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Cinque porte in memoria della Shoah

 

Mostra
Brausebad

le cinque porte della Shoah

di Maurizio Bonfanti

in Chiesina minore

30 settembre - 14 ottobre

 

Quello che ho sperimentato qui non può essere detto con parole.
Solo la nostra memoria sarà il nostro scudo perché non accada ancora.

Stanislaw Ryniak, prigioniero politico ad Auschwitz

 

L'estate per alcuni dei nostri giovani è stata segnata da un viaggio, un pellegrinaggio in alcuni dei luoghi più significativi della storia del secolo che si è appena concluso. In particolare, la visita al campo di sterminio di Auschwitz ha costituito una traccia indelebile nell'animo di ognuno, sfinito nello sforzo sfibrante di costringere gli occhi a fissare e la mente a non fuggir via. Al ritorno a casa, è nato nei giovani il desiderio di raccontare il pellegrinaggio. È però bastato meno di un attimo per rendersi conto di come la parola stentasse, faticasse oltre il lecito, nell'arduo compito di testimoniare il percorso intimo di quella giornata in terra di Polonia. L'aiuto più inatteso ci è giunto da Maurizio Bonfanti, un artista di Bergamo. Egli stesso due anni fa aveva visitato un campo di concentramento ed era rimasto inchiodato davanti ad una porta che recava la scritta “Brausebad”, doccia: in realtà, lì, uomini e donne e bambini entravano nudi a morire. Su quella porta sono rimasti appesi per sempre, parole, gesti, pianti, carne e sangue di migliaia di persone che lì hanno lasciato l'ultimo sguardo e l'ultimo fremito, consegnati al terrore di una terra ingrata. Tornato a casa, Maurizio ha cercato di raccontare, con i suoi graffiti e la sua pittura, su carte strappate che diventano muri scrostati e insieme racconti di storie, di pezzi di vita e di carne, qualcosa di ciò che ha provato, attraversando quella porta: una porta di orrore e di pietà. A questo cammino di compassione abbiamo dato ospitalità, come da anni usiamo fare, in occasione dell'inizio dell'anno pastorale. Nella nostra chiesina, nella chiesa dei nostri ragazzi e della nostra umile cura dei figli degli uomini che sono capaci di essere così crudeli, si è così allestita una stanza fatta di cinque porte; si è aperto un percorso che va dalla porta incisa nel sangue (il segno che doveva preservare, in Egitto, i primogeniti degli ebrei dalla strage e divenuto nel campo di concentramento il segno della loro distruzione), a quella traforata dalle parole e da struggenti racconti di vita (una porta su cui si sono fermati i nomi di milioni di persone cancellate nella loro storia e nella loro personalità), a quella colorata dai sogni dei ragazzi (i ragazzi sono i più ingenui e i più coraggiosi nell'immaginare la vita come un gioco e il mondo come una casa protetta), a quella che reca la bisaccia del povero uomo pellegrino (la bisaccia non raccoglie qui il frutto del cammino, ma la violenta separazione tra il cammino e il sacco da viaggio, tra la vita e il suo frutto), a quella dove si è fusa per sempre la carne disprezzata e gloriosa dell'ultimo degli uomini (come a dire che nessuna porta potrà mai strappare l'uomo da se stesso: si può uccidere il corpo, non l'anima dell'uomo). Questa stanza, nel piccolo sacrario allestito in chiesina, raccoglie simbolicamente tutto il secolo appena trascorso, con i crimini dei campi di sterminio nazisti, di Hiroshima, dei Gulag, della Cambogia, della Bosnia e del Kosovo, del Rwanda e dell'Algeria. Soprattutto essa è per noi l'icona della Shoah degli ebrei che sta al centro del secolo come paradigma di tutta la sofferenza umana e come simbolo del Male. Con la Shoah (il disastro, la distruzione) è successo tra noi qualcosa che è difficile comprendere. Difficile perfino da ascoltare. È successo l'impensabile, a tal punto che coloro che sono sopravvissuti hanno sperimentato il dramma di non poter raccontare: perché schiacciati dalla vergogna di essere uomini; e perché nessuno ascoltava e chi ascoltava non capiva, non poteva capire. Proprio perché ciò che è successo è impensabile, indicibile, inascoltabile, noi dobbiamo invece cercare di ascoltare. E cercare di pensare. Pensare a ciò che è successo, a quali meccanismi hanno costruito tra noi l'inferno e hanno convinto uomini e donne normali a metterlo in piedi. Pensare a cosa hanno potuto le masse, la razza, la propaganda, il conformismo, la burocrazia, l'eliminazione di un vero dibattito politico. Pensare a che cosa ha portato gli uomini a cadere nel male radicale, capace di inventare una macchina perfetta in grado di triturare l'uomo, di distruggerlo scientificamente e sistematicamente in quel laboratorio bestiale che è stato il campo di concentramento: fabbrica dove si producevano cadaveri viventi, uomini senza dignità e senza rispetto, trattati da criminali, posti in situazioni orribili senza ragioni e spiegazioni, stipati nei vagoni bestiame, ammassati in baracche lugubri, rasati e denudati, torturati e distrutti prima di morire. E tutto questo come cosa normale. È ciò che maggiormente ci ha spaventato nel lager di Auschwitz: tutti facevano ciò che dovevano fare. Eseguivano ordini. La sera tornavano a casa, senza sentire il bisogno di parlare di ciò che succedeva di giorno nel campo. È l'aspetto impensabile di come il male possa divenire cosa banale. L'abisso nascosto nell'uomo normale. In ogni uomo c'è la capacità di cadere nel male radicale. Si faceva senza pensare. Come cosa normale. Ed è cosa che può ancora succedere. Ed è appena successo al di là dell'Adriatico… Fare memoria dunque per i nostri giovani, che in una calda giornata di agosto si sono seduti in digiuno e silenzio tra il filo spinato di Birkenau, ha significato anzitutto non dimenticare che sul banco degli imputati c'è l'uomo normale: la nostra umanità. La memoria è una sfida alla nostra responsabilità: al nostro voler restare uomini. La prima responsabilità è quella di rimanere vigilanti, capaci di pensare. Per poter amare. Occorre molta energia per restare capaci di pensare e di amare questo mondo. Allenare lo sguardo a riconoscere che il mondo è quotidianamente visitato da gesti buoni, da sguardi benevoli, da incontri pieni di promesse. Educare lo sguardo a scorgere il bene presente dappertutto è la nostra responsabilità più urgente. L'artista ha dipinto queste grandi porte lo scorso anno, mentre i cristiani moltiplicavano i gesti religiosi alle porte sante in occasione dei pellegrinaggi giubilari. In fondo l'umanità in pellegrinaggio cerca continuamente di trovare la dolcezza originaria da cui è venuta (la porta della creazione) e la casa di fraternità da cui è attesa (la porta della Città Santa). Per noi cristiani, il Signore Gesù, primo tra i figli dell'uomo è passato dentro la porta del terrore e della morte, nella speranza di essere soccorso da una Pietà capace di salvarlo. La sua Pasqua è davvero attraversamento. Il passaggio. Come dunque non accettare l'invito ad attraversare anche noi queste porte, da poveri pellegrini. E in questo umile passare vorremmo non dimenticare mai ciò che, l’umanita si è caricata sulle spalle, per sempre. E toccare, su questa soglia terribile, assieme a tutte le vittime grandi e piccole della storia, la Divina Dolcezza che vi è passata dentro. Per sempre e per tutti i figli dell'uomo.
I giovani che hanno realizzato la mostra

