Cinque porte in memoria della Shoah
Quello che ho
sperimentato qui non può essere detto con parole.
L'estate per alcuni dei nostri giovani è
stata segnata da un viaggio, un pellegrinaggio in alcuni dei luoghi più
significativi della storia del secolo che si è appena concluso. In particolare,
la visita al campo di sterminio di Auschwitz ha costituito una traccia
indelebile nell'animo di ognuno, sfinito nello sforzo sfibrante di costringere
gli occhi a fissare e la mente a non fuggir via. Al ritorno a casa, è
nato nei giovani il desiderio di raccontare il pellegrinaggio. È però
bastato meno di un attimo per rendersi conto di come la parola stentasse,
faticasse oltre il lecito, nell'arduo compito di testimoniare il percorso
intimo di quella giornata in terra di Polonia. L'aiuto più inatteso ci
è giunto da Maurizio Bonfanti, un artista di Bergamo. Egli stesso due
anni fa aveva visitato un campo di concentramento ed era rimasto inchiodato
davanti ad una porta che recava la scritta “Brausebad”, doccia: in realtà,
lì, uomini e donne e bambini entravano nudi a morire. Su quella porta
sono rimasti appesi per sempre, parole, gesti, pianti, carne e sangue
di migliaia di persone che lì hanno lasciato l'ultimo sguardo e l'ultimo
fremito, consegnati al terrore di una terra ingrata. Tornato a casa, Maurizio
ha cercato di raccontare, con i suoi graffiti e la sua pittura, su carte
strappate che diventano muri scrostati e insieme racconti di storie, di
pezzi di vita e di carne, qualcosa di ciò che ha provato, attraversando
quella porta: una porta di orrore e di pietà. A questo cammino di compassione
abbiamo dato ospitalità, come da anni usiamo fare, in occasione dell'inizio
dell'anno pastorale. Nella nostra chiesina, nella chiesa dei nostri ragazzi
e della nostra umile cura dei figli degli uomini che sono capaci di essere
così crudeli, si è così allestita una stanza fatta di cinque porte; si
è aperto un percorso che va dalla porta incisa nel sangue (il segno che
doveva preservare, in Egitto, i primogeniti degli ebrei dalla strage e
divenuto nel campo di concentramento il segno della loro distruzione),
a quella traforata dalle parole e da struggenti racconti di vita (una
porta su cui si sono fermati i nomi di milioni di persone cancellate nella
loro storia e nella loro personalità), a quella colorata dai sogni dei
ragazzi (i ragazzi sono i più ingenui e i più coraggiosi nell'immaginare
la vita come un gioco e il mondo come una casa protetta), a quella che
reca la bisaccia del povero uomo pellegrino (la bisaccia non raccoglie
qui il frutto del cammino, ma la violenta separazione tra il cammino e
il sacco da viaggio, tra la vita e il suo frutto), a quella dove si è
fusa per sempre la carne disprezzata e gloriosa dell'ultimo degli uomini
(come a dire che nessuna porta potrà mai strappare l'uomo da se stesso:
si può uccidere il corpo, non l'anima dell'uomo). Questa stanza, nel piccolo
sacrario allestito in chiesina, raccoglie simbolicamente tutto il secolo
appena trascorso, con i crimini dei campi di sterminio nazisti, di Hiroshima,
dei Gulag, della Cambogia, della Bosnia e del Kosovo, del Rwanda e dell'Algeria.
Soprattutto essa è per noi l'icona della Shoah degli ebrei che sta al
centro del secolo come paradigma di tutta la sofferenza umana e come simbolo
del Male. Con la Shoah (il disastro, la distruzione) è successo tra noi
qualcosa che è difficile comprendere. Difficile perfino da ascoltare.
È successo l'impensabile, a tal punto che coloro che sono sopravvissuti
hanno sperimentato il dramma di non poter raccontare: perché schiacciati
dalla vergogna di essere uomini; e perché nessuno ascoltava e chi ascoltava
non capiva, non poteva capire. Proprio perché ciò che è successo è impensabile,
indicibile, inascoltabile, noi dobbiamo invece cercare di ascoltare. E
cercare di pensare. Pensare a ciò che è successo, a quali meccanismi hanno
costruito tra noi l'inferno e hanno convinto uomini e donne normali a
metterlo in piedi. Pensare a cosa hanno potuto le masse, la razza, la
propaganda, il conformismo, la burocrazia, l'eliminazione di un vero dibattito
politico. Pensare a che cosa ha portato gli uomini a cadere nel male radicale,
capace di inventare una macchina perfetta in grado di triturare l'uomo,
di distruggerlo scientificamente e sistematicamente in quel laboratorio
bestiale che è stato il campo di concentramento: fabbrica dove si producevano
cadaveri viventi, uomini senza dignità e senza rispetto, trattati da criminali,
posti in situazioni orribili senza ragioni e spiegazioni, stipati nei
vagoni bestiame, ammassati in baracche lugubri, rasati e denudati, torturati
e distrutti prima di morire. E tutto questo come cosa normale. È ciò che
maggiormente ci ha spaventato nel lager di Auschwitz: tutti facevano ciò
che dovevano fare. Eseguivano ordini. La sera tornavano a casa, senza
sentire il bisogno di parlare di ciò che succedeva di giorno nel campo.
È l'aspetto impensabile di come il male possa divenire cosa banale. L'abisso
nascosto nell'uomo normale. In ogni uomo c'è la capacità di cadere nel
male radicale. Si faceva senza pensare. Come cosa normale. Ed è cosa che
può ancora succedere. Ed è appena successo al di là dell'Adriatico… Fare
memoria dunque per i nostri giovani, che in una calda giornata di agosto
si sono seduti in digiuno e silenzio tra il filo spinato di Birkenau,
ha significato anzitutto non dimenticare che sul banco degli imputati
c'è l'uomo normale: la nostra umanità. La memoria è una sfida alla nostra
responsabilità: al nostro voler restare uomini. La prima responsabilità
è quella di rimanere vigilanti, capaci di pensare. Per poter amare. Occorre
molta energia per restare capaci di pensare e di amare questo mondo. Allenare
lo sguardo a riconoscere che il mondo è quotidianamente visitato da gesti
buoni, da sguardi benevoli, da incontri pieni di promesse. Educare lo
sguardo a scorgere il bene presente dappertutto è la nostra responsabilità
più urgente. L'artista ha dipinto queste grandi porte lo scorso anno,
mentre i cristiani moltiplicavano i gesti religiosi alle porte sante in
occasione dei pellegrinaggi giubilari. In fondo l'umanità in pellegrinaggio
cerca continuamente di trovare la dolcezza originaria da cui è venuta
(la porta della creazione) e la casa di fraternità da cui è attesa (la
porta della Città Santa). Per noi cristiani, il Signore Gesù, primo tra
i figli dell'uomo è passato dentro la porta del terrore e della morte,
nella speranza di essere soccorso da una Pietà capace di salvarlo. La
sua Pasqua è davvero attraversamento. Il passaggio. Come dunque non accettare
l'invito ad attraversare anche noi queste porte, da poveri pellegrini.
E in questo umile passare vorremmo non dimenticare mai ciò che, l’umanita
si è caricata sulle spalle, per sempre. E toccare, su questa soglia terribile,
assieme a tutte le vittime grandi e piccole della storia, la Divina Dolcezza
che vi è passata dentro. Per sempre e per tutti i figli dell'uomo.
Dialogare 159, ottobre-novembre 2001 |
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