Sul lago

 Di Claudio Risé

Da Letteratura e Tradizione

(periodico letterario www.pesaro.com/heliopolis  heliopolisedizioni@libero.it )

 

 

   

Incontrarsi sul lago, parlarsi, guardarsi, vicino alla riva, istituisce una meditazione sul confine, sul limite. Il limite della terra, che confina col lago. E quello dell'acqua, chiusa di mezzo alle terre. Lì intravedi anche lo stabilito  confine: é già visibile l'altra  riva. Un grembo, il lago tutt’altro che grandioso, illimitato, come invece il mare. Questo va da qui a là, e molteplici attraversamenti sono possibili: a volte persino a nuoto, sempre in barca. Il lago nostro é, sempre, anche un largo fiume, sulle rive del quale Caronte prepara incessantemente il suo carico. Tutto ciò inquieta, ma alla fine rassicura, dà sicurezza, senso della realtà, coi suoi non evitabili approdi dell'inizio e della fine. Un realismo obbligato a fare i conti, a sua volta, con la piccineria, la chiusura, la mancanza di orizzonte che ti circonda. Tutto questo limite, confine, ogni elemento chiuso da un altro, fa sì che le storie di lago, le esperienze che vi si svolgono, anneghino, alla fine, nella materia, che inesorabile prevale. Nel lago si apre un abisso che sprofonda, fatale, nella meschinità, nel fango dei fondali, dove guizzano lucci dai denti aguzzi, e carni che sentono il limo. Protervi, orgogliosi della loro crudele voracità. Sempre impuniti. Per decidere tuttavia dell'incontro sul lago, i due elementi, l'acqua e la terra, devono aprirsi al terzo: l'aria, che é quello poi che definisce il clima affettivo,  e anche morale, di quel lago, e di quell'incontro. Bisogna allora guardare  quanto sul lago, al di sopra dei due che parlano, ci possano correre i venti, quanto l'acqua sia capace di riflettere il cielo, nella sua ampiezza, e non solo nella sua verticalità. O, invece, quanto lo inghiotta, avida. Il  lago aperto, il lago ventoso, il lago che si apre al cielo, é luogo dove corre lo spirito, anche un po' stravagante, alla Rosmini (sempre in odor d'eresia, o follia), il cui pensiero deve molto all'ampiezza del Verbano. Non a caso, lì di fronte, si compirono poi le bizzarrie junghiane e steineriane di Casa Eranos e di Monte Verità: cieli aperti, venti trasparenti, vergini nude, carnali  celestialità. Per non parlare, sul Garda invece, del Vate, al Vittoriale. E tuttavia, luce, aria e venti sono sempre al confine ( siamo  sul lago, mondo di soglia), con la terra verde e marrone, gli alberi profumati, le foglie unte degli alberi portati dall'oriente: le canfore, le magnolie, gli eucalipti. Ci si può anche immergere nella luce, ma questa si spegne poi, comunque, nel verde scuro. Le spinte al volo, al veleggiare (anche le isole veleggiano, sono grandi barche nell'azzurro del lago, e il primo  Borromeo la vide così, la sua Isola Bella), approdano, o si schiantano, nel buio dei grandi giardini. L'aria tersa, celeste, scende e si appesantisce  in quella - carica di profumi, di essenze che danno alla testa - del parco quasi carnivoro nella sua lussuria. Il lago aperto, il lago di cielo, é sempre il punto inferiore di una spirale celeste, che ti porta nelle altezze, per poi comunque lasciarti precipitare in qualche delizia, o terrore, dietro le magnolie. Ed il lago chiuso tra le alte montagne (il lecchese ad esempio), coi suoi orridi così attraenti, é l'ingresso di cobalto della spirale inferiore, che ti tira giù, verso l'inferno. Nel volto di vento del lago  si contempla il divino, in quello d'acqua scura si apre l'ebbrezza dell'abisso. Il lago é anche un centro, l' ombelico del corpo attorno ad esso, che nasconde l'apertura profumata che consente di accedervi. E' la via, umida, che permette di entrare, dal Verbano, nella risata lombarda; ancora dal Verbano nella durezza di pietra della provincia granda novarese; dal comasco nell'eccesso controriformista della Brianza; dal lecchese nell' eccentrica fantasia  delle montagne bergamasche e dell'Engadina; dal Garda nella sensualità del Veneto, nelle sue vigne, nelle sue donne accoglienti, dalla fronte non troppo alta, e dalla pelle bianca. Ma é sempre dal Garda che si penetra nella Venezia dei navigli veloci e guerreschi, i cui cadaveri ne guardano le acque. Sempre, comunque, il lago ti lascia entrare, o meglio ti porta dentro, una terra, una cultura, un corpo che respira da tempo, a volte seminascosto dietro quinte banali. E ti lascia lo spazio  per ascoltarlo, quel corpo, per unirti al suo flusso vitale, ma percepirne anche i rantoli, le cavernosità, che impaurirono già secoli addietro. Colui che a Milano era solo un Visconti puttaniere, é sul lecchese che diventa l'Innominato, osa l'inosabile, conquistato dall'orrido, e poi ha paura, e infine Vede... Il lago, corrodendoti le ossa con l'acqua che gocciola dai muri, dalle rocce nascoste dietro le piante, ti porta finalmente alla  paura.

Quindi al coraggio, autentico. Alla visione. 

Dal lago, passi la soglia.

 

 

 

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