O.L.F.A
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GALLERIA
LETTERARIA UNGHERESE
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Le opere qui
riportate sono già state pubblicate nelle edizioni (Edizione O.L.F.A.)
dell'Osservatorio Letterario
LIRICA UNGHERESE
Kassák
Lajos (1887-1967) |
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Monoton Eső
esik esik az
eső mintha opál gyöngyök hullanának az ég fekete
kötényéből esik az
eső esik esik esik. |
Monotono Cade cadente cade la pioggia come opali perle cadessero dal nero grembiule del cielo cade la pioggia cade cade cade. |
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Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
Kassák
Lajos (1887-1967) |
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Felajánlott
béke Ha elmész az a te dolgod. De nem miattad sír majd a
szél a tulipánok nem miattad
csukják be szirmaikat. Nélküled
maradok és kicsépelem termésem
maradékát. Ha éhes leszel szállj ablakom
párkányára tiszta búza
lesz ott s én jó
étvágyat kívánok hozzá. |
Proposta
di pace Fatti tuoi se vai via. Ma non per te i venti
piangeranno i tulipani i petali non
per te chiuderanno. Di te resto
senza e del mio
raccolto batterò la
semenza. Quando
affamato tu sarai al mio
davanzale volerai buon grano vi
troverai e il mio buon
appetito riceverai. |
|
Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
Kassák Lajos (1887-1967) |
|
A
vak sóhaja Éjszaka
van éjszaka van fekete éjszaka
van iszapos
éjszaka van éjszaka van éjszaka van mindig éjszaka van. |
Il sospiro del cieco È notte è notte è notte tetra è notte melmosa è notte è notte sempre è notte. |
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Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
Kassák Lajos (1887-1967) |
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Veled
vagyok Előtted megyek és magaddal viszed életem. |
Con te sono Ti vado
avanti tu a me
davanti del primo
sole l'aurea catena nella mano
mi tintinna. Dove vai
chiedo rispondi
non so. Più in
fretta i miei passi darei ma tu
meglio li affretti dei miei. tu a me
davanti. |
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Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
Kemény
Géza (1937-2002) |
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VAN EGY NAGY FA, aranyló, nagy fa: a világ álmodik alatta. Ezer évenként ha megébred, kondul a hold tornyán az éjnek. S amott, a messzi égi lápon fázós csillag a madárlábnyom. Hajnalodván megtelik éggel, s eggyé sápadt szittyós vizével. Van egy nagy fa, aranyló, nagy fa, fölcsipog a világ alatta, s dallal telik meg minden ága: az égnek madár a világa. 2001 |
V'È UN GRAN ALBERO,
dagli aurei barbagli: vi sogna il
mondo che sotto stagli. Quando ad
ogni millennio si desta rintocca a
notte su torre di luna. E là in
palude celeste lontana freddosa
stella è d'uccello l'impronta. Di cielo
colmasi al fare dell’alba e insieme
d’acqua giuncosa scialba. V'è un gran
albero, dagli aurei barbagli, vi becca il
mondo che sotto stagli, ed ogni
ramo di canto ne investe: il suo
mondo è uccello celeste. |
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Traduzione Ó di Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis |
Tolnai Bíró Ábel (1928) |
|
A
JÓ ÖREG NAP Évezredek óta rója az utat Reggeltől estig keres és kutat. Sokszor látogatja strandok tájait, S végigsimogatja a nők bájait. Ám fáradt lábakkal nászágyába szállva, Kellő bűntudattal pirul a pofája. Kecskemétről utazva haza 1989. augusztus 29-e alkonyatján. |
IL BUON VECCHIO SOLE Egli
percorre da millenni la strada Da mane a
sera cerca ed indaga. Bazzica
molto i paraggi di spiagge E delle
donne carezza le grazie. Posando al
talamo stanche le gambe Del giusto
arrossa mea culpa le gote. Da Kecskemét verso casa al tramonto del 29 agosto 1989. |
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Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
© Melinda
Tamás-Tarr |
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MEGTÖRT
VARÁZS (Lélektől lélekig fájdalmas üzenet) Eljött az éjfél
s beles a sötét lélek-ablakon |
INCANTO
SPEZZATO (Dolente messaggio da anima ad anima) Viene
mezzanotte a spiare la nera finestra dell'anima |
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Traduzione © di Mario
De Bartolomeis |
Tamás-Tarr Melinda (1953) |
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Cím
nélkül «Szeretnék meghalni Téged szeretve, de elkerülni, hogy mások
szenvedjenek.» Szempilláim elnehezültek, Fátyolossá vált a szemem, Fagyos-jeges kéz érintette Most éppen újraéledt lelkem. Hol van a ragyogó tarka rét? S a lebegő kicsi lepke? Nincs más mint csak korom-sötétség S jeges szél fagyasztja szívem. Immár ijesztő, mély csönd honol, Az égen sincsenek csillagok, Eltűntek egy pillanat alatt S az Esthajnali
is lezuhant… Itt küldöm három könnycseppemet, Mely éjjel a lelkemből fakadt, Szívem húrja nagyot pattant, Éles, fájdalmas, nagy robajjal.
*** De azért mégis örvendezem, Mert szerelme
itt van lelkemben, Amely még forróbb és nemesebb, Tanu: a tegnapi üzenet! |
Senza titolo «Vorrei te amando morire
per non fare altri soffrire.» Le mie
ciglia ora sono pesanti, Agli occhi un
velo m'è sceso davanti, Il gelo
d'una mano ha sfiorato Il mio
animo appena rinato. Dov’è il
fulgido prato sgargiante? E la
piccola farfalla ondeggiante? Ora solo
dei miei anni ho il grigiore E gelido
ghiaccia un vento il mio cuore. Cupo regna
già un silenzio tremendo, Non v’è in
cielo neppure una stella, Sono andate
in un momento svanendo E di Venere
è caduta anche quella… Io tre
lacrime qui mando allegate Dall’anima
mia a notte sgorgate, La corda è
balzata del mio cuore Con acuto
gran dolente fragore. *** Sono felice
però tuttavia Ché il suo
amore è nell'anima mia, Ancor più
alto in calore e lignaggio: Testimone
n’è di ieri il messaggio. |
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Traduzione di Ó Mario De Bartolomeis |
Melinda
Tamás-Tarr (1953) |
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Óh, miért…? Óh, hőn szeretett lovagom, Csitt! Ne szólj egyetlen szót sem! Bármit mondasz, már ír helyett Csak egy tőrdöfés szívembe! Átkozok minden csillagot: Mért hoztak téged elémbe Huszonhat éves késéssel? Hogy elveszítsem elmémet? Óh, elkéstél Nagy Szerelem, Csak Fájdalmat szülsz szívemben, Óriási kacér lángoddal Egyre kínozod lelkemet!… |
Oh, perché…? Oh mio
tanto amato cavaliere, Non devi un
solo motto profferire! Ogni tuo
accento è, come dire, Solo una
pugnalata nel mio cuore! Le stelle
proprio tutte io ho odiato: Perché
nella mia vita ti han portato Ma ventisei
anni hanno tardato? Volevano io
perdessi l'intelletto? Oh grande
tardivo mio amore, Generi solo
dolore al mio cuore, Dei tuoi
fuochi con gl’immensi abbagli La mia
anima più ancora travagli!… |
|
Traduzione © di Mario De Bartolomeis |
PROSA
UNGHERESE
L’OCARINA DAL BEL SUONO
*
(Szépen szóló muzsika)
di Móra
Ferenc
Dov’era, dove non era, c’era una volta un’ocarina la cui
particolarità era quella di emetter suoni solo se a soffiarvi era un bimbo
buono.
