O.L.F.A
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ANNO
VI/VII NN. 29/30 NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2002/2003 FERRARA
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Fernando Sorrentino
- Buenos Aires (Argentina)
Un dramma del nostro tempo *
(Un drama de nuestro tiempo)
L’episodio ebbe inizio verso le undici. Ero sul balcone seduto a
bere mate ed a rileggere, dopo
quindici o vent’anni, le affascinanti avventure de Le miniere di re Salomone: quando ero ragazzo — notai con tristezza
—, m’erano tuttavia piaciute assai di più.
Avvertii ad un dato momento che qualcuno mi stava osservando.
Sollevai lo sguardo. In uno dei balconi dell’edificio
dirimpetto, alla medesima altezza di quella del mio appartamento, notai la
presenza d’una ragazza. Alzai la mano e le mandai un saluto. Lei mi fece ciao con il braccio e lasciò il balcone.
Interessato ai possibili sviluppi, cercai nascostamente — lei mi
stava di certo spiando dalle fessure della persiana — di intravedere l’interno
del suo appartamento. Non vidi nulla. Dandomi il sole negli occhi, porte e
finestre mi apparivano come semplici rettangoli scuri.
«Questa non esce più», mi dissi, e tornai alla lettura. Non
avevo letto dieci righe che lei ricomparve. Il suo abbigliamento registrava
forse mutamenti.
Cominciai a prodigarmi in cenni e gesti infruttuosi. La ragazza,
ora seduta su una sedia a sdraio, leggeva — o fingeva di leggere — una rivista.
«È uno stratagemma», pensai; «non può essere che non mi veda, e ora si è messa
in esposizione». Non ne potevo distinguere bene i lineamenti ma il corpo sì,
alto e magro, ed i capelli, che lisci e scuri, le cadevano a piombo sulle
spalle. Nell’insieme mi sembrò una graziosa ragazza sui ventiquattro o
venticinque anni. «Chi sarà?», mi chiesi. «Forse l’ho incontrata tante volte in
panetteria…».
Ebbi una felice idea. Lasciai il balcone, andai in camera da
letto, la spiai attraverso la persiana: lei in tutta innocenza guardava verso
casa mia. Uscii allora di corsa e, oh fato propizio! la sorpresi in quel
colpevole atteggiamento.
La salutai con un gesto ampolloso che esigeva indiscutibilmente
rimando. In effetti, mi ricambiò il saluto. Dopo i saluti è norma iniziare una
conversazione. Non ci mettevamo però certo a gridare da un balcone all’altro.
Mi portai allora l’indice destro all’orecchio disegnando con esso un movimento
rotatorio che, come tutti sanno, voleva dire se potevo chiamarla al telefono.
Stringendo il capo tra le spalle ed aprendo le mani la ragazza mi rispose più
di una volta, ed una volta ancor di più, che non capiva. Canaglia! Come non
capiva?
Rientrai, staccai il telefono e tornai con quello sul balcone.
Lo esibii come un trofeo sportivo sollevandolo con ambo le mani sopra la testa.
«Deficiente, lo capisci o no?» Sì, capiva: il viso le s’illuminò con il lampo
d’un sorriso di gran denti bianchi e mi rispose con un gesto affermativo.
Bene, già ero autorizzato a telefonarle. Solo che io ignoravo il
suo numero. Occorreva chiederlo con la mimica.
Feci ricorso a gesti e segni stranissimi, m’avrebbe chiunque
preso per pazzo. Porre la domanda risultava difficile, era però suo dovere
intuire cosa avevo necessità di sapere io. Credo vi fosse cattiva volontà da
parte sua; che desiderasse, nella sua civetteria, divertirsi un po’ con me.
Tirò la corda fin dove fu possibile e, nel medesimo istante in
cui m’accingevo a darmi per vinto, la ragazza comprese.
Con l’indice disegnò nell’aria alcuni numeri che inizialmente
non intesi. Mi resi conto poi che lei scriveva dal suo punto di lettura e che i
tratti che ad esempio io vedevo come una doppia effe finale dovevano poi
intendersi come un 77 iniziale. Realizzai così la completa interpretazione ed
ottenni sette cifre che mi avrebbero messo in comunicazione con la mia
aggraziata vicina.
Ero contentissimo. Ricollegai il telefono e composi. Al primo driin sollevarono la cornetta:
— Sììì…! — mi rimbombò nell’orecchio una grossa voce maschile.
— Sorpreso da questa discrepanza tentennai un istante in cerca
delle parole da dire.
— Chi parla? — aggiunse il vocione già con una sfumatura di
collera e d’impazienza.
—Ecco… — mormorai spaventato —. Parlo con il 771…?
— Più forte, signore! — m’interruppe insopportabilmente —, Non
s’ascolta niente, signore! Con chi desidera parlare, signore?
Diceva non si ascolta
in luogo di non si sente, diceva signore con il tono che normalmente si
usa per dire imbecille.
Spaventatissimo, balbettai:
— Ecco… Con la ragazza…
— Che ragazza, signore? Di quale ragazza mi sta parlando,
signore? — nel vocione era già pronta una minaccia.
