O.L.F.A
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ANNO
VI NN. 27/28 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2002 FERRARA
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GALLERIA
LETTERARIA UNGHERESE
Lirica Ungherese
Ferenc Kölcsey (1790-1838) - Ferenc Erkel (1810-1893):
HIMNUSZ/INNO
Kölcsey Ferenc (1790-1838) |
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HIMNUSZ Isten, áldd meg a magyart Jó kedvvel, bőséggel, Nyújts feléje védő kart, Ha küzd ellenséggel; Bal sors akit régen tép, Hozz rá víg esztendőt, Megbűnhödte már e nép A múltat s jövendőt! Őseinket felhozád Kárpát szent bércére, Általad nyert szép hazát Bendegúznak vére. S merre zúgnak habjai Tiszának, Dunának, Árpád hős magzatjai Felvirágozának. Értünk Kunság mezein Ért kalászt lengettél, Tokaj szőlővesszein Nektárt csepegtettél. Zászlónk gyakran plántálád Vad török sáncára, S nyögte Mátyás bús hadát Bécsnek büszke vára.
Hajh, de bűneink miatt Gyúlt harag kebledben, S elsújtád villámidat Dörgő fellegedben, Most rabló mongol nyilát Zúgattad felettünk, Majd töröktől rabigát Vállainkra vettünk. Hányszor zengett ajkain Ozman vad népének Vert hadunk csonthalmain Győzedelmi ének! Hányszor támadt tenfiad, Szép hazám, kebledre, S lettél magzatod miatt Magzatod hamvvedre!
Bújt az üldözött s felé Kard nyúl barlangjában, Szerte nézett, s nem lelé Honját a hazában. Bércre hág, és völgybe száll, Bú s kétség mellette, Vérözön lábainál, S lángtenger felette. Vár állott, most kőhalom; Kedv s öröm röpkedtek, Halálhörgés, siralom Zajlik már helyettek. S ah, szabadság nem virúl A holtnak véréből, Kínzó rabság könnye hull Árvánk hő szeméből! Szánd meg, Isten, a magyart, Kit vészek hányának, Nyújts feléje védő kart Tengerén kínjának. Bal sors akit régen tép, Hozz rá víg esztendőt, Megbűnhödte már e nép A múltat s jövendőt!
(1823) |
INNO
Di
Cumania sui terren Per peccati nostri pur, D'ira il cuore Tuo bruciň; E Tua folgore scoccň Dalle Tue tonanti nubi. Prěa il Mongolo invasor Coi suoi dardi ci saettň
Poi
dei vili Turchi il giogo Ai
suoi piedi solo sangue Dove
un dě v'era un manier, (1823) |
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Traduzione
© di Paolo Agostini (2001) Fonte
della versione italiana: http://www.geocities.com/spamarco/cultura.htm |
Petőfi Sándor (1823-1849) |
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EGY GONDOLAT BÁNT ENGEMET Egy gondolat bánt engemet: Ágyban, párnák közt halni meg! Lassan hervadni el, mint a virág, Amelyen titkos féreg foga rág; Elfogyni lassan, mint a gyertyaszál, Mely elhagyott, üres szobában áll. Ne ily halált adj, istenem, Ne ily halált adj énnekem! Legyek fa, melyen villám fut keresztül, Vagy melyet szélvész csavar ki tövestül; Legyek kőszirt, mit a hegyről a völgybe Eget-földet rázó mennydörgés dönt le... - Ha majd minden rabszolga-nép Jármát megunva síkra lép Pirosló arccal és piros zászlókkal És a zászlókon eme szent jelszóval: "Világszabadság!" S ezt elharsogják, Elharsogják kelettől nyúgatig, S a zsarnokság velök megütközik: Ott essem el én, A harc mezején, Ott folyjon az ifjui vér ki szivembül, S ha ajkam örömteli végszava zendül, Hadd nyelje el azt az acéli zörej, A trombita hangja, az ágyudörej, S holttestemen át Fújó paripák Száguldjanak a kivivott diadalra, S ott hagyjanak engemet összetiporva. - Ott szedjék össze elszórt csontomat, Ha jön majd a nagy temetési nap, Hol ünnepélyes, lassu gyász-zenével És fátyolos zászlók kiséretével A hősöket egy közös sírnak adják, Kik érted haltak, szent világszabadság! (1846) |
MI TORMENTA UN
PENSIERO
Mi tormenta un pensiero, morire in letto da solo, consumarmi come un fiore, che mangia un oscuro verme, consumarmi lento come una candela lasciata sola in una stanza vuota. Oh Dio! Non darmi una morte cosě! Voglio essere un albero che da bufera viene strappato, voglio essere una roccia, che da monte a valle viene spinta giů da un tuono rimbombante. Quando tutti i popoli in catena si alzano in piedi, pieni di rabbia, avanzano con faccia rossa d'ira, e sulle bandiere queste parole sacre: Libertŕ del mondo! Lo risuonano dall'oriente all'occidente, e combattono contro l'oppressore. Lŕ voglio morire io, nel campo di battaglia, lŕ che sgorghi il sangue dal mio giovane cuore, e quando le ultime parole gioiose mi lasciano le labbra, che siano coperte dal metallico rumore, dal suono della tromba e del cannone, e passando sul mio cadavere che corrino cavalli calpestandomi, verso la vittoria finale. Lŕ che si raccolgano le mie ossa perse, e quando arriva il giorno del funerale, in cui con bandiere e con musica ferale, vengono sepolti in tomba comune tutti gli eroi che sono morti per te, santa libertŕ del mondo!