So questo poiché la meravigliosa ocarina mi appartenne, e
come ora torno a guardare per l’intero arco della mia vita tutto rivedo sino ad
essa: quanto era avvenuto prima mi sfuma davanti agli occhi come veduta
mattutina d’un lungo viale alberato.
L’ocarina l’avevo avuta da un venditore di giocattoli
slovacco per essere andato a riempire d’acqua fresca la sua coppa di legno al
secchio del pozzo del mercato.
Il buon’uomo bevve a lungo; poi guardò sul banco dei
giocattoli:
"Allora ragazzino, cosa ti do per aver portato
dell’acqua allo zio Jano? Sì, ti do un’ocarina."
L’ocarina era proprio bella, colorata per metà di rosso e per metà di giallo; a
dire però il vero avrei preferito piuttosto un cavalluccio con la coda a
fischietto. Glielo dissi anche allo zio Jano che a casa un’ocarina l’avevo già.
"Eh, figliolo, questa però non è come le altre!" lo
slovacco armeggiò col suo temperino dal manico di legno nel becco dell’ocarina.
"Questo è uno strumento che suona solo finché vi soffia un bambino buono.
Fammi un po’ vedere se sei buono e se sai farlo suonare?"
Vi detti fiato e suonò così bene che rimasi a bocca aperta
per la gioia. Nemmeno ora so spiegarmi cosa potè fare al fischietto quello
stregone slovacco, fatto sta che fischiava proprio come un rigogolo.
"Che suoni sempre così bene!" mi gridò dietro la bocca aguzza dello
slovacco.
Ed in verità suonò anche meglio quando, tornando verso casa,
mi impratichii completamente dell’ocarina. Al solo sfiorarla con la bocca
gorgogliava sommessamente come una tortora; se vi davo un lieve soffio
gorgheggiava come un usignolo; riuscivo con essa a sibilare come un
ciuffolotto, a scricchiolare come un lucherino.
Il suono fece tornare il sorriso persino sul viso di mia madre, benché allora
lei fosse giorno e notte tutta triste poiché vegliava la mia sorellina malata.
Ed anche questa, poverina, aprì gli occhi spenti che balenarono di gioia quando
disse:
"Che bella ocalina! Suona ancola, tato!"
Ispirò fiducia persino al dottor Titulász quando nel
pomeriggio venne trotterellando da noi. Questi carezzò il pallido visino della
malata e poi si asciugò gli occhiali perché in quei giorni, chinandosi sulla
mia sorellina, gli diventavano immancabilmente umidi di commozione.
"Così, così, piccolo" m’arruffò i capelli sulla
fronte, "suona pure la bellissima ocarina se riempie di gioia quest’esile
bimba" 1).
L’esile bimba, poverina, sorrise stancamente. Feci comunque
garrire la mia ocarina in modo tale che tutta la casa ne risuonò.
"Basta ormai, mio piccolo suonatore" la mamma mi
terse il sudore della fronte quando a sera dalla veranda s’affacciò dentro la
finestra.
"Avrei smesso sicuramente; solo che proprio in quel
momento venne a casa il babbo dalla vigna e bisognava far vedere anche a lui la
mia bravura.
La fronte del babbo era corrugata: mi tolsi l’ocarina dalla
bocca ma in quell’istante la malata si fece sentire.
"Mia l’ocalina, suono io" spirò il suo alito infuocato dalla sua
boccuccia verso me, e come levò le mani senza forza esse svolazzarono nel bruno
del tramonto come bianche farfalle agonizzanti.
Il cuore mi si arrestò per lo sgomento e strinsi a me l’ocarina. Per nulla al
mondo l’avrei data a qualcuno.
Feci per infilare l’uscio, ma la mamma mi prese per mano.
"Ne sei dunque geloso, figliolo?" chiese con voce
mesta.
"Ma non sa nemmeno soffiarvi" tesi controvoglia
l’ocarina, "le bambine non s’intendono di queste cose."
Ed in effetti non era capace. La portò alle labbra ma
immediatamente le sue manine ricaddero senza forza.
"L’avevo detto, no?" feci per prenderle trionfalmente l’ocarina, ma
la poverina ritrasse le mani.
"No, mia l’ocalina!" mi guardò in cagnesco ed infilò il giocattolo
sotto il cuscino.
Uscii allora di soppiatto dalla stanza e, disperato, andai a
sedermi in giardino sotto ai ribes. A quell’ora gli usignoli stavano ormai
recitando le preghiere della sera; ebbi però la sensazione che mi deridessero,
proprio come se gorgheggiassero: "Sai fare così, gran suonatore di
ocarina?
Scoppiai in lacrime. Rientrai in casa e completamente vestito
m’infilai nel mio lettuccio piangendo sino ad addormentarmi: non potevano
curarsi di me quella notte la cui alba fu così dolorosa.
Quando mi svegliai e portai la mano alla tasca ormai
albeggiava.
"La mia ocarina!" balbettai sgomento, ché l’avevo
sognata e mi pareva d’averla messa in tasca.
Riavutomi dal sogno andai a tentoni nella stanza buona ove avevano preparato il
letto grande per la mia sorellina malata.
La mamma era china sul tavolo vinta dalla stanchezza; alla
debole luce del lume da notte il viso febbricitante di mia sorella era d’un
rosso come di rosa.
M’avvicinai furtivamente al letto ed infilai la mano sotto al
cuscino.
"Eccoti!" Mi batté forte il cuore quando sentii
l’ocarina.
Me la filavo con essa tutto felice quando, giunto sulla
porta, il lume ebbe un gran guizzo. Mi spaventai e mi voltai, come se gli
occhioni neri della mia sorellina fossero stati puntati su di me.
