O.L.F.A
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ANNO
VI NN. 27/28 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2002 FERRARA
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MARCO DENEVI, PRODIGIOSO
INVENTORE DI MONDI FITTIZI
Sul finire del 1954 o agli inizi del 1955
le autorità dell’antica, venerabile ed ora ahimè estinta casa editrice
Guillermo Kraft di Buenos Aires convocarono nei propri uffici di calle Reconquista 319 cinque illustri
scrittori argentini: Fryda Schultz de Mantovani, Rafael Alberto Arrieta,
Roberto F. Giusti, Álvaro Melián Lafinur e Manuel Mujica Láinez.
Quella signora e questi quattro
gentiluomini avrebbero avuto il compito di integrare la giuria che avrebbe
assegnato, a chi ne avesse avuto maggior merito, il «Premio Kraft 1955 per il
Romanzo Argentino».
Portato a termine il compito di esaminare i
meriti di centoundici opere la giuria convenne unanimemente, e senza esitazione
alcuna, di assegnare il premio del concorso al romanzo dal titolo Rosaura a las diez (Rosaura alle dieci).
Questo denotava tale maturità espressiva, tale ricchezza e varietà di
linguaggio, tale precisione e sapienza nella sua trama che i membri la
immaginarono opera di qualche già consacrato collega.
Aperta tuttavia la busta che avrebbe
rivelato l’identità dell’esperto narratore, risultò che il nome dell’autore di Rosaura a las diez era assolutamente
sconosciuto, non lo aveva mai sentito menzionare nessuno e neppure era mai apparso in calce ad un raccontino
pubblicato in una rivista letteraria di dilettanti.
Si trattava d’un tal Marco Denevi. Le
persone di Kraft, quando questi si presentò, non si trovarono di fronte ad un
barbuto e stravagante profeta con pipa, zazzera ed occhiali travestito da
«intellettuale», ma ad un uomo corretto, timido e taciturno di appena
trentatré anni d’età che vestiva come
un grigio impiegato e lavorava in qualità di avvocato nell’ufficio legale di un
ente bancario.
Poco dopo aver ricevuto il Premio Kraft,
Denevi avrebbe spiegato:
Rosaura a la diez
è il mio primo libro; il suo primo paragrafo, il mio primo paragrafo; la parola
con cui inizia, il mio debutto come (come dirlo?), come «ejercitador de las
letras»1) (l'espressione è dell'apocrifo Mairena)2).
L'opera nacque, come lo desiderava Martí3), da un atto d'amore.
Scriverla fu un lavoro fatto con fretta entusiastica, gioiosa, dolorosa, senza
tregua. E pura, perché scopriva allora in sé stessa ogni sua ragion d'essere,
senza preoccuparsi del suo destino futuro. Appena terminata, la sua gioia ed il
suo dolore si fecero irrecuperabili e di ambedue non sopravvisse che una
transvalutazione di ordine spirituale. Che tale è, giustamente, quanto avviene
ad ogni autentico atto d'amore.
Com’è noto, Rosaura a las diez è un romanzo strutturato in cinque parti. In
ognuna di esse narratori distinti adducono informazioni diverse sugli
stranissimi avvenimenti che hanno per protagonista l’indimenticabile Camilo
Canegato, uno dei personaggi — credo io — fisicamente e psicologicamente meglio
riusciti della letteratura mondiale.
La prima parte (dichiarazione della signora
Milagros) e la seconda (dichiarazione di David Réguel) sono di bocca dei
rispettivi relatori che, in qualità di testimoni, riferiscono secondo i loro
assai dissimili punti di vista gli avvenimenti occorsi alla pensione «La
Madrileña», specie negli ultimi sei mesi da «aquella mañana en que el cartero trajo un sobre rosa con un detestable
perfume a violetas» (quella mattina in cui il postino recapitò una busta
rosa con un detestabile profumo di violette) indirizzata a Camilo Canegato.
La parte terza, intitolata «Conversación con el asesino»
(Conversazione con l'assassino), adotta la forma di un dialogo teatrale puro,
senza la minima postilla, tra Camilo Canegato e l'ispettore Julián Baigorri.
Nella quarta parte la ridicola signorina
zitellona Eufrasia Morales si reca spontaneamente alla polizia per offrire la
propria versione degli avvenimenti e questi sono prodotti sotto forma di
discorso libero indiretto.
Chiude il libro la trascrizione testuale di
una lettera incompiuta, lettera che s'interrompe nel punto esatto in cui le sue
ultime parole chiudono il romanzo magicamente, come un perfetto meccanismo
d'orologeria.
