): "Il figlio pareva aver dimenticato al di là d'ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d'ogni guerra: e d'ogni spaventosa morte".


Gostanza Luxemburg