Li vidi così lucidi e tristi che preso dalla paura il
giocattolo mi cadde di mano. Battendo sulla porta fece un gran tonfo e la mamma
si svegliò di soprassalto:
"Ah, sei tu figliolo?"
Avevo già raccolto l’ocarina e senza aprir bocca me ne tornai
a letto. Mi riaddormentai subito, non senza aver però prima nascosto il tesoro
nel mio cuscino fra le morbide piume. Lì, per quanto intelligente, mia sorella
non l’avrebbe certo rinvenuto!
L’avesse magari trovato; non lo cercò mai più!
Quando mi svegliai per il gran silenzio avevano messo l’esile
bimba nella bara. Accanto a lei la comare Bordács recitava litanie mentre i
miei genitori stavano preparando il funerale.
La mia madrina era tutta presa dal libro di preghiere e non
se ne distrasse quando guizzai verso la piccola bara posta sul tavolo. Il
feretro era un po’ alto per me: sollevandomi in punta di piedi volevo
contrabbandare l’ocarina lanuginosa ed impiumata come l’avevo estratta dal
cuscino nelle mani della mia sorellina, ma le sue piccole dita scarne non
potevano ormai stringere più.
"Prendila Marika, te la do" le sussurrai.
Entrando dalla finestra aperta una folata d’aria pregna del
profumo dei fiori fece un po’ increspare e poi frusciare la coltre della bara.
"Non importa, tato, sento già una musica più bella"
rifletté il viso della mia sorellina e provai d’un tratto una stretta al cuore.
Allora, per la prima volta in vita mia, avvertii un dolore
senza che qualcuno mi avesse fatto male.
Mesto mi feci scivolare in tasca l’ocarina e non pensai di tirarla fuori per
tre giorni, sin quando cioè un’idea improvvisa me ne fece tornar voglia.
"Suonerò sulla sua tomba per renderle il sonno più
bello" pensai, e corsi al cimitero.
Il camposanto distava da casa nostra solo una corsetta. Presto lo raggiunsi ed
abbracciai il cippo di legno su cui ormai appassiva la ghirlanda di fiori
spinosi.
"Senti qua, sorellina!"
Detti così fiato all’ocarina e soffocai un grido di dolore.
Per quanto facessi, non suonava.
Aveva allora proprio suonato finché vi aveva soffiato un bambino buono!
Compresi col cuore a pezzi di non esserlo ormai più.
____________________________
(*) Questa novella è tratta dal classico della letteratura
ungherese per ragazzi "Kincskereső kisködmön" ("Un
gabbanino cercatesori") in cui Móra Ferenc (1879 – 1934) narra con accenti
liricamente fiabeschi la sua semplice e povera infanzia contadina. (N.d.T.)
(1)
La traduzione della tipica e complessa espressione delle favole ungheresi
"lenge nádszálkisasszony", qui resa con "esile bimba",
sarebbe in realtà "gracile signorina dal corpo esile come una canna"
e starebbe ad indicare quella fragile ed inerme bellezza per vasta tradizione
attribuita a fiabesche e per lo più sventurate principesse. Qui l’autore
ricorre a tale locuzione per accentuare il tono da favola che intende dare alla
rievocazione della sua infanzia. ( N.d.T.)
Traduzione © di Mario De Bartolomeis
Anna Jókai
L'ANGELO DI REIMS
Sta là nell'angolo stretto del portone
con le ali ancora tese dal viaggio.
"Eccomi" - dice alla statua
dell'uomo mutilata lì accanto. E sorride civettando col musetto come se si facesse
scoprire dopo un lungo gioco a nascondino. L'uomo è offeso. Sulla sua fronte si
notano tre rughe profonde e non guarda neanche l'angelo. Forse non lo sente
neppure. Guarda avanti, sulla terra, socchiude le palpebre gonfie, disperato.
"Non ne posso più" - dice nonostante che sia un santo. La nicchia
gotica si estende sopra di loro. Le dita affilate cercano la ragione che si sta
allontanando. È già l'autunno ma le trine di color giallo son ancor più freddo.
Si rifugiano qua gli hippy; una scatola vuota di conserva rumoreggia mentre sta
rotolando giù dagli scalini; il pesce al pomodoro schizza le pietre.
Jean-Baptiste tira fuori la sua pipa, il fumo s'imbatte nel viso dell'angelo.
Louise ride. Piace a Jean-Baptiste: "Lo affumichiamo da qui."
Strofina le dita sporche nel piede dell'angelo. Il pomodoro brilla come sangue.
"Dov'eravamo ieri?" - chiede Louise e si copre con la maglietta
decorata coi fiori neri tirandola fino alle caviglie. "Non è
indifferente?" Jean-Baptiste si risiede accanto, toglie le calze e
strofina i piedi nudi contro gli spigoli della scala. "E dove andremo da
qui?" "Non domandarmi - risponde il ragazzo - a chi domanda la gente
gli risponde delle bugie". La ragazza alza le spalle e si stende sulla
scala al rovescio, con la testa in giù. "Questo è il nostro angelo - dice
improvvisamente -, guarda i capelli". È vero, sulla fronte e dalle
orecchie le ciocche morbidamente cadono. Jean-Baptiste sta facendo le frange
sull'orlo dei pantaloni. "Noi non abbiamo l'angelo." "Io ho una
volta pianto" - dice Louise apparentemente in modo illogico. Il ragazzo
cerca qualcosa nel sacco rotto. Prende la bottiglia arancione a fibbia. L'offre
alla ragazza, beve un sorso. È mattina, Jean-Baptiste fa la pipì dai piedi
dell'angelo che come un ruscello scorre in giù. "Anche noi creperemo"
- dice Louise. "Non ce ne accorgeremo." Jean-Baptiste intreccia i
capelli.. "Noi non produciamo dei dolori. Il nulla è contento di nulla. Tu
lo capisci?" Una macchina chiusa, una Mercedes passa davanti alla chiesa
poi scompare a sinistra. "Chi è intelligente? - chiede Louise - colui che
assume un atteggiamento senza scopo o chi nega ed inventa la scatola di latta a
quattro ruote?" "Porci - Jean-Baptiste sputa -, ma tu non
domandare." La macchina blù profondo ritorna dal lato destro e frena
davanti alla scalinata. La porta segreta s'apre ed il capo famiglia scende. La
bionda barba curata inghiottisce le labbra. Aiuta la moglie nel scendere. Anche
i capelli della moglie sono biondi, lineari, tagliati con precisione, tutte le
ciocche di capelli hanno la stessa lunghezza ed arrivano fino alla metà della
schiena. Anche le figlie sono bionde: due bambine. Indossano un cappello bianco
di cotone fissato con un nastro blù sotto il mento. I loro denti sporgono un
po' avanti, questo le dà un aspetto curioso. "È pure questo" - dice
Klaus. S'incammina, la signora e le figlie si mettono in coda dietro di lui. La
barba di Klaus si sbandiera come uno scudo. Evitano Jean-Baptiste e Luoise,
pure gli sputi, la salsa e lo stagno della pipì mentre di nascosto gettano uno
sguardo verso loro. "È triste. Ehi, che triste" - dice Hilde e
sistema il suo cappellino bianco. Jean-Baptiste e Louise fanno la linguaccia al
massimo della lunghezza, ed emettono dei suoni da pecora. "Perché hanno
fatto così?" - chiede Hilde. "Così esprimono il loro essere
animalesco - dice Klaus - e tutto il loro disdegno per ogni cosa che elogia la
grandezza dell'intelletto umano La scalinata della cattedrale su cui camminiamo
è un esempio pregnante del puro gotico…" La bimba più piccola con cappello
bianco guarda Jean-Baptiste e Louise di nuovo con meraviglia. S'inciampa
nell'ultimo gradino della scalinata. Il padre se ne accorge e per avvertirla,
senza collera preme il pollice tra le costole della bambina. "Ahi! - grida
di dolore un attimo la ragazzina ed entra disciplinata nel buio. "Li
sterminiamo? Tutti questi?" - chiede Luoise. Sta lanciando delle carte
piccicose dal sacco. "Sciocca. Deridili. Lo vedi - indica verso l'alto -
anche quello ride di tutto". Con una mano raggiunge il ginocchio
dell'angelo, lo palpeggia intorno poi prendono il sacco, se lo trascinano
dietro sé perdendosi nella polvere.