Il lettore, dopo aver preso in esame i
cinque «documenti» che l'autore ha fornito astenendosi dal minimo commento, ora
e solo ora (nelle ultime righe), entra in possesso di tutte le informazioni necessarie a sapere cos'era accaduto realmente.
Orbene, siccome ho dedicato considerevole
parte della mia esistenza a leggere letteratura e siccome ho pubblicato io
stesso molti racconti e saggi, posso sostenere di non considerarmi un lettore
ingenuo: resa questa dichiarazione, confesso il mio entusiasmo illimitato per i
meriti di Rosaura a las diez.
Certe opere, che alla prima lettura avevano
suscitato il mio interesse, non hanno superato la prova della seconda; quante
volte, per contro, ho potuto rileggere con immenso piacere le peripezie di Rosaura? Tantissime, e sempre m'imbatto
in nuove sfumature, nuove sottigliezze, dettagli in precedenza sfuggiti.
La cosa certa è che Rosaura mi ha accompagnato per gran parte della mia vita. La sua
prima lettura da parte mia risale al 1959, quando frequentavo il quarto anno
della scuola superiore; le ultime sono di questi ultimi mesi, allorché la
lettura la proseguo dividendola con i miei alunni della scuola superiore.
È vero che la struttura narrativa di Rosaura è ingegnosa e brillante. Però
questo fatto —meramente tecnico— riveste un'importanza secondaria. IL
MERAVIGLIOSO DEL ROMANZO SI FONDA SUL FATTO CHE TUTTO CIÒ CHE IN ESSO E'
NARRATO RISULTA, PER TUTTO IL TEMPO E NEL CORSO DI TUTTO IL LIBRO, SEMPLICEMENTE AFFASCINANTE.
Come nella vita stessa, i livelli del
linguaggio si alternano ed ogni personaggio parla esattamente come deve
parlare, un dettaglio da patos ci attanaglia e gli enigmi ci avvincono, il
migliore umorismo ci fa per contro ridere di buon grado, le sorprese ed il
continuo alternarsi di punti di vista
ci rammentano che la realtà può avere (e, di fatto, ha) infinite facce e che
nessuna cosa è, di regola, sempre quella che sembra essere.
I fratelli di Rosaura
L'opera di Denevi non termina però con Rosaura a las diez.
Nelle sue narrazioni notiamo una
predilezione per i personaggi anacronistici, gli ambiti chiusi, gli ambienti
che intimoriscono, il mistero che suole serpeggiare tra le apparenze
quotidiane.
E c'è un tema che si manifesta in una forma
e poi, sotto un aspetto un po' diverso, ripetutamente ritorna. Ed è il tema del
cambio di personalità. Il motivo è centrale in Rosaura a las diez.
Qualche anno più tardi Denevi torna a
vincere un concorso letterario importantissimo, quello della rivista Life aperto a tutti gli scrittori
ispano-americani. Il suo romanzo
relativamente breve ha per titolo Ceremonia
secreta (Cerimonia segreta) ed è pubblicato nel 1961. E' una storia intrisa
di misteri, con qualche gotica reminiscenza de La caduta della casa Usher di Poe con derivazioni poliziesche; il
tutto nell'abituale clima di verosimiglianza psicologica e con l'esatta
conclusione di un teorema. Nemmeno qui le cose sono quelle che sembra no essere
e persino i piani della vita e della morte si confondono: una donna, per tutti
morta, continua ad essere senz'ombra di dubbio viva per la mente di sua figlia.
Nel 1966 vede la luce un altro breve
romanzo, Un pequeño café (Un piccolo caffè). Il suo insignificante
eroe è una specie di alter ego del
Camilo Canegato di Rosaura. Si
chiama, un po' ridicolmente, Adalberto Pascumo ed è altrettanto timido di
quello e, così come Camilo, la sua timidezza lo induce a mentire ed a crearsi
un proprio mondo fittizio. Una volta ancora Adalberto non è, per gli altri,
colui che realmente è.
In Los
asesinos de los días de fiesta (Assassini dei giorni di festa, 1972)
assistiamo ad una molteplice mistificazione: sei stravaganti fratelli dagli
strani nomi si spacciano per parenti unici di un ricco defunto. La maggior
parte del romanzo si dipana in un clima di meraviglioso umorismo che, quasi
impercettibilmente, si addentra in aree di mistero per sfociare infine in
imprevista tragedia.