Come spiegare qualcosa a qualcuno che non vuole capire?
— Ecco… Con la ragazza del balcone — la mia voce era un filino
di cristallo.
Ma non s’impietosì per questo. S’infuriò anzi di più:
— Non molesti, signore, per favore! Siamo gente che lavora,
signore!
Un iracondo clic
troncò la comunicazione. Agitato, restai un istante senza forze. Poi — come se
mi servisse a qualcosa — guardai il telefono e lo maledissi tra i denti:
— Ma va' dalla mignottona della mamma tua che mille volte ha
imprecato per averti fatto!!!
Destinai poi duri epiteti all’indirizzo di quella tonta ragazza
che non aveva avuto l'accortezza di rispondere lei stessa. Pensai in seguito
che mia era la colpa per aver chiamato così prontamente. Dalla rapidità con cui
l’uomo del vocione aveva risposto dedussi che l’apparecchio era a portata della
sua mano, forse su una scrivania. Tentai d’immaginare quell’individuo
attribuendogli tratti odiosi: lo pensai grasso, rubizzo, sudaticcio, panzone.
«Siamo gente che lavora», aveva detto. E allora cosa? Tutti lavorano; non aveva
per quello un merito speciale. Vivevo io forse di rendita?
Il fatto era che quell’uomo stentoreo mi aveva inflitto una
categorica sconfitta telefonica. Mi sentii un po’ depresso e desideroso di
vendetta.
Tornai ciononostante sul balcone risoluto a chiedere, fosse come
fosse, il suo nome alla ragazza. Solo che lei non c’era. «Chiaro», arguii con
temerario ottimismo, «starà vicino al telefono attendendo con ansia la mia
chiamata».
Con rinnovate energie, ma con timore pure, feci i sette numeri.
Udii un driin; udii:
— Sììì…!!!
Terrorizzato, chiusi la comunicazione.
— Che ti venga…— sussurrai con rancore e tristezza e, formulando
la frase, ebbi un’idea che giudicai brillante.
Pensai: «Quest’abominevole troglodita di fronte si permette di
tiranneggiarmi solo perché mi manca un elemento, il nome della persona con cui
desidero parlare. È necessario quindi ottenerlo».
Poi pensai: «I numeri telefonici sono per ordine nella Guida
Verde. Io non dispongo della Guida Verde. La Guida Verde l’hanno le grandi
imprese. Sono grandi imprese le banche. Le banche hanno la Guida Verde. Il mio
amico Balbón lavora in una banca. Le banche aprono a mezzogiorno».
Attesi fino alle dodici e
cinque e chiamai Balbón:
— Oh, caro amico Hernando — rispose come udì una parola mia—, mi
sento estremamente rallegrato, contento e confortato di risentire la tua voce…
— Grazie, Balbón. Scusami però…
—…la tua voce di giovane spensierato, allegro e libero da
obblighi, doveri e responsabilità. Beato te, caro amico Hernando, che ignori
ogni tipo di problema. Beato te che prendi la vita come un fortunato divenire e
non permetti che nessun fatto esterno turbi la pace della tua piacevole
esistenza. Beato te che nuoti nell’abbondanza economica lavorando solo tre o
quattro ore per giorno. Beato te…
Qualche scettico che non manca mai riterrà impossibile
l’esistenza di gente che parla come Balbón. Non so come provarlo ma supplico mi
si creda: giuro, rigiuro e controgiuro che Balbón esiste e parla effettivamente
così.
Dopo avermi dotato di tutte le immaginarie fortune di cui aveva
avuto occasione proseguì — senza permettermi di parlare — con la seconda tappa
che consisteva nell’attribuire a sé stesso, a mo’ di tragico contrasto, tutte
le calamità dell’universo visibile ed invisibile:
— Per contro io, l’umile, il modesto, l’infimo Horacio Enrique
Balbón, continuo oggi come ieri e come domani, come l’altro ieri e come
dopodomani, a trascinare un pesante, oneroso e gravoso carro di miserie,
disgrazie e tristezze per questa angosciante, procellosa ed orrenda valle di
lacrime che a mo’ d’inferno, baratro ed averno mi percuote, oltraggia ed umilia
senza posa…
Questa storia io l’avevo già sentita migliaia di volte.
— Ma non era che t’avevano avanzato di grado e che guadagnavi
ora abbastanza bene?
— Sì, è così — ammise —. Ora guadagno tre volte più di prima, ho
un incarico di livello e mi hanno persino dato un timbrino con il mio nome…
La parola timbrino —
con l’erre nitidamente pronunciata — mi fece fare una risata.
—Tuttavia — proseguì senza offendersi —, il pesante, oneroso e
gravoso carro di miserie, disgrazie e tristezze continua ad esistere. Ed io
continuo a trascinarlo vacillante, infermo e forse con un piede già nella tomba
per la faccia di questo perfido, crudele e maligno pianeta…
Mi distrassi un po’ attendendo che concludesse i suoi lamenti.
All’improvviso udii:
— Mi ha fatto tanto piacere parlare con te. Sarà per qualche
altra volta.