Klaus guarda con gli occhi socchiusi
nella luce, chiude il libro di guida. "La ricchezza della navata laterale
gareggia con quella della trasversale - dice -. Sbrighiamoci, Hilde. Ce ne sono
ancora altre tre." "Klaus - la signora si ferma al fondo della
scalinata, le due figliole le sono accanto e leggermente si appoggia a loro -
qui ci dovrebbe essere un angelo. Un angelo qualunque… - continua insicura nel
silenzio - così dicono i libri." "È un'affermazione tradizionale. Si
abbondano di angeli. È la caratteristica della chiesa medioevale" -
risponde con tono professorale. "Ma questo è un altro angelo… è
particolare… " - dice Hilde e si regge al sottile collo delle bambine.
Klaus la guarda severamente. "Tutti gli angeli sono uguali. È un ornamento
banale. Non ti capisco, Hilde." Hilde ritenta, fa un passo indietro sulla
scalinata. Le bambine non la seguono, si fermano. Klaus è già dalla macchina. È
spaventosa questa disgregazione, la sbrecciatura dello spigolo. "Vengo,
Klaus" dice e si siede nella macchina con la gonna sistemata liscia.
"Dove andiamo ora, lo sai?" "Non ti capisco, Hilde" -
ripete l'uomo. Infila le mani nei guanti traforati, accende il motore.
"Siamo arrivati da Metz ed andiamo attraverso Parigi direttamente a
Chartres. È chiaro?" Le bambine stringono il nastro sotto il mento. Hilde
fa un cenno col capo, i suoi capelli le cadono sul viso mentre la vettura balza
un po' in avanti.
"Sono in ritardo" - ansima la
signora Chouchou e col bastone picchia il lastricato cinque volte. "Sento
che qui mi daranno qualcosa. Lo sento" Suole stare sempre presso il
portone laterale. Gli stranieri pensano che tenga la scatola d'argento in nome
della chiesa. "Cara Madonna mia, aiutami!" - dice all'angelo.
"Che giornata, cara Madonna mia! Tu riesci a sistemare tutto. Adesso dove
corro? Piuttosto al cinema? Cara Madonna mia - dice all'angelo con caparbietà -
ti chiedo soltanto due settimane di tempo sereno, così avranno voglia di
venire… Porta coloro che hanno e danno! Per te questo è niente. Vedi, io credo
in te, in cambio tu mi sistemi… Aiuta i tuoi fedeli e non i nemici, sii carina,
sii intelligente cara Madonna mia!…" alita un bacio sulla mano incrociata
in preghiera e lo passa sulle pieghe del vestito dell'angelo. "Il sorriso
non basta - dice con un leggero rimprovero - questo lo puoi ammettere." Si
appoggia sul bastone, osserva la via principale; il sole le raggiunge gli
occhi, la scatola d'argento lo riflette, suoni di Morse vibrano nell'aria.
"Cosa? - dice la vecchia - Devo andare dove sono esposti i gioielli
d'incoronazione?" Diventa più agitata. "Potrò farlo. Ma se di nuovo
mi mentirai sarò arrabbiatissima" prima di scendere col bastone dà un colpo
ai gradini della scalinata. Nel cielo nuvole giganti s'accumulano e piove per
molte ore. Piove tanto forte come in primavera, cadono le gocce diagonalmente,
il guardiano della chiesa chiude il portone.
Dalla strada, con la cartella dei
disegni, Marcello corre su, sotto l'angelo e si appoggia al muro. La pioggia lo
raggiunge anche lì, l'acqua accumulata sulla pietra della statua raggiunge
l'orlo del suo cappello. Correrebbe via, cercando di proteggere la cartella
dalla pioggia sotto il grembiule a quadretti; guarda il cielo, ma invece di
esso vede l'angelo, improvvisamente vicinissimo. Si meraviglia. Il viso
dell'angelo è coperto dai sottili raggi d'acqua della pioggia, dalla cavità
delle orbite e dall'angolo delle labbra le gocce cadono continuamente sul magro
petto. "È bello - pensa Marcello e lo guarda incantato - sorriso eterno
sotto le lacrime eterne. Non lo dimenticherò" - promette a se stesso.
Porta la cartella strettamente sulla pancia mentre sta camminando sul viale
alberato raffreddato. Poi non piove più. Ma il sole non torna, traspare
leggermente dal grigio. Arriva un pullman a forma di balena, davanti con una
piccola ed unica porta davanti. La porticina si apre, la guida scende. Fa un
cenno con la mano. Tutti scendono in fila indiana, le labbra della guida si
muovono. Intima anche al conducente a raggiungere la coda. Prende la chiave e
chiude la porta con cura. Gli altri aspettano mentre egli sistema la chiave nel
fondo della sua cartella. "Si può andare più dentro" dice la guida e
gli obbediscono. Una donna col fazzoletto sul capo, con una pesante corona di
capelli è titubante sulla soglia dell'entrata. Vorrebbe appoggiare la mano
destra sulla fronte. La guida subito si ferma accanto a lei, prende la sua mano
destra dal gomito e la aiuta cortesemente ad oltrepassare la soglia. Restano
dentro a lungo. Una donna con gli occhiali da sole legge uno stampato
fotocopiato, ogni tanto scruta intorno, cerca qualcosa e quando i due - la
carta e l'oggetto - concordano emette un urlo di vittoria. Tornando dietro
passano quasi davanti all'angelo. La guida fa cenno col capo, sussurra qualcosa
alla donna con gli occhiali ed indica con l'angolo della cartella l'ultimo
punto della lista. La donna vergognandosi conduce il gruppo indietro. Con una
voce piacevole da contralto ripete tutto quello che si deve conoscere della
statua. Due persone prendono degli appunti. La guida va avanti in fretta ed
apre la porticina del pullman a forma di balena. Sta lì finché tutti salgono
uno dopo l'altro, le labbra si muovono di nuovo. Allegramente trascina il
conduttore sul pullman, salta su anche lui con un movimento elastico, poi tutti
salutano con la mano la piazza vuota. Sta arrivando il tramonto e già si
percepisce che il grigio diventerà più grigio mentre la luce si ritira.