(1846) |
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Traduzione Ó
di Ágnes Preszler |
Nagy László (1925-1978) |
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KÉK HEGYEK HIDEGE Kék hegyek hidege ez
az alkony, Hullt világokkal
felcicomázva, |
FREDDO D'AZZURRE GIOGAIE Il vespro č freddo d'azzurre giogaie, Gole, vallate da ombre colmate, Ode il mio animo come con ghiaie Zampe questionino e ruote ferrate. L’imposta sibila al mondo spiegata, Il pioppo snello stormisce nel cielo, Cosmica sposa di verde abbigliata Cui di condensa stria il vento il velo. Splende il creato, negli occhi intanto Stelle mi nuotano, taglie, incanto. Di mondi caduti a cingermi č un manto, A redimermi soltanto č il canto. |
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Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis |
Plivelic Iván |
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EGY VILÁGRÉSZ FIA
VAGYOK Egy Világrész fia
vagyok s ereimben négy faj vére
buzog, bárhová megyek,
mindig otthon vagyok a népem között ki engem ért és aki megért. Itt születtem, itt
fedik le szemem, mert ez az én
világom, az én hagyományom és a szenvedélyem. Nincsen másutt
helyem nekem, egy ábránd sem
terelt el engem, beivódott ereimbe
majdnem; lelki tápom és
lélegzetem ezen éltes, mégis
folyvást zsenge, kedvelt, Nagy
Világrész szellemisége. |
SONO FIGLIO DI UN CONTINENTE Sono figlio di un Continente, in me scorre il sangue di quattro razze, ovunque io vado sono a casa tra la mia gente che mi capisce, che mi comprende. Sono nato qui e qui morirň, perché č questa la mia terra, le mie usanze; il mio amore. Non vi č posto altrove per me, ho resistito alle lusinghe, intriso fin sotto la pelle aspiro e metabolizzo la cultura di questo vecchio, ma pur sempre giovane, amato Grande Continente. 22.1.2002 |
Traduzione Ó
di Melinda Tamás-Tarr |
Poesia - originariamente scritta in italiano - segnalata al
Concorso Letterario «Con gli occhi di ieri e di oggi» di Ferrara. |
Prosa Ungherese
Katalin
Kéri (Kate Carry 1966) - Pécs (H)
ALBERI
Il fortunale notturno aveva spezzato il piů
bel ramo del pesco. Con il ramo erano cadute a terra le numerose pesche
biondeggianti ed ormai non se ne ricavava piů nulla. Il vecchio guardň la
devastazione con disappunto. Avvertiva il dolore dell'albero in ogni parte del
suo stesso fisico. Amava le piante, ma gli alberi in particolare. Trascinň
sotto una sediolina al pesco e prese a consolarlo.
«Via, non temere, vivrai ancora malgrado
tutto… Ti piace qui nel giardino, vero?
Ti ho piantato quando era nato il Figlio. Vedi, siamo andati avanti
negli anni assieme, ma come eravamo forti una volta… Quanto amavo lavorare…»
L'albero lo sapeva bene. Il vecchio aveva
spesso mormorato sotto di esso, e gli aveva giŕ raccontato piů volte tutta la
sua vita.
Era avvenuto tanto, tanto tempo fa. Il
vecchio era stato un bel giovanotto. Si alzava in estate all'una di notte e
mieteva il grano sino alle dieci di sera. Non piaceva a nessuno falciare
assieme a lui perché mai egli riposava, avrebbe indotto anche gli altri a lavorare
a morte. Le ragazze perň!
Di tutto facevano quelle per potergli
restare vicino. Mai e poi mai avrebbero trascorso la pausa meridiana in
compagnia d’un altro ragazzo, depositavano tutte il loro fagotto accanto alla
sua bisaccia. Aveva egli un viso
abbronzato ed occhi d’un perfetto azzurro chiaro e per giunta pure scherzava
con le ragazze. A mezzogiorno d’un ardente giorno d’estate decise di scoprire
quale ragazza gli si mostrasse piů incline. Dopo il pranzo mise la bisaccia in
spalla e, dall'ombra di freschi alberi, si diresse ad uno spoglio e rinsecchito
albero che stava solitario al margine del sentiero. Si sistemň sotto all'albero
ove il sole dardeggiava intollerabilmente. Allora, ci sarebbe stata ragazza che
l'avrebbe seguito?
Ogni ragazza lo aveva raggiunto. Chi alla
spicciolata, chi in coppia, s'erano tutte andate a sedere lŕ sotto il sole
battente e per compiacere il giovane s'erano tutte arrostite sino a diventare
come un rosso gambero. Quell'albero inaridito né prima né dopo vide mai cosě
tante pazze!
