L'Angolo della Poesia

- Lettera alla propria madre -

 

(Breve racconto esplicativo, nelle intenzioni, del

sentirsi profondamente figlio della propria terra)

 

*

MADRE MIA

 

Quando sarà deciso

Madre

nel silenzio delle tue braccia

ritornerò per sempre

figlio.

 

*

 

Tra le montagne della mia Marsica c’è il piccolo cimitero di un paese come tanti. La cosa particolare, però, è che in questo cimitero riposano le mie radici e tante sono le persone che mi hanno visto bambino ed ora ritrovo qui sorridenti in fotografie alle volte improbabili. Pare quasi che, vedendomi passare, mostrino una specie di sorriso oppure facciano addirittura un muto cenno col capo in forma di saluto. Certo, solo un cenno muto. Del resto da queste parti anche i vivi non hanno mai fatto grande uso di parole. Le parole, dicono, le parole inutili sono un faticoso lusso che non possiamo permetterci.

Uno strano destino unisce le generazioni che si sono avvicendate a vivere nella mia terra. Da sempre i suoi figli devono lasciarla: per la guerra, per l’America, per Milano, per Roma.

Non importa perché, non importa dove ma si deve andare. Così, stritolati da un sentimento forte di amore profondo contrastato da una paritetica esigenza di fuggirla, viene abbandonata per necessità di vivere e si scopre che poi, privati del suo profumo, senza le sue povere ma vitali carezze e con il dilaniante miraggio del ritorno, lontani da lei è come una lenta morte interiore.

In questo cimitero, dicevo, incastonata nel muro esterno della chiesetta, ho rivisto una piccola lapide di marmo grigiastro con, in un ovale, la foto in bianco e nero di un serio ragazzo in divisa, la faccia tonda, gli occhi dolci che mitigano un serioso sguardo profondo e intimorito. La foto a mezzo busto, chiaramente, non mostra le mani che, indicatrici della sua provenienza, apparirebbero sicuramente forti, callose ma non per questo prive di una certa innata eleganza. Oltre alla foto, sulla piccola lapide c’è questa iscrizione:

 

 

ALLA CARA MEMORIA DI

MICHELE T.

MARSICA, 11 GIUGNO 1923

GERMANIA, 22 MARZO 1945

LONTANO DALLA PATRIA RIPOSANO LE SUE SPOGLIE.

IL PADRE ADDOLORATO E LA MADRE AFFRANTA

INVANO NE ATTESERO IL RITORNO.

RIPOSA FIGLIO DILETTO,

RIPOSA IN PACE.

 

 

 

Aveva ventidue anni Michele quando, a guerra ormai finita, stava forse tentando di ritornare a casa da sua madre e invece in un posto ignoto e mani ignote fermarono per sempre il suo viaggio. Anche lei, che tante volte mi raccontò di questo figlio, ora riposa in questo cimitero ed ha al collo ancora adesso e come sempre fece da allora, la piccola fotografia racchiusa in un ovale di quel suo unico figlio che non ebbe più modo di riabbracciare.

Ho immaginato che Michele non avendo potuto farlo da vivo, non so come né grazie a chi, possa aver avuto la possibilità di scrivere un’ultima lettera a sua madre dopo aver lasciato questa vita. Una lettera, quindi, come una sorta di ultimo bacio, un ultimo abbraccio attraverso il quale spiegare quello che in vita non aveva capito e che la vita stessa non gli aveva dato modo di comprendere. Forse avrebbe usato proprio queste parole:

 

Cara mamma,

perdonami se non sono riuscito a mantenere la promessa di ritornare a casa. Promessa che ti ho fatto quando, quella mattina, ti ho salutato per andare alla stazione dove già mi attendeva il mio amico Pietro con tanti altri che non conoscevo e che, più o meno, avevano la mia stessa età. Il mio rammarico per non essere riuscito a ritornare a casa è grande per l’immenso amore che ho per te ed ancora più grande perché immagino quanto avrei potuto aiutarti adesso che ti prepari a raccogliere quello che con sudore avevamo seminato. Perdonami mamma, ma tu sai che non ho mai avuto paura della fatica e che mai mi sono tirato indietro. Stanno arrivando tempi duri, mamma, ancora di più di quelli appena trascorsi; abbi cura di mantenerti in vita e lontana da qualsiasi pericolo. Vorrei ritornare un’ultima volta ad accarezzare le mie spighe che tra poco saranno alte. Pazienza, lo farai tu per me. Ti prego di abbracciare, uno ad uno, tutti i miei amici e, soprattutto, di andare a salutare per me la mia Maria con la quale ci eravamo promessi, anche se tu ancora non sapevi nulla. Dille, ti supplico, che se fossi ritornato avrei iniziato subito a risistemare quella nostra casetta che si trova dietro al campanile e l’avrei sposata come avevo promesso. Spiegale che quell’unico suo innocente bacio è stato la cosa più bella donatami dalla mia breve vita e che io non la dimenticherò mai.

Sai mamma, dove mi trovo adesso è un posto bellissimo e sono in compagnia di tanti altri ragazzi che sono come me e non c’è più nessuna divisa che ci distingue. La cosa meravigliosa è che adesso qui tutti si capiscono perfettamente, non c’è più bisogno di alzare la voce e, tanto meno, di sparare. Non mi spiego, allora, che bisogno ci fosse di partire per andare a fare ancora un’altra guerra. La guerra, qualsiasi guerra, è la cosa più stupida che c’è. La guerra è soltanto morte ed io, invece, avrei voluto solo ritornare a casa e vivere in pace.

Adesso, mamma, devo però lasciarti che finito è il tempo concessomi. Ti abbraccio forte.

Figlio tuo per sempre,

Michele.

 

 

P.S.

Voglio precisare che quanto sopra scritto è frutto di pura fantasia ma nasce da un sentimento autentico e intimamente radicato.

 

aprile 2006

Vincenzo Buccella