Hriszto prende il fazzoletto, lo stende
vi si siede sopra, chiude le ginocchia. Inumidisce con la saliva il palmo della
mano duro come la cinghia. Diventa agitato. Apre il telo ceroso, cerca
qualcosa. Si calma, sospira. "Ho sistemato le mie cose - pensa soddisfatto
- ogni tanto penso che esco dal tempo. Ciò nonostante ci sono riuscito."
Maria lentamente sale sulla scalinata.
Una verde foulard di mussola vola dietro le spalle avvolge la crocchia di
capelli incanutiti. Sotto s'apre la gonna a pieghe come una fisarmonica muta.
Ha freddo, con le mani incrociate copre il collo, sembra come se con la mano
sinistra volesse strangolarsi, ma la mano destra volesse impedirselo. "La
gente porta con sé tutto - pensa, ma lei non ha nient'altro che un sacchettino
perlato con la chiusura nichelata - sempre tutto in tutti i luoghi".
L'angelo si confonde col muro, la donna lo guarda incerta, ma vede soltanto il
buio concavo. Hriszto pensa che Maria sia più giovane. La sciarpa di mussola ed
il sacchettino perlato traggono in inganno. S'avvicina e posa i suoi tesori sul
gradino della scalinata. "La tecnica - dice con orgoglio -, la radio. Sech Transitor.
Verstehen? Six."
"Son venuta da casa - pensa Maria
-; mia figlia a casa tinge i suoi capelli finti. La figlia di mia figlia rigetta
i cibi nutrienti. Il padre di mia figlia guarda la tivù e beve la birra".
"Magnetofono - dice Hriszto e
sistema le cose in modo febbrile -, Made in Japan. Frist Class… "
Accende le piccole, sottili torce,
s'agita con le mani, ridacchia. Maria distratta fa cenno col capo.
"Peccato - pensa - ora è già definitivo: non hanno chiuso il mondo. La mia
finestra è diventata opaca."
Hriszto mostra un paio di forbici
giganti schioccandole. "Perfetto… perrrfetto…" arrota la 'r', salta
balzando sulle lastre di pietra.
Maria vorrebbe alzarsi quando accendono
i riflettori laterali. L'uomo vede il viso della donna da fronte, raccoglie le
sue cose frettolosamente. L'angelo risplende ed il suo sorriso si stende
dall'ombra.
"L'angelo - dice Maria sgomentando
- l'angelo."
"'Ein' Engel - Hriszto fa cenno con
le mani - nur ein Engel." Indica il riflettore da duemila Watt: "La
tecnica… Ja… La tecnica, ja… Aber Engel…" - muove la testa dispiaciuto. Ha
fretta. Alle ventuno e venti il treno parte, prende la coincidenza, a casa.
La donna resta ancora. Prova a guardare
dietro la statua. Poi si allunga, stira le dita dei piedi mutilate. Questa luce
è furba. Avanza dal basso verso l'alto.
"Che cosa sai tu? " - chiede
all'angelo. La provoca quel suo ininterrotto sorriso.
(1972)
Traduzione © di Melinda
Tamás-Tarr Bonani
Da "A reimsi angyal" (válogatott novellák), Szépirodalmi
Kiadó, Budapest 1997
Kate Carry ¹ - Pécs (H)
IL
SOGNO DEL FIORE DI CILIEGIO
- Che splendida luce vedo! - esclamò sulla
cima del ramo alto del ciliegio il minuscolo fiorellino. Scosse i suoi piccoli
petali stropicciati e si girò verso i
raggi del sole nascente. Era il suo primo mattino a questo mondo e si guardò
intorno stupefatto.
- Tu chi sei? - chiese alla brezza che
gli volteggiò attorno.
- Sono la figlioletta del vento, la
brezza mattutina che da i brividi - rispose al fiore di ciliegio la giovane
birichina. - Vengo tutte le mattine ed accarezzo i tuoi petali. Sei più bello
un bel po' delle migliaia di tuoi compagni. Ti si vede già da lontano.
Il fiore di ciliegio arrossì leggermente e imbarazzato s'accostò un po'
l'abito bianco. Non sapeva s'era bello o brutto, non vedeva nessun altro.
Sbirciò a destra e a sinistra ma nessuno dei suoi fratellini s'era ancora svegliato.
Sul mandorlo di fronte invece, si dondolavano dei fiori rosa.
- Che splendidi siete! – li apostrofò il
fiore di ciliegio pensando di non poter mai arrivare ed essere come loro.
- Ma cos’hai da guardare, - gli gridò uno di essi. - non hai mai visto un
mandorlo?
- No, - rispose spaurito - mi sono
dischiuso solo oggi.
- Allora richiuditi, non sei certo tu il
centro del mondo! – soggiunsero in coro anche altri fiori color rosa.
-Sì… sì - mormorò con voce sommessa il
fiorellino di ciliegio e si volse a guardare le nuvole che galleggiavano nel
cielo. Le diafane nuvolette azzurrine lo mandarono in visibilio. Pur avendole
vicine al cuore capiva quanto fossero lontane.
- Portatemi con voi! - le supplicò desiderando volare
anch’esso lontano, come quelle nuvole che sul loro dorso di riccioli
spumosi egli credeva portassero a nuoto
nel cielo dei segreti. Il fiore di ciliegio si chiese cosa potesse mai esserci
dietro le nuvole in quel mondo a lui invisibile. E concluse che così lontano,
oltre le nubi luminose, doveva proprio trovarsi un mondo uguale al suo, con
brezze, con fiori bianchi e rosa e con un cielo azzurro…
Sentì d’un tratto uno strano rumore e
vide sopra il suo capo una grande ombra scura. Una mostruosa piccola ape
roteava ronzando nell'aria.