E chiuse la comunicazione. Indignato, tornai a chiamarlo:
— Ma Balbón! — lo ripresi —. Perché hai interrotto?
— Ah — disse —. Desideravi dirmi qualcosa?
— Avrei necessità che tu vedessi nella Guida Verde a che cognome
corrisponde il numero telefonico seguente…
— Aspetta un istante. Prendo la mia stilografica, poiché tu sai
che io odio, detesto ed aborro scrivere con matite, penne a sfera o pennarelli.
Fu necessario attenderlo.
— Questo numero — disse in capo ad uno o due minuti —
corrisponde ad una tale Castellucci, Irma
G. de. Castellucci con doppia elle e doppia ci. Ma perché lo chiedi?
— Grazie tante, Balbón. Ti spiego un altro giorno. Ciao.
— Addio — rispose, con un cenno di risentimento nella voce.
Ora sì: io mi trovavo in possesso di un’arma poderosa. Con
spirito coraggioso e dito fermo tornai a comporre il numero della ragazza.
— Sììì…!!! — tuonò il cavernicolo.
Senza esitare, con voce sonora e ben modulata, e con un certo
tono perentorio, pronunciai:
—Per favore, mi metta in comunicazione con la signorina
Castellucci.
— Da parte di chi, signore?
Che chiedano da parte di chi, è abitudine che non mi piace. Per
confonderlo un po’ gli dissi:
— Da parte di Tiberiade Eliogabalo Asoarfasayafi.
— Ma signore! — sbottò —. Sono quasi quattro anni, signore, che
la famiglia Castellucci non vive più qui! Non fanno altro che molestare con
questo maledetto Castellucci, signore!
— E se non vive più lì perché mi chiese di par…?
Il suo furioso clic
m’interruppe a metà frase: non m’aveva permesso nemmeno d'esprimere quella
minima protesta contro il suo dispotismo. Ah, non sarebbe però finita così! Mi
precipitai sul telefono come chi afferra un revolver:
— Sììì…!!!
Con pronuncia da ritardato mentale, domandai:
— Pavdo codda famidia Casteddussi?
— Ma no, signore! La famiglia Castellucci è da oltre cinque
anni, signore, che non vive più qui!
— Ah… Che fovtuna: sto pavdando con id signov Casteddussi… Come
va, signov Casteddussi?
— Ma no signore! Mi comprenda, signore! —stava diventando una
dinamite—. Sono quasi sette anni, signore, che la famiglia Castellucci non vive
più qui!
— Dei come sta, signov Casteddussi? — insistetti cordialmente —.
E da sua signova? E i vagazzi? Non si ricovda di me, signov Casteddussi?
— Ma chi parla, signore? — il mostro, oltre che terribile, era
curioso.
— Pavda Mavio, signov Casteddussi.
— Mario? — ripetè schifato —. Che Mario?
— Mavio, signov Casteddussi: Mavio, queddo che si navscose
dentvo d’avmadio.
— Come…!? — non m’aveva sentito bene: io avevo la bocca piena di
risate.
— Mavio, signov Casteddussi, Mavio Adbevto.
— Mario Alberto? Che Mario Alberto?
— Mavio Adbevto, queddo che ha un occhio stvabico e d’adtvo
guevcio, signov Casteddussi.
Quello fu una specie di bomba atomica:
— Ma non molestare, idiota, fammi il favore!!! Perché non ti
spari un colpo, cretino!?
— Pevché non posso, signov Casteddussi. Ho una miva di mevda,
signov Casteddussi. D’udtima vodta che ho voduto spavavmi un codpo in testa ho
ammazzato invodontaviamente un pinguino che stava in Antavtide, signov
Casteddussi.
Vi fu un attimo di silenzio, come se per non essere fulminato da
un infarto quell’individuo pazzo di rabbia aspirasse in una sola boccata tutto
l’ossigeno dell’atmosfera terrestre.
Io, attentissimo, aspettavo.
Allora, con il massimo furore ed affogando nella propria
collera, il mostro riversò gridando su di me questa scarica di artiglieria
pesante ove ogni parola, impaziente d’essere profferita, s’accavallava alle
altre:
— Ma che ti venga un colpo, pezzo d’idiota, tarato mentale,
grandissimo rincoglionito, parassita, ritardato di merda, cornuto, inutile,
inservibile, segaiolo, tonto dabbene, sifilitico, blenorragico, babbeo contento
!!!!
— Mi sento modto onovato dadde sue pavode, signov Casteddussi.
Modte gvazie, signov Casteddussi.
Troncò con un colpo violentissimo. Fu un peccato: mi sarebbe
piaciuto che avesse continuato ad insultarmi. Era delizioso immaginare il mio nemico
rosso, sudato, apoplettico, con l’apparecchio telefonico rimasto forse guasto a
causa del colpo…
Fui contentissimo e già non m’importò più di non aver potuto
parlare con la ragazza del balcone.
*) Il brano è tratto dal
romanzo di Fernando
Sorrentino Sanitarios Centenarios,
II, 7, Buenos Aires, Sudamericana, 2000, pagg. 105-114.
Traduzione © di Mario
De Bartolomeis