Era stato tanto, tanto tempo fa. Era come
se ciň non fosse neppure avvenuto durante la vita del vecchio. La sua vita era
stata un'altra legata a quella della fragile donna dai caldi occhi castani.
Anche quella donna si era scottata da ragazza accanto a quell'albero inaridito,
eppure non era stato facile prenderla in moglie. Quante cose avevano vissuto
insieme! Quanto avevano atteso entrambi, quanto difficile tutta la loro
giovinezza era stata! Sarebbe stato meglio, molto meno angoscioso se al
villaggio non avessero iniziato a costituire le cooperative. L'uomo vi aveva
aderito per ultimo e nonostante gli avessero promesso cielo e terra per
settimane non erano riusciti a vincere
la sua ritrosia. No e no. Non aveva acconsentito per nessun tesoro al mondo:
aveva urlato, minacciato, picchiato sul tavolo, ma non aveva firmato. A
convincerlo era stata la domanda: «Compagno, in quale scuola vorrŕ sua figlia
proseguire gli studi?» Qui l'uomo aveva dato la sua adesione. Sua figlia poi
non era stata ovviamente ammessa da nessuna parte, troppo graziosa era per
questo la loro casa, tanta era l'invidia nei loro confronti. Dal grazioso
cortile avevano perň portato via tutto. L'uomo era stato felice che i suoi
alberi da frutta affondassero le radici nel suolo cosě da non poter essere
divelti e trascinati di peso alla cooperativa. Aveva ovviamente bell'e perso i
loro frutti, ma i loro tronchi gli erano almeno rimasti. Eretti, come il suo.
Nella cooperativa l'uomo non era divenuto
un dirigente. Vista la sua testardaggine nemmeno avrebbe potuto, non tollerava
ingerenze nella cura dei campi. Di chi s'intrometteva se ne trovava a bizzeffe.
Era diventato guardia campestre. Non č nato sulla terra altro uomo oltre a lui
che in tal pregio avesse tenuto questo lavoro. Presi singolarmente conosceva
tutto d'ogni tocco di patata, d'ogni pezzo di terra, d'ogni ramoscello
d'albero, di loro parlava come di suoi amici intimi. Gli avevano affidato anche
la ripartizione dei campi poiché lui non misurava "parzialmente". Vera
ragione della sua vita tuttavia era stato dirigere egli la piantagione degli
alberi.
Quando era stato pure tutto questo! Quei
boschi erano ormai divenuti giganteschi boschi di acacie e di abeti. Ormai il
vecchio non riusciva piů a girare per questi boschi, vagabondava sotto i loro
alberi solo col pensiero. Conosceva gli alberi ad uno ad uno: Il Marginale, il
Maggiore, il Nodoso, l'Incavato, il Sofferente… Ogni sua fatica era tuttavia
stata vana, fu mandato in pensione. Aveva creduto allora di non sopravvivere.
Ed ecco invece quanti anni sono ancora passati da allora …
Aveva tentato dapprima scherzando, poi
risentito, aveva infine provato invano a minacciarli ma non lo avevano proprio
fatto restare.
«Lei č giŕ anziano, bisogna far largo ai
giovani, verrŕ al suo posto un agronomo laureato.»
«Un laureato? Ma se egli nemmeno conosce
gli alberi! Questo o quell'albero per lui sarŕ indifferente. Conoscerŕ le loro
varie parti? Saprŕ mai cos'č la
macchia? Donde saprŕ quale
albero occorre abbattere e quale lasciare?…»
Aveva il vecchio rimuginato inutilmente tra
sé, ma il suo caso era stato chiuso e l'avevano mandato in pensione. Finché
aveva avuto forza si era aggirato per i boschi ogni giorno, dapprima in
bicicletta, piů tardi a piedi, ma ora alla sua etŕ solo questo pesco gli era
rimasto ad una distanza possibile. Quest'albero aveva preso il posto dei tanti
altri e pure per moglie non gli era
rimasto che questo. Questo almeno comprende il passato, sa cos'era accaduto al
vecchio tempo addietro dato che era sempre stato qui. Ed ecco che ora era
malato anche questo, gli si era spezzato il ramo. Il vecchio pensň che sarebbe
almeno servito come combustibile per l'inverno, con quello si sarebbe
riscaldata la cucina una volta.
Aveva gran paura dell'inverno. L'anno
prima, non essendo piů in grado di raccogliere legna da ardere, aveva chiesto
un tronco d'albero alla cooperativa. Si era rivolto direttamente al presidente,
ma gli avevano risposto che l'albero abbattuto serviva ad altro.
«Č cosě
– andava spiegando il vecchio al pesco –, lo capisco io a che mi
servirebbe quell'albero visto che ormai non mi restano piů tanti inverni…»
Prese la sua sediolina, la riportň
sulla veranda e tornň quindi indietro a girare per il giardino. Al pesco
francamente dispiacque di non riuscire ad aprire bocca e per la prossima
tempesta si ripromise fermamente di provare a resistere al vento…
Traduzione
©
di Melinda Tamás-Tarr e
Mario De Bartolomeis