- Tu chi sei? - chiese alla
sopraggiunta.
- Sono una piccola ape, vorrei fare un
piccolo banchetto tra i tuoi petali.
- Va bene - disse il fiore e le aprì il
suo abito bianco. – Di’ un po’ piccola ape, hai già visto tanto tu del mondo?
Quant’è grande? Ci sono anche altri
alberi oltre quello del mandorlo? Ed oltre le nuvole, ci sono fiori anche lì? E
lo sai dove fugge il vento e dove si dirigono le nuvole?
- Che piccolo
sciocco! - rise la piccola ape e strofinò le sue zampette. - Il mondo è grande
davvero. Oltre gli alberi finisce il giardino, da lì inizia il prato, poi c'è
un ruscello. Penso che sia lì la fine del mondo, io almeno ho il coraggio di
volare solo fin là. Delle nuvole… sai
però che non so nulla, ritengo non abbiano proprio niente a che vedere con il
mondo.
- Ma ve’! - esclamò il fiore di
ciliegio. - Che interessante! Io credevo che le cose stessero in modo
completamente diverso. Ti prego, portami con te, mi piacerebbe così tanto
vedere il prato ed il ruscello!
- Non ci penso neanche a portarti! –
fece sdegnata la piccola ape leccandosi le labbra soddisfatta. – Riesco a
malapena a portarmi dietro tutto questo polline - disse, e furente piantò in asso il fiore.
Dopo un po’ giunsero delle mosche dalle ali verdastre, ma al fiore di ciliegio
che si sgolò inutilmente al loro indirizzo non fecero proprio caso e si
limitarono a zigzagare intorno al mandorlo. Si calarono nei calici dei fiori
rosa sino a scomparire e schiamazzarono allegramente. Di tanto in tanto strani
uccelli scuri transitavano nel cielo ed il fiorellino aveva di loro così tanta
paura che avrebbe voluto nascondersi , ma quelli lo lasciarono in pace. Scese
poi lentamente il crepuscolo ed il piccolo fragile fiore raccolse infreddolito
i suoi petali su di se . Il mattino seguente tutti i suoi fratellini si
dischiusero ed il ciliegio rumoreggiò della loro vivace conversazione. Il fiore che se ne stava però sull’estrema
punta del ramo non prestò alcuna attenzione a fratellini e sorelline. I suoi
pensieri erano altrove, anelava al grande prato di cui aveva parlato la piccola
ape.
Passarono dei giorni in cui il fiore di ciliegio sognò giorno e notte.
Un bel mattino si svegliò tanto stanco,
ogni petalo gli doleva e non capiva cosa gli fosse accaduto. Alla solita ora
ecco accorrere la brezza mattutina la quale però non gli aleggiò accanto come
in altre occasioni ma, presolo per mano, lo portò oltre con se. Al fiore di
ciliegio sembrò proprio di sognare. Volarono intorno al mandorlo e sorvolarono
lo steccato sino al prato. Il fiore di ciliegio era tanto felice… Un suo petalo
giunse sopra il ruscello, un altro ancora provò a raggiungere le nuvole mentre
la maggior parte danzò intorno ad un cespuglio in fiore. Folleggiarono e
ballarono nella sfolgorante primavera intrecciandosi felici con i petali
fratelli.
Dei bambini vennero dalla casa correndo incontro alla fresca aria
mattutina del giardino coperto di rugiada.
- Guardate, - esclamò una bimba tra loro
- come il vento fa vorticare i petali del fiore di ciliegio! Tra non molto le ciliegie
saranno mature!
I bimbi sciamarono verso il prato ed i petali dei fiori come migliaia di
farfalle svolazzarono intorno ai loro capelli dorati. ²
¹ Pseudonimo di Katalin Kéri
²
Traduzione di Ó Melinda Tamás-Tarr Bonani e Mario De Bartolomeis
Katalin Kéri/Kate Carry
FIABA DEL NATALE DEI LIBRI
Una neve soffice,
brillante aveva ammantato le strade. Aveva fatto anche presa sui rami dei pini
ed i fiocchi avevano intrecciato la
danza intorno ai cespugli del giardino. La sera di dicembre era calata di
soppiatto sul borgo. Tutto si andava lentamente acquietando, si chiudevano i
negozi e così anche la biblioteca.
- Buon Natale! - dissero
accomiatandosi gli ultimi lettori che con i libri sottobraccio si diressero
verso casa.
- Buon Natale! - rispose
il bibliotecario e smorzò la candela decorata che era sul tavolo. Spense la
luce nella sala di lettura, si vestì e chiuse a chiave la porta dell'edificio.
Diretto verso casa i suoi stivali affondavano nella neve caduta di
fresco.
- Sentite quello che
dico? - chiese un filo di voce nella sala buia.
- Chi è che parla? -
chiese un'altra voce.
- Sono il 396, dal
ripiano superiore - disse il primo.
- Puah! Roba di donne! -
mormorò una voce più autorevole.
- A nome dei libri di
cucina io protesto per le dichiarazioni antifemministe. Parliamo piuttosto
d'altro! - intervenne un grosso, sbrindellato,
letto e riletto libro di ricette.
- Certo, siccome il
bibliotecario sarà in vacanza da Natale a Capodanno, avremo tempo a volontà per
parlare - soggiunse un libro giallo fresco di stampa.
- Mah! Potremo allora
guardarci fra noi! - squittì un romanzo
d'amore -. La polvere ci seppellirà del tutto.
- Non fare la leziosa,
sorella - disse l'enciclopedia da trentacinque volumi -, io sono qui che
m'impolvero da decenni e nessuno mi apre.
- Nessuno almeno ti
deteriora. Presto ti scarteranno ed io avrò finalmente il mio posto! - disse un
borioso dizionario nuovo di zecca -. Io
sono estremamente importante al giorno d'oggi.
- Macché, macché, non
esagerare! Chi è che studia l'ottentotto oggigiorno? - gli chiese ironico un
volume di poesie.
- Sarebbe meglio che tu
tacessi! Non ti ha letto ancora nessuno - ribatté il dizionario.
- Ma amici, non
discutiamo! Sul proprio ripiano ognuno è importante, non questioniamo! - provò
a sedare la disputa un vecchio voluminoso romanzo biografico. Vi fu un momentaneo
silenzio rotto qua e là da sussurri sommessi.
- Hai ragione, fratellone
- disse una guida di viaggi -, non siamo noi i nemici di noi stessi, no di
certo. Piuttosto lo sono i lettori che mandano in rovina le nostre nervature ed
alterano la nostra disposizione. Da me, ad esempio, hanno staccato una pagina
annodata. È pur vero che in vita mia ho già viaggiato tanto, ma non ne ho
ottenuto alcuna gioia. Hanno ricevuto altri una simile ingiuria ?