Denevi è anche un maestro del racconto
breve e delle ricostruzioni letterarie. Il suo libro Falsificaciones (Falsificazioni, 1966) costituisce una festa
dell'immaginazione, dell'ingegno e del buon gusto: egli getta in questi brevi
testi una luce insolita ed insospettata su fatti storici o letterari che
parevano definitivamente fissati.
Ho da poco riletto il volume Hierba del cielo (Erba del cielo, 1973).
Non sono certamente più la persona che ero durante la prima lettura realizzata
tanti anni or sono. Tutto il libro è eccellente, vi sono però tre racconti che
mi hanno lasciato quasi tremulo d'emozione estetica, tre racconti praticamente
perfetti: «Charlie», «Michel» ed «Hierba del cielo». Non posso non dire:
«Magari li avessi scritti io…!».
Scopo di questa nota non è passare in
rassegna l'intera opera di Denevi. La sua bibliografia è varia ed abbondante.
La mia gratitudine finale
Si dà il caso che io non posso parlare con
la presunta «professionalità» del critico che «lavora» da critico, da persona
che odiando magari la letteratura ha l'ingrato obbligo di scrivere qualche
saggio su un argomento qualsiasi al fine di adempiere ad un certo compito
universitario o giornalistico, o forse per ingraziarsi questo o quel settore
politico od economico.
No: questo non è il caso mio. Io sono un
lettore che si lascia esclusivamente avvincere dal piacere della lettura. In
tal senso gradisco mi si narrino storie interessanti, storie in cui vi siano
misteri od enigmi, e che quei misteri siano per me credibili ed io abbia il
desiderio di decifrarli.
E quando quei misteri sono narrati secondo
le più rigorose risorse della verosimiglianza, con la massima ricchezza di
dettagli, con i personaggi che usano un linguaggio adeguato al loro grado
sociale; quando attraggono il nostro interesse tante idee intelligenti; quando
fanno qua e là capolino le magnifiche arguzie del suo autore; quando la prosa,
costellata di marachelle d'ogni indole scorre fluida a limpida per quelle
storie avvincenti…, ebbene, cosa di meglio può pretendere un lettore come me,
un lettore che ama la letteratura?
Posso solo provare ammirazione e
gratitudine. E questi sono i miei sentimenti verso Marco Denevi.*
* Marco Denevi, ultimo di sette fratelli,
nacque il 12 maggio 1922 a Sáenz Peña, località della provincia di Buenos Aires
contigua all'omonima città. Suoi genitori furono Valerio Denevi, italiano, e
María Eugenia Buschiazzo, argentina.
Egli fu uomo d'assoluta integrità, uomo probo
ed onestissimo, d'incorruttibile rettitudine, che sempre disse quanto
dettatogli dalla propria coscienza.
Scrisse in una sintassi eccellente, ebbe
vasta e profonda cultura, sapeva il latino, non fece della demagogia, non si
finse un vate tormentato, fu privo d'avidità e d'ansia di notorietà. Le
spietate e lucrative sette autodenominatesi «progressiste» che sogliono
scrivere in una prosa scolastica, che monopolizzano la letteratura e che in
Argentina condizionano i mezzi di comunicazione, tentano di ignorarlo.
Egli tuttavia costituisce, con Borges e
Cortázar, il triumvirato dei migliori narratori argentini del XX secolo.
Morì
a Buenos Aires il 12 dicembre 1998.
Il
volume miscellaneo Salón de lectura
(Sala di lettura, 1974) include, a mo' di profezia su sé stesso, un poema in
splendidi endecasillabi, «Última voluntad» (Ultima volontà), in cui
confluiscono ironia, umorismo e tristezza. I suoi quattro versi conclusivi sono
assolutamente degni di essere ricordati:
Lego mis huesos a los
castos lirios
y mi memoria a los
desmemoriados.
En cuanto a mi
salvación, es suficiente
la sacra ceremonia del
silencio.4)
Buenos Aires, giugno 2002
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1) Letteralmente:
esercitatore delle lettere.
2) Juan
de Mairena è il nome dell'apocrifo professore dell'omonimo libro (1936) del
poeta spagnolo Antonio Machado (1875-1939), cui questi attribuisce le proprie
riflessioni su diverse questioni artistiche.
3) José
Martí (1853-1895), poeta e politico, è la figura più rilevante e simbolica
della storia di Cuba.
4) Traduzione:
Io lascio le mie ossa ai casti gigli / e
la memoria mia agli smemorati./ Quanto alla mia salvezza è sufficiente/ la
sacra cerimonia del silenzio.