In cammino

Dalla rubrica  info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 11/09/04. E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano; oppure collegandosi al sito www.claudio-rise.it  

 

"L’anno scorso ho fatto per la prima volta un tratto del Cammino, il pellegrinaggio per Santiago di Compostella. Dieci giorni, una gran fatica, locande approssimative, fame costante. Quest’anno ci sono tornato. Da solo, per venti giorni. L’anno prossimo vorrei farmelo tutto. I miei genitori (ho 24 anni) non capiscono. La mia fidanzata è seccata, perché questo significa vacanze separate. Lo psicologo teme, dice, l’inizio di una “fobia sociale”. Non sono particolarmente religioso, non ho avuto visioni, o chissà cosa. Solo una gran pace, mischiata alla fatica fisica. Cosa mi accade?"

 Giovanni, Roma

Caro amico, lei partecipa di un modo di sentire sempre più diffuso, che si esprime, anche, nel seguire i grandi pellegrinaggi. Da quello, importantissimo nel Medioevo, di Santiago di Compostella, a quello verso la Madonna di Czestokowa, al più recente, Medjugorie, a molti altri. In loro si manifesta a volte una fede, o una devozione religiosa. Ma non è il caso più frequente. Più spesso il “mettersi in cammino”, in pellegrinaggio, esprime oggi un atteggiamento di ricerca profonda, complessiva. Una ricerca, innanzitutto del mondo, della vita, che il soggetto sente che non gli vengono comunicati davvero dalla quantità di notizie che ogni giorno riceve, sia sul mondo, che sulla vita. L’individuo della tarda modernità, iperbersagliato di comunicazioni, avverte, ormai, che esse tendono a nascondergli la realtà, attraverso una molteplicità di narrazioni contraddittorie, che hanno altri scopi: l’incremento dei consumi, la conquista del potere di alcuni; e cose simili. E così, con la stessa ingenua sapienza del pellegrino medioevale, il cittadino postmoderno si mette in cammino alla scoperta del mondo: la realtà “autentica” che si intravede guardando bene un bosco, un sentiero. Oltre al mondo, e la vita, il pellegrino contemporaneo cerca anche l’altro da sé, l’altro essere umano. Anche se viene da metropoli superaffollate, anche se ha una vita sociale, e una fidanzata, come lei, egli é, infatti, spesso solo. Nel senso che è privo di incontri, di rapporti al di fuori dei ruoli prestabiliti: il collega di lavoro, il partner, i genitori. Nella sua lettera lei mi racconta l’intensità degli incontri, spesso quasi senza parole, avvenuti nel suo “cammino”, con persone sconosciute, con le quali ha condiviso un po’ di cibo, dell’acqua, magari un tuffo in un torrente, per poi riperderli. Ma questo “altro” casuale e profondo, senza tornaconto, è appunto l’altro da sé, il tu autentico. Quello nel quale la personalità religiosa riconosce il volto di Dio. E il laico vede la possibilità di uscire dalla sua solitudine, spesso interrotta da rapporti affettivi, carichi però di aspetti di interesse, e di possesso. Nella sua lettera lei mi parla anche del silenzio durante il cammino, e del senso di libertà: poter andare in fretta, o piano, guardare il paesaggio, pensare a quel che si vuole, o a niente. In tutto questo il pellegrino moderno è il doppio, rovesciato, della sua versione consumista: il turista, ingabbiato in percorsi organizzati, tempi stretti, e sollecitato a un’eccitazione perenne, attraverso gli organizzatori di “animazioni”. Il pellegrino, al contrario, accetta l’assenza di “animazione” dall’esterno e di avere solo quelle idee o impulsi che nasceranno, forse, dentro di lui, o che gli proporrà un compagno casuale, se c’é. Accetta, insomma, un’eventuale depressione. E in questo modo, accettandola, la evita. Mentre il turista, volendola evitare ad ogni costo, spesso vi precipita. A prezzi elevati.

Claudio Risé

   

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