- Come no! - sbottò un
intrepido romanzo . - Sono vissuto tanto tempo e tante cose mi sono accadute.
Sto in questa biblioteca da cinquant'anni e sono anche andato in tante case.
Quando ero ancora nuovo tutti mi volevamo prendere in prestito. La mia
copertina era azzurro cielo ed il mio titolo vi era impresso a caratteri d'oro.
Probabilmente parlo di mare poiché i miei lettori sospirano sempre: «Oh, il
mare, il mare…!» Ci sono stati di quelli che mi hanno tenuto con gran riguardo;
una volta mi hanno anche riposto in un cassetto profumato, soffice, pieno di
fazzoletti. Una volta però mi ha preso con sé un ragazzo e lui è stato
estremamente crudele con me. Ha completamente scarabocchiato la mia splendida
copertina ed ha disegnato ad l'inchiostro delle cose sulle mie pagine e…
- Basta! - lo interruppe
a questo punto una raccolta di formule fisiche. - Proprio non ce la faccio ad
ascoltare ancora ! Si dovette scartare
anche il mio migliore amico per una cosa simile.
- A me sono successe cose
benanche peggiori - disse sottovoce un romanzo romantico dalla copertina rosa.
- Ad esempio le donne, leggendomi, mi hanno sempre inzuppato delle loro lacrime.
- Inaudito! - si indignò
un libro di animali illustrato -. Ultimamente mi hanno utilizzato come sostegno
per un pesante proiettore di diapositive. Mi si rompeva quasi la schiena. E
dire che sono stato tradotto dal tedesco!
- La stessa cosa vale per
me - disse una dispensa di sociologia -. Io sono americana di origine eppure mi
scarabocchiano in continuazione. Ogni mia riga è stata ormai sottolineata. C'è
chi trova interessante una parte di me e chi
un'altra. In ogni pagina sono ormai tutto un inchiostro. Il
bibliotecario ha osservato un giorno: «Mah, questa non si riesce proprio più a
leggere!»
Fu per un attimo silenzio
ed i libri udirono qualcuno piangere.
- Chi è che frigna? -
chiese l'enciclopedia d'arte. La domanda non ebbe risposta.- Chi è? - tornò a
chiedere.
- Sono io, una
copertina nella pattumiera - rispose
una voce dopo un bel po' -. Ieri qualcuno ha rubato tutte le mie pagine.
- Che titolo hai? -
domandò una guida di storia delle religioni commossa poiché un'atrocità simile
non l'aveva ancora mai sentita.
- Non riesco a leggere la
mia copertina, contenevo un'infinità di numeri e tabelle, almeno lo credo.
- Avresti quindi potuto
essere un annuario statistico. Ma a chi mai sarai servito? - domandò una
raccolta di facezie. Al che la
copertina buttata via cominciò a sciogliersi in lacrime ancor più sonoramente.
- Prestate attenzione,
fratelli - prese la parola uno dei libri di fiabe sin qui rimasto ad ascoltare
in silenzio -, puniamo i lettori irriconoscenti. Per quando dopo Capodanno
verrà riaperta la biblioteca, facciamo sparire completamente le nostre lettere.
Da qualche parte c'è qui un gran libro di magia che sicuramente ci aiuterebbe…
Quando la gente ci porterà a casa sarà presto sorpresa vedendo che non conteniamo
più nulla da poter leggere.
I libri dibatterono a
lungo questa proposta. Neppure per la sera di Natale riuscirono a trovare
un'intesa, ma per Santo Silvestro l'accordo fu raggiunto.
La neve era caduta, era
caduta sempre più ed aveva completamente ammantato la gradinata della
biblioteca. Dedita alle feste la gente, presa totalmente dai regali e dalla kocsonya 1), non pensò
neppure lontanamente ai libri della biblioteca. Dopo Capodanno ad ogni modo
rimasero tutti molto sorpresi quando
portarono a casa i libri presi
in prestito: sulle pagine bianche non c'era un solo carattere! Anche le
illustrazioni e le carte geografiche erano sparite.
- Cosa accadrà ora? Cosa
facciamo? - la gente corse avanti e indietro per le strade. Il bibliotecario
propose di aprire il grande libro di magia e riportare nei libri con un
sortilegio i caratteri birichini. Il libro di magia rilegato in pelle decorata
dal dorso dorato era invece completamente vuoto…
- Come hanno potuto i libri fare questo a noi? - vociavano i lettori e non si era accorto nessuno che aveva
smesso di nevicare e i ghiaccioli sotto
le grondaie cominciavano a sciogliersi.
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1) kocsonya : Tipico
piatto freddo ungherese, invernale e natalizio a base di lingua, zampa,
orecchio e naso di maiale in gelatina. (N.d.T.)
Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis
Katalin
Kéri/Kate Carry - Pécs (H)
IL GITANO INNAMORATO
I
cavalli andavano a piccola andatura. Ove passavano la rena rossiccia strideva
seccamente. Era uno snervante pomeriggio d’estate. L'uomo si calò meglio il
cappello sugli occhi. Egli stava in sella con un viso dall'espressione
immobile, impassibile, come se non lo
interessasse nulla e nessuno. Aveva la schiena dritta come una colonna.
Qualunque giovane avrebbe potuto invidiare il suo corpo.
Le
sue mani sfioravano appena la briglia. Conosceva bene il suo cavallo, ed
anch’esso lui. Bastava stringere appena le cosce che l'imponente animale alzava
subito il capo. Pareva quasi chiedesse:
-
E allora, cosa vuoi che faccia?
L'uomo dette un profondo sospiro.
Socchiuse gli occhi, ma anche così vedeva attraverso le fitte ciglia il cavallo
che incedeva lento ed i suoi trasportati. Li vedeva ma avrebbe preferito non
vederli. Un giovane recava con sé la propria moglie. La gonna a balze della
donna si stendeva interamente sul posteriore del cavallo. Le balze orlate di
merletti solo si muovevano in accordo al cadenzato passo del cavallo.
L'uomo
volse la testa. Posò lo sguardo sui cespugli d’un colore grigioverde che
fiancheggiavano il percorso ed ebbe
come la sensazione che una polvere sottile gli scendesse nei polmoni. Guardò in lontananza, grosse nubi
tondeggianti bordavano il cielo sulla linea dell'orizzonte. Il che gli riportò
alla mente la donna che gli andava innanzi. Volse il capo di nuovo in avanti e
come guardò la donna avvertì al torace un lacerante dolore. Ne distingueva solo
la nera crocchia di capelli con dentro
un fiore, la schiena sottile e le tante tante balze. Ebbe come la sensazione
d’una visione quasi dolorosa, ed era
tuttavia così cara al suo cuore.