 



PORTA N. 1

“E il sangue sarà per voi un segno sulle case nelle quali siete: -dice il Signore- vedrò il sangue e vi oltrapasserò e non ci sarà per voi un flagello del distruttore, quando colpirò il paese d’Egitto."
Esodo 12,13



PORTA N. 2

"Ci toglieranno anche il nome... e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza per farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa di noi, di noi quali eravamo, rimanga..."
Primo Levi, Se questo è un uomo



PORTA N. 3

“Hurbinek era un nulla, figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa e non sapeva parlare. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva... Hurbinek che forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero."
Primo Levi, La tregua



PORTA N. 4

“Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’ altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla."
Primo Levi, Se questo è un uomo


PORTA N. 5

“ No, no, non uccideranno le nostre anime, perché noi prigionieri siamo qualche cosa di diverso dai nostri persecutori, i quali non potranno uccidere in noi la dignità del cattolico e del polacco. Il Verbo si è fatto carne! Lì, in quello squallore senza limiti..."
Massimiliano Kolbe, francescano morto nel bunker della fame


È successo qualcosa

Cos'altro potrei fare?
Dire di no?
Dire che non accetto?
La terra forse
si ribella alle piaghe
apertele dal sisma
o l'albero alla scure?
Tanto vale piegare la testa,
guardare in basso almeno
per evitare che il piede
sbatta contro la pietra sull'erba.
Non chiederti il perché
del dolore, del male.
È successo qualcosa in principio,
di cui non vuol parlare Dio stesso.
Mandò suo figlio a rimediare.
E basta.
Nessuno saprà mai.

Renzo Barsacchi

 

Dialogare 159, ottobre-novembre 2001