Della
donna percepiva ogni movenza e pure, come il vento le sfiorava il filo d'un
capello, quel fremito impercettibile. Alzò la mano ad accarezzare le linee
dello snello corpo della donna. Oltre ogni immaginazione l'amava …
Si
calò nuovamente il cappello sugli occhi e chinò il capo. Non doveva neppure guardarla per vederla. La
meravigliosa donna dagli occhi scuri già era nel suo intimo.
La
sera sopraggiunse pian piano. Gli zingari si accamparono. Anche l'uomo smontò
da cavallo. Gli ultimi raggi di sole
brillavano sulla sua pelle color bronzo.
Egli temeva le sere ed i desideri che nel buio lo assalivano sempre più
selvaggi e torturanti. Non sedette con gli altri accanto al fuoco, tanto la
fiamma da egli stesso si sprigionava. Andò a passeggiare di dietro, tra gli
alberi, ove avevano legato i cavalli. Rimirò fisso il cielo ed ebbe la sensazione
che fosse incantato. Avvertì come un leggero senso di galleggiamento ed al
tempo stesso una specie di plumbeo peso attorno al cuore. Avrebbe voluto morire
perché sapeva di non poter vivere
assieme a colei con cui avrebbe voluto. In lontananza udiva le allegre risate
dei suoi compagni e vedeva nel buio vellutato della notte il fuoco brillare.
Rivedeva persino le balze, quelle in fondo alla gonna della sua regina.
S'avvolgevano attorno al suo cuore, cingevano l’intera anima sua e la sua vita.
Pensava con tanto affetto e tenerezza a quell'abito a balze, come ad una
reliquia. Chiuse gli occhi e della donna provò ad immaginare il sapore, il
profumo. Col pensiero ne aveva quasi raggiunto le labbra quando lo sbruffare
dei cavalli lo destarono dai suoi sogni ad occhi aperti.
Era balzato in piedi in un attimo ed aveva portato la mano alla tasca a
cercare il coltello. Tra gli alberi
vide guizzare i lembi d'una gonna a balze. Il cuore gli cominciò a battere così impetuoso da sentirsi
quasi male. Era come se con un martello
gli avessero picchiato sui timpani.
Avrebbe voluto fare molto piano e con delicatezza, ma sotto i suoi
stivali i rami scricchiolarono ed ebbe la sensazione di sollevare un fragore terribile.
Non dovette però camminare tanto. La donna era lì faccia a faccia,
davanti a lui, le mani nascoste dietro la schiena. Non ne vedeva il volto nel
buio, ma dalla curva delle spalle, dalla vita snella subito capì ch’era lei.
Respirava anch’essa velocemente, il torace le andava impetuoso sù e giù. Non
disse nulla ma l'uomo sapeva perché era venuta. Lo sapeva, pur se mai aveva
sperato che una volta sarebbe accaduto. O, a dire il vero, l’aveva sperato
anche sempre …
Prese delicatamente
tra le mani il sottile e morbido viso della donna e la baciò con formidabile
passione. Mai aveva baciato in tal modo e sapeva che neppure la donna l’aveva
fatto.
Erano come due folli usciti di senno, si squarciavano e laceravano a
vicenda le labbra.
La donna allontanò poi il capo e s’appoggiò all'albero. Cominciò a dondolare
lentamente tutto il suo corpo e con voce singhiozzante disse:
- Dio mio,
dio mio…
L'uomo tremava in ogni fibra suo del
corpo. Lo aveva preso un calore tale da
non riuscire più a dominarsi…
-
Trovati al ruscello vero l'alba - disse poi alla donna e tornò a dirigersi
verso il fuoco a passi rudi e
malinconici. Si calò il cappello sugli occhi e non sapeva se gioia od amarezza
si stava diffondendo nelle sue vene. Si sedette sull'erba volgendo in parte la
schiena agli altri e si lasciò prendere
dai suoi pensieri. Mille volte con l’immaginazione rivisse il tutto, ogni sua
cellula avvertiva l’impressione della donna. Non sapeva dove l’avrebbe portata
al mattino, solo che sarebbe stato il più lontano possibile, così lontano che
mai più li avrebbero trovati.
Non
chiuse occhio, andò a prendere il suo
cavallo ancora prima dell'alba. Ci si vedeva a fatica, lasciò al cavallo trovare la strada.
Raggiunsero il ruscello con un giro più largo e l'uomo era pieno d’aspettativa.
Stava sul cavallo con la schiena diritta,
aveva un po' sistemato il cappello sulla fronte e scrutava ad occhi fissi nella direzione da
cui attendeva la donna. Ogni volta che un ramo si muoveva o si piegava una
foglia immancabilmente credeva fosse il baleno d’una balza della gonna. Lo torturavano dubbi, con animo trepidante
si muoveva agitato sulla sella. Non sapendo il
cavallo cosa pensare del suo comportamento, col capo dette un gran
strattone alla briglia. Dall’improvviso movimento qualcosa cadde a terra.
L'uomo non vide bene cosa fosse, scese perciò di sella per
raccoglierla.
Era un pezzo di balza di pizzo bianco appartenente alla gonna della
donna. L'uomo guardò fisso il triste messaggio caduto dalla briglia e per
qualche istante non riuscì ad afferrarne il significato. Lo mise prima in tasca
accanto al suo coltello, poi lo tornò a prendere fuori e lo riportò all'altezza
del viso.
Montò a cavallo
e partì in una direzione a caso. Il sole sorse facendo brillare la sua luce sul
rossiccio paesaggio andaluso. Dalle colline distese si alzava una leggera foschia e
la sabbia strideva sotto gli zoccoli del cavallo.
L'uomo serrò la
balza nella mano, si calò il cappello a fondo sugli occhi e tra sè considerò se mai donna ancora esistesse da amare così tanto.
Dritto in sella come un fusto, lanciò il cavallo al più rapido trotto.
Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis
István Örkény
(1912 - 1979)
ITALIA
Il direttore d'orchestra italiano, portata a termine
l'esecuzione de "Il ballo in maschera", si immerse nella notte di
Pest. Verso l'alba invitò al proprio
tavolo una donna con cui aveva ballato a più riprese.
L'artista ospite - tramite l'interprete
- la corteggiò per un po' poi mise la mano in tasca, estrasse il portafogli e,
coprendolo con la mano, guardò l'interprete rimanendo in attesa.
<< Cinquecento >> 1) riferì quindi al direttore d'orchestra.
<< Trecento >> 2)
ribatté l'ospite cui la cifra era sembrata alta.
<< Quattrocento >> 3)
propose alla fine l'interprete.
Qui l'accordo fu raggiunto.
Note.
1) , 2) , 3) In italiano nel
testo originale.
Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr