Alessandro Manzoni - Opera Omnia >>  Adelchi


 



 

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ADELCHI
 
Tragedia


 ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE 
 ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL 
 LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI
CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATER-
NA POTÉ SERBARE UN ANIMO VERGINALE
CONSACRA QUESTO ADELCHI

 L'AUTORE 
 DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLEN-
DIDO E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
RACCOMANDARE IL CARO NOME
E LA MEMORIA DI TANTA VIRTÙ





NOTIZIE STORICHE  
 

 FATTI ANTERIORI ALL'AZIONE COMPRESA NELLA TRAGEDIA

Nell'anno 568, la nazione longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì dalla Pannonia, che abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila Sassoni e d'uomini d'altre nazioni nordiche, scese in Italia, la quale allora era soggetta agl'imperatori greci; ne occupò una parte, e le diede il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la residenza reale (1). Con l'andar del tempo, i Longobardi dilatarono in più riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del regno, o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà dell'ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l'esarcato di Ravenna tenuto ancora dall'Impero, come pure alcune città marittime della Magna Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli imperatori; ma la loro autorità vi si andava restringendo e indebolendo di giorno in giorno, e vi cresceva quella de' pontefici (2). I Longobardi fecero, in diversi tempi, delle scorrerie su queste terre; e tentarono anche d'impossessarsene stabilmente.


754

Astolfo, re de' Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il rimanente. Il papa Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a Pipino, che unge in re de' Franchi. Pipino scende in Italia; caccia Astolfo in Pavia, dove lo assedia, e, per intercessione del papa, gli accorda un trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città occupate.


755

Ripartiti i Franchi, Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia Roma, e ne devasta i contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino: questo scende di nuovo: Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell'Alpi: Pipino le supera, e spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si presentarono a Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a pregarlo, con promesse di gran doni, che rimettesse all'Impero le città dell'esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose che non avea combattuto per servire né per piacere agli uomini, ma per divozione a San Pietro, e per la remissione de' suoi peccati; e che, per tutto l'oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a San Pietro ciò che una volta gli aveva dato (3). Così fu troncata brevemente nel fatto quella curiosa questione, sul diritto della quale s'è disputato fino ai nostri giorni inclusivamente: tanto l'ingegno umano si ferma con piacere in una questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a patti, e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia, e mandò al papa la donazione in iscritto.


756

Muore Astolfo: Desiderio, nobile di Brescia (4), duca longobardo, aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana, dove si trovava, speditovi da Astolfo (5), e viene da essi eletto re. Ratchis, quel fratello d'Astolfo, ch'era stato re prima di lui, e s'era fatto monaco, ambisce di nuovo il regno; esce dal chiostro, fa raccolta di uomini e va contro Desiderio. Questo ricorre al papa ; il quale, fattogli promettere che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non ancora rilasciate (6), consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce e Desiderio rimane re de' Longobardi.
Non si sa precisamente in qual anno, ma certo in uno dei primi del suo regno, Desiderio fondò, insieme con Ansa sua moglie, il monastero di San Salvatore, che fu poi detto di Santa Giulia, in Brescia: Ansberga, o Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima badessa (7).


758

Alboino, duca di Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si ribellano a Desiderio, mettendosi sotto la protezione di Pipino. Desiderio gli attacca, gli sconfigge, fa prigioniero Alboino, e mette in fuga Liutprando (8). In quest'anno, o nel seguente, fu associato al regno il figliuolo di Desiderio, nelle lettere de' papi e nelle cronache chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici, Adelchis.
Nell'anno 768 morì Pipino: il regno de' Franchi fu diviso fra Carlo e Carlomanno suoi figli. Le lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III, successori di Stefano II, sono piene di lamenti e di richiami contro Desiderio, il quale non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove occupazioni.


770

Bertrada, vedova di Pipino, desiderosa di stringer legami d'amicizia tra la sua casa e quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due matrimoni: di Desiderata o Ermengarda (9), figlia di Desiderio, con uno de' suoi figli, e di Gisla sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive ai re Franchi la celebre lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal contrarre un tal parentado (10). Cionnonostante, Bertrada condusse seco in Francia Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò (11). Il matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.


771

Carlo, non si sa bene per qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa Ildegarde, di nazione Sveva (12). La madre di Carlo, Bertrada, biasimò il divorzio; e questo fu cagione del solo dissapore che sia mai nato tra loro (13). Muore Carlomanno; Carlo accorre a Carbonac nella Selva Ardenna, al confine de' due regni: ottiene i voti degli elettori: è nominato re in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi alla morte di Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co' suoi due figli, e con alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio. Carlo ne fu punto sul vivo (14).


772

A Stefano III succede Adriano. Desiderio gli spedisce un'ambasciata per chiedergli la sua amicizia: il nuovo papa risponde che desidera di stare in pace con quel re, come con tutti i cristiani; ma che non vede come possa fidarsi d'un uomo il quale non ha mai voluto adempir la promessa, fatta con giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le appartiene. Desiderio invade altre terre della Donazione (15).


FATTI COMPRESI NELL'AZIONE DELLA TRAGEDIA


772-774

Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ai quali prese Eresburgo (secondo alcuni (16), Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per vendicarsi di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d'indur questo a incoronar re de' Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi barbari, il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò, come doveva, alienissimo dal secondare un tal disegno; del resto, disse d'esser pronto ad abboccarsi col re, dove a questo fosse piaciuto, quando però fossero state restituite alla Chiesa le terre occupate (17). Desiderio ne invase dell'altre, e le mise a ferro e a fuoco (18). In tali angustie, e dopo avere invano spedita un'ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano mandò un legato a chieder soccorso a Carlo (19). Poco dopo, arrivarono a Roma tre inviati di questo, Albino suo confidente (20), Giorgio vescovo, e Wulfardo abate, per accertarsi se le città della Chiesa erano state sgomberate, come Desiderio voleva far credere in Francia. Il papa, quando partirono, mandò in loro compagnia una nuova ambasciata, per fare un ultimo tentativo con Desiderio; il quale, non potendo più ingannar nessuno, disse che non voleva render nulla (21). Con questa risposta i Franchi se ne tornarono a Carlo, il quale svernava in Thionville, dove gli si presentò pure Pietro, il legato d'Adriano (22).

Circa quel tempo, dovette il re de' Franchi ricevere una men nobile ambasciata, inviatagli segretamente da alcuni tra' principali longobardi, per invitarlo a scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno, promettendogli di dargli in mano Desiderio e le sue ricchezze (23).

Carlo radunò il campo di maggio, o, come lo chiamano alcuni annalisti, il sinodo, in Ginevra; e la guerra vi fu decisa (24). S'avviò quindi con l'esercito alle Chiuse d'Italia. Erano queste una linea di mura, di bastite e di torri, verso lo sbocco di Val di Susa, al luogo che serba ancora il nome di Chiusa. Desiderio le aveva ristaurate e accresciute (25); e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di Carlo vi trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino (26). Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che Adelchi, robusto, come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia una mazza di ferro, gli appostava dalle Chiuse, e piombando loro addosso all'improvviso, co' suoi, percoteva a destra e a sinistra, e ne faceva gran macello (27). Carlo, disperando di superare le Chiuse, né sospettando che ci fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già stabilito di ritornarsene (28), quando arrivò al campo de' Franchi un diacono, chiamato Martino, spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo un passo per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de' successori di Leone su quella sede (29).

Mandò Carlo per luoghi scoscesi una parte scelta dell'esercito, la quale riuscì alle spalle de' Longobardi, e gli assalì: questi, sorpresi dalla parte dove non avevano pensato a guardarsi, e essendoci tra loro de' traditori, si dispersero. Carlo entrò allora col resto de' suoi nelle Chiuse abbandonate (30). Desiderio, con parte di quelli che gli eran rimasti fedeli, corse a chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona, dove condusse Gerberga co' figliuoli (31). Molti degli altri Longobardi sbandati ritornarono alle loro città: di queste alcune s'arresero a Carlo altre si chiusero e si misero in difesa. Tra quest'ultime fu Brescia, di cui era duca il nipote di Desiderio, Poto, che, con inflessione leggiera, e conforme alle variazioni usate nello scrivere i nomi germanici, è in questa tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo suo fratello, vescovo della stessa città, si mise alla testa di molti nobili, e resistette a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare quella città. Più tardi il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo esercitava contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i due fratelli ad arrendersi (32).

Carlo mise l'assedio a Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie, Ildegarde; e vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto, andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i limini apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio liberatore (33). L'assedio di Pavia durò parte dell'anno 773 e del seguente: non credo che si possa fissar più precisamente il tempo, senza incontrar contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al caso nostro, e forse insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto Pavia, i Longobardi stanchi dall'assedio, gli apriron le porte (34). Desiderio, consegnato da' suoi Fedeli al nemico (35), fu condotto prigioniero in Francia, e confinato nel monastero di Corbie, dove visse santamente il resto de' suoi giorni (36). I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi (37), e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando si presentasse sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerberga gli andò incontro co' figli, e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò Verona, che s'arrese, e di là si rifugiò a Costantinopoli, dove, accolto onorevolmente, si fermò: dopo vari anni, ottenne il comando d'alcune truppe greche, sbarcò con esse in Italia (38), diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso (39).

Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo anacronismo, e l'altro d'aver supposta Ansa già morta prima del momento in cui comincia l'azione (mentre in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s'è cercato d'accomodare i discorsi de' personaggi all'azioni loro conosciute, e alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d'un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d'Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici con un'infelicità, che dal più difficile e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall'autore


USANZE CARATTERISTICHE ALLE QUALI SI ALLUDE NELLA TRAGEDIA


ATTO I, SCENA II, VERSO 149

Il segno dell'elezione de' re longobardi era di mettere loro in mano un'asta (40).


SCENA III, VERSO 212

Alle giovani longobarde si tagliavano i capelli, quando andavano a marito: le nubili sono dette nelle leggi: figlie in capelli (41). Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch'erano anche chiamate intonse; e vuole che di qui sia venuta tosa, che vive ancora in qualche dialetto di Lombardia (42).


SCENA V, VERSO 335

Tutti i Longobardi in caso di portar l'armi, e che possedevano un cavallo, eran tenuti a marciare: il Giudice poteva dispensarne un piccolissimo numero (43).


ATTO III, SCENA I, VERSO 78

Ne' costumi germanici, il dipendere personalmente da' principali era, già ai tempi di Tacito, una distinzione ambita (44). Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il servizio domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza onorevole, e di devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa condizione erano da' Longobardi chiamati Gasindi: ne' secoli posteriori invalse il titolo domicellus; e di qui il donzello, che è rimasto nella parte storica della lingua. Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova ugualmente ne' secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze che hanno que' tempi con quelli che Vico chiamò della barbarie seconda. Patroclo, ancor giovinetto, dopo avere ucciso, in una rissa, il figlio d'Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in casa del cavalier Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al servizio d'Achille, suo figlio (45).


SCENA IV, VERSO 212

L'omaggio si prestava dai Franchi in ginocchio, e mettendo le mani in quelle del nuovo signore (46).


ATTO IV, SCENA II, VERSO 221

Una delle formalità del giuramento presso i Longobardi era di metter le mani su dell'armi, benedette prima da un sacerdote (47).


CORO NELL'ATTO IV, ST. 7

Carlo, come i suoi nazionali, era portato per la caccia (48). Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di Virgilio, come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una caccia di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando da un'altura (49).


CORO SUDDETTO, ST. 10

Si dilettava anche molto de' bagni d'acque termali; e perciò fece fabbricare il palazzo d'Aquisgrana (50).

Il vocabolo Fedele, che torna spesso in questa tragedia, c'è sempre adoprato nel senso che aveva ne' secoli barbari, cioè come un titolo di vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per evitar l'equivoco che farebbe col senso attuale, non s'è potuto far altro che distinguerlo con l'iniziale grande. Drudo, che aveva la stessa significazione, ed è d'evidente origine germanica (51), riuscirebbe più strano, essendo serbato a un senso ancor più esclusivo. Nella lingua francese, il fidelis, barbarico s'è trasformato in féal, e c'è rimasto; e le cagioni della differente fortuna di questo vocabolo nelle due lingue, si trovano nella storia de' due popoli. Ma c'è pur troppo, tra quelle così differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi hanno conservata nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di sangue; e a forza di lacrime e di sangue, è stata cancellata dal nostro.



PERSONAGGI

LONGOBARDI

 
DESIDERIO  re.
 
ADELCHI  suo figlio, re.
 
ERMENGARDA  figlia di DESIDERIO.
 
ANSBERGA  figlia di DESIDERIO, badessa.
 
VERMONDO  scudiero di DESIDERIO.
 
ANFRIDO  scudiero d'ADELCHI.
 
TEUDI  scudiero d'ADELCHI.
 
BAUDO  duca di Brescia.
 
GISELBERTO  duca di Verona.
 
ILDECHI  duca.
 
INDOLFO  duca.
 
FARVALDO  duca.
 
ERVIGO  duca.
 
GUNTIGI  duca.
 
AMRI  scudiero di GUNTIGI.
 
SVARTO  soldato.
 
 

FRANCHI

 
CARLO  re.
 
ALBINO  legato.
 
RUTLANDO  conte.
 
ARVINO  conte.                                                     

LATINI

 
PIETRO  legato d'ADRIANO papa.
 
MARTINO  diacono di Ravenna.

Duchi, scudieri, soldati longobardi; donzelle, suore del monastero di San Salvatore; conti e vescovi franchi; un araldo



ATTO PRIMO

SCENA I

Palazzo reale in Pavia.

DESIDERIO, ADELCHI, VERMONDO.

VERMONDO - O mio re Desiderio, e tu del regno
Nobil collega, Adelchi; il doloroso
Ed alto ufizio che alla nostra fede
Commetteste, è fornito. All'arduo muro
Che Val di Susa chiude, e dalla franca
La longobarda signoria divide,
Come imponeste, noi ristemmo; ed ivi,
Tra le franche donzelle, e gli scudieri,
Giunse la nobilissima Ermengarda;
E da lor mi divise, ed alla nostra
Fida scorta si pose. I riverenti
Lunghi commiati del corteggio, e il pianto
Mal trattenuto in ogni ciglio, aperto
mostrar che degni eran color d'averla
Sempre a regina, e che de' Franchi stessi
Complice alcuno in suo pensier non era
Del vil rifiuto del suo re; che vinti
Tutti i cori ella avea, trattone un solo.
Compimmo il resto della via. Nel bosco
Che intorno al vallo occidental si stende,
La real donna or posa: io la precorsi,
L'annunzio ad arrecar.

DESIDERIO - L'ira del cielo,
E l'abbominio della terra, e il brando
Vendicator, sul capo dell'iniquo,
Che pura e bella dalle man materne
La mia figlia si prese, e me la rende
Con l'ignominia d'un ripudio in fronte!
Onta a quel Carlo, al disleal, per cui
Annunzio di sventura al cor d'un padre
È udirsi dir che la sua figlia è giunta!
Oh! questo dì gli sia pagato: oh! cada
Tanto in fondo costui, che il più tapino,
L'ultimo de' soggetti si sollevi
Dalla sua polve, e gli s'accosti, e possa
Dirgli senza timor: tu fosti un vile,
Quando oltraggiasti una innocente.

ADELCHI - O padre,
Ch'io corra ad incontrarla, e ch'io la guidi
Al tuo cospetto. Oh lassa lei, che invano
Quel della madre cercherà! Dolore
Sopra dolor! Su queste soglie, ahi! troppe
Memorie acerbe affolleransi intorno
A quell'anima offesa. Al fiero assalto
Sprovveduta non venga, e senta prima
Una voce d'amor che la conforti.

DESIDERIO - Figlio, rimanti. E tu, fedel Vermondo,
Riedi alla figlia mia; dille che aperte
De' suoi le braccia ad aspettarla stanno...
De' suoi, che il cielo in questa luce ancora
Lascia. Tu al padre ed al fratel rimena
Quel desiato volto. Alla sua scorta
Due fidate donzelle, e teco Anfrido
Saran bastanti: per la via segreta
Al palazzo venite, e inosservati
Quanto si puote: in più drappelli il resto
Della gente dividi, e, per diverse
Parti, gli invia dentro le mura.

(Vermondo parte.)



SCENA II

DESIDERIO, ADELCHI.

DESIDERIO - Adelchi,
Che pensiero era il tuo? Tutta Pavia
Far di nostr'onta testimon volevi?
E la ria moltitudine a goderne,
Come a festa, invitar? Dimenticasti
Che ancor son vivi, che ci stan d'intorno
Quei che le parti sostenean di Rachi,
Quand'egli osò di contrastarmi il soglio?
Nemici ascosi, aperti un tempo; a cui
L'abbattimento delle nostre fronti
È conforto e vendetta!

ADELCHI - Oh prezzo amaro
Del regno! oh stato, del costor, di quello
De' soggetti più rio! se anche il lor guardo
Temer ci è forza, ed occultar la fronte
Per la vergogna; e se non ci è concesso,
Alla faccia del sol, d'una diletta
La sventura onorar!

DESIDERIO - Quando all'oltraggio
Pari fia la mercé, quando la macchia
Fia lavata col sangue; allor, deposti
I vestimenti del dolor, dall'ombre
La mia figlia uscirà: figlia e sorella
Non indarno di re, sovra la folla
Ammiratrice, leverà la fronte
Bella di gloria e di vendetta. - E il giorno
Lungi non è; l'arme, io la tengo; e Carlo,
Ei me la die': la vedova infelice
Del fratel suo, di cui con arti inique
Ei successor si feo, quella Gerberga
Che a noi chiese un asilo, e i figli all'ombra
Del nostro soglio ricovrò. Quei figli
Noi condurremo al Tebro, e per corteggio
un esercito avranno: al Pastor sommo
Comanderem che le innocenti teste
Unga, e sovr'esse proferisca i preghi
Che danno ai Franchi un re. Sul franco suolo
Li porterem dov'ebbe regno il padre,
Ove han fautori a torme, ove sopita
Ma non estinta in mille petti è l'ira
Contro l'iniquo usurpator.

ADELCHI - Ma incerta
È la risposta d'Adrian? di lui
Che stretto a Carlo di cotanti nodi,
Voce udir non gli fa che di lusinga
E di lode non sia, voce di padre
Che benedice? A lui vittoria e regno
E gloria, a lui l'alto favor di Piero
Promette e prega; e in questo punto ancora
I suoi legati accoglie, e contro noi
Certo gl'implora; contro noi la terra
E il santuario di querele assorda
Per le città rapite.

DESIDERIO - Ebben, ricusi:
Nemico aperto ei fia; questa incresciosa
Guerra eterna di lagni e di messaggi
E di trame fia tronca; e quella al fine
Comincerà dei brandi: e dubbia allora
La vittoria esser può? Quel dì che indarno
I nostri padri sospirar, serbato
È a noi: Roma fia nostra: e, tardi accorto,
Supplice invan, delle terrene spade
Disarmato per sempre, ai santi studi
Adrian tornerà; re delle preci,
Signor del Sacrifizio, il soglio a noi
Sgombro darà.

ADELCHI - Debellator de' Greci,
E terror de' ribelli, uso a non mai
Tornar che dopo la vittoria, innanzi
Alla tomba di Pier due volte Astolfo
Piegò l'insegne, e si fuggì; due volte
Dell'antico pontefice la destra,
Che pace offrìa, respinse, e sordo stette
All'impotente gemito. Oltre l'Alpe
Fu quel gemito udito: a vendicarlo
Pipin due volte le varcò: que' Franchi
Da noi soccorsi tante volte e vinti,
Dettaro i patti qui. Veggo da questa
Reggia il pian vergognoso ove le tende
Abborrite sorgean, dove scorrea
L'ugna de' franchi corridor.

DESIDERIO - Che parli
Or tu d'Astolfo e di Pipin? Sotterra
Giacciono entrambi: altri mortali han regno,
Altri tempi si volgono, brandite
Sono altre spade. Eh! se il guerrier che il capo
Al primo rischio offerse, e il muro ascese,
Cadde e perì, gli altri fuggir dovranno,
E disperar? Questi i consigli sono
Del mio figliuol? Quel mio superbo Adelchi
Dov'è, che imberbe ancor vide Spoleti
Rovinoso venir, qual su la preda
Giovinetto sparviero, e nella strage
Spensierato tuffarsi, e su la turba
De' combattenti sfolgorar, siccome
Lo sposo nel convito? Insiem col vinto
Duca ribelle ei ritornò: sul campo,
Consorte al regno il chiesi: un grido sorse
Di consenso e di plauso, e nella destra
- Tremenda allor - l'asta real fu posta.
Ed or quel desso altro veder che inciampi
E sventure non sa? Dopo una rotta
Così parlar non mi dovresti. Oh cielo!
Chi mi venisse a riferir che tali
Son di Carlo i pensier, quali or gli scorgo
Nel mio figliuol, mi colmeria di gioia.

ADELCHI - Deh! perché non è qui! Perché non posso
In campo chiuso essergli a fronte, io solo,
Io, fratel d'Ermengarda! e al tuo cospetto,
Nel giudizio di Dio, nella mia spada,
La vendetta ripor del nostro oltraggio!
E farti dir, che troppo presta, o padre,
Una parola dal tuo labbro uscia!

DESIDERIO - Questa è voce d'Adelchi. Ebben, quel giorno
Che tu brami, io l'affretto.

ADELCHI - O padre, un altro
Giorno io veggo appressarsi. Al grido imbelle,
Ma riverito, d'Adrian, vegg'io
Carlo venir con tutta Francia; e il giorno
Quello sarà de' successor d'Astolfo
Incontro al figlio di Pipin. Rammenta
Di chi siam re; che nelle nostre file
Misti ai leali, e più di lor fors'anco,
Sono i nostri nemici; e che la vista
D'un'insegna straniera ogni nemico
In traditor ti cangia. Il core, o padre,
Basta a morir; ma la vittoria e il regno
È pel felice che ai concordi impera.
Odio l'aurora che m'annunzia il giorno
Della battaglia, incresce l'asta e pesa
Alla mia man, se nel pugnar, guardarmi
Deggio dall'uom che mi combatte al fianco.

DESIDERIO - Chi mai regnò senza nemici? il core
Che importa? e re siam dunque indarno? e i brandi
Tener chiusi dovrem nella vagina
Infin che spento ogni livor non sia?
Ed aspettar sul soglio inoperosi
Chi ci percota? Havvi altra via di scampo
Fuorché l'ardir? Tu, che proponi alfine?

ADELCHI - Quel che, signor di gente invitta e fida,
In un dì di vittoria, io proporrei:
Sgombriam le terre de' Romani; amici
Siam d'Adriano: ei lo desia.

DESIDERIO - Perire,
Perir sul trono, o nella polve, in pria
Che tanta onta soffrir. Questo consiglio
Più dalle labbra non ti sfugga: il padre
Te lo comanda.



SCENA III

VERMONDO che precede ERMENGARDA e detti, DONZELLE che l'accompagnano.

VERMONDO - O regi, ecco Ermengarda.

DESIDERIO - Vieni, o figlia; fa cor.

(Vermondo parte: le Donzelle si scostano.)

ADELCHI - Sei nelle braccia
Del fratel tuo, dinanzi al padre, in mezzo
Ai fidi antichi tuoi; sei nel palagio
De' re, nel tuo, più riverita e cara
D'allor che ne partisti.

ERMENGARDA - Oh benedetta
Voce de' miei! Padre, fratello, il cielo
Queste parole vi ricambi; il cielo
Sia sempre a voi, quali voi siete ad una
Vostra infelice. Oh! se per me potesse
Sorgere un lieto dì, questo sarebbe,
Questo, in cui vi riveggo - Oh dolce madre!
Qui ti lasciai: le tue parole estreme
Io non udii; tu qui morivi - ed io...
Ah! di lassù certo or ci guardi: oh! vedi;
Quella Ermengarda tua, che di tua mano
Adornavi quel dì, con tanta gioia,
Con tanta pièta, a cui tu stessa il crine
Recidesti quel dì, vedi qual torna!
E benedici i cari tuoi, che accolta
Hanno così questa reietta.

ADELCHI - Ah! nostro
È il tuo dolor, nostro l'oltraggio.

DESIDERIO - E nostro
Sarà il pensier della vendetta.

ERMENGARDA - Oh padre,
Tanto non chiede il mio dolor; l'obblìo
Sol bramo; e il mondo volentier l'accorda
Agl'infelici; oh! basta; in me finisca
La mia sventura. D'amistà, di pace
Io la candida insegna esser dovea:
Il ciel non volle: ah! non si dica almeno
Ch'io recai meco la discordia e il pianto
Dovunque apparvi, a tutti a cui di gioia
Esser pegno dovea.

DESIDERIO - Di quell'iniquo
Forse il supplizio ti dorrìa? quel vile,
Tu l'ameresti ancor?

ERMENGARDA - Padre, nel fondo
Di questo cor che vai cercando? Ah! nulla
Uscir ne può che ti rallegri: io stessa
Temo d'interrogarlo: ogni passata
Cosa è nulla per me. Padre, un estremo
Favor ti chieggio: in questa corte, ov'io
Crebbi adornata di speranze, in grembo
Di quella madre, or che farei? ghirlanda
Vagheggiata un momento, in su la fronte
Posta per gioco un dì festivo, e tosto
Gittata a' piè del passeggiero. Al santo
Di pace asilo e di pietà, che un tempo
La veneranda tua consorte ergea,
- Quasi presaga - ove la mia diletta
Suora, oh felice! la sua fede strinse
A quello Sposo che non mai rifiuta,
lascia ch'io mi ricovri. A quelle pure
Nozze aspirar più non poss'io, legata
D'un altro nodo; ma non vista, in pace
Ivi potrò chiudere i giorni.

ADELCHI - Al vento
Questo presagio: tu vivrai: non diede
Così la vita de' migliori il cielo
All'arbitrio de' rei: non e' in lor mano
Ogni speranza inaridir, dal mondo
Tôrre ogni gioia.

ERMENGARDA - Oh! non avesse mai
Viste le rive del Ticin Bertrada!
Non avesse la pia, del longobardo
Sangue una nuora desiata mai,
Né gli occhi vòlti sopra me!

DESIDERIO - Vendetta,
Quanto lenta verrai!

ERMENGARDA - Trova il mio prego
grazia appo te?

DESIDERIO - Sollecito fu sempre
Consigliero il dolor più che fedele,
E di vicende e di pensieri il tempo
Impreveduto apportator. Se nulla
Al tuo proposto ei muta, alla mia figlia
Nulla disdir vogl'io.



SCENA IV

ANFRIDO, e detti.

DESIDERIO - Che rechi, Anfrido?

ANFRIDO - Sire, un legato è nella reggia, e chiede
Gli sia concesso appresentarsi ai regi.

DESIDERIO - Donde vien? Chi l'invia?

ANFRIDO - Da Roma ei viene,
Ma legato è d'un re.

ERMENGARDA - Padre, concedi
Ch'io mi ritragga.

DESIDERIO - O donne, alle sue stanze
La mia figlia scorgete; a' suoi servigi
Io vi destino: di regina il nome
Abbia e l'onor.

(Ermengarda parte con le Donzelle.)

DESIDERIO - D'un re dicesti, Anfrido?
Un legato... di Carlo?

ANFRIDO - O re, l'hai detto.

DESIDERIO - Che pretende costui? quali parole
Cambiar si ponno fra di noi? qual patto
Che di morte non sia?

ANFRIDO - Di gran messaggio
Apportator si dice: ai duchi intanto,
Ai conti, a quanti nella reggia incontra,
Favella in atto di blandir.

DESIDERIO - Conosco
L'arti di Carlo.

ADELCHI - Al suo stromento il tempo
D'esercitarle non si dia.

DESIDERIO - Raduna
Tosto i Fedeli, Anfrido, e in un con essi
Ei venga.

(Anfrido parte.)

DESIDERIO - Il giorno della prova è giunto:
Figlio, sei tu con me?

ADELCHI - Sì dura inchiesta
Quando, o padre, mertai?

DESIDERIO - Venuto è il giorno
Che un voler solo, un solo cor domanda:
Dì, l'abbiam noi? Che pensi far?

ADELCHI - Risponda
Il passato per me: gli ordini tuoi
Attender penso, ed eseguirli.

DESIDERIO - E quando
A' tuoi disegni opposti sieno?

ADELCHI - O padre!
Un nemico si mostra, e tu mi chiedi
Ciò ch'io farò? Più non son io che un brando
Nella tua mano. Ecco il legato: il mio
Dover fia scritto nella tua risposta.



SCENA V

DESIDERIO, ADELCHI, ALBINO,
FEDELI LONGOBARDI
.

DESIDERIO - Duchi, e Fedeli; ai vostri re mai sempre
Giova compagni ne' consigli avervi,
Come nel campo. - Ambasciator, che rechi?

ALBINO - Carlo, il diletto a Dio sire de' Franchi,
De' Longobardi ai re queste parole
Manda per bocca mia: Volete voi
Tosto le terre abbandonar di cui
L'uomo illustre Pipin fe' dono a Piero?

DESIDERIO - Uomini longobardi! in faccia a tutto
Il popol nostro, testimoni voi
Di ciò mi siate; se dell'uom che questi
Or v'ha nomato, e ch'io nomar non voglio,
Il messo accolsi, e la proposta intesi,
Sacro dover di re solo potea
Piegarmi a tanto. - Or tu, straniero, ascolta.
Lieve domando il tuo non è; tu chiedi
Il segreto de' re: sappi che ai primi
Di nostra gente, a quelli sol da cui
Leal consiglio ci aspettiamo, a questi
Alfin che vedi intorno a noi, siam usi
Di confidarlo: agli stranier non mai.
Degna risposta al tuo domando è quindi
Non darne alcuna.

ALBINO - E tal risposta è guerra.
Di Carlo in nome io la v'intimo, a voi
Desiderio ed Adelchi, a voi che poste
Sul retaggio di Dio le mani avete,
E contristato il Santo. A questa illustre
Gente nemico il mio signor non viene:
Campion di Dio, da Lui chiamato, a Lui
Il suo braccio consacra; e suo malgrado
Lo spiegherà contro chi voglia a parte
Star del vostro peccato.

DESIDERIO - Al tuo re torna,
Spoglia quel manto che ti rende ardito,
Stringi un acciar, vieni, e vedrai se Dio
Sceglie a campione un traditor. - Fedeli!
Rispondete a costui.

MOLTI FEDELI - Guerra!

ALBINO - E l'avrete,
E tosto, e qui: l'angiol di Dio, che innanzi
Al destrier di Pipin corse due volte,
Il guidator che mai non guarda indietro,
Già si rimette in via.

DESIDERIO - Spieghi ogni duca
Il suo vessillo; della guerra il bando
Ogni Giudice intìmi, e l'oste aduni;
Ogni uom che nutre un corridor, lo salga,
E accorra al grido de' suoi re. La posta
È alle Chiuse dell'Alpi.

(al Legato.)

Al re de' Franchi
Questo invito riporta.

ADELCHI - E digli ancora,
Che il Dio di tutti, il Dio che i giuri ascolta
Che al debole son fatti, e ne malleva
L'adempimento o la vendetta, il Dio,
Di cui talvolta più si vanta amico
Chi più gli è in ira, in cor del reo sovente
Mette una smania, che alla pena incontro
Correr lo fa; digli che mal s'avvisa
Chi va de' brandi longobardi in cerca,
Poi che una donna longobarda offese.

(partono da un lato i re con la più parte de' longobardi e dall'altro il legato.)



SCENA VI

DUCHI rimasti.

INDOLFO - Guerra, egli ha detto!

FARVALDO - In questa guerra è il fato
Del regno.

INDOLFO - E il nostro.

ERVIGO - E inerti ad aspettarlo
Staremci?

ILDECHI - Amici, di consulte il loco
Questo non è. Sgombriam; per vie diverse
Alla casa di Svarto ognuno arrivi.



SCENA VII

Casa di SVARTO.

SVARTO.

SVARTO - Un messaggier di Carlo! Un qualche evento,
Qual ch'ei pur sia, sovrasta. - In fondo all'urna,
Da mille nomi ricoperto, giace
Il mio; se l'urna non si scote, in fondo
Si rimarrà per sempre; e in questa mia
Oscurità morrò, senza che alcuno
Sappia nemmeno ch'io d'uscirne ardea.
- Nulla son io. Se in questo tetto i grandi
S'adunano talor, quelli a cui lice
Essere avversi ai re; se i lor segreti
Saper m'è dato, è perché nulla io sono.
Chi pensa a Svarto? chi spiar s'affanna
Qual piede a questo limitar si volga?
Chi m'odia? chi mi teme? - Oh! se l'ardire
Desse gli onor! se non avesse in pria
Comandato la sorte! e se l'impero
Si contendesse a spade, allor vedreste,
Duchi superbi, chi di noi l'avria.
Se toccasse all'accorto! A tutti voi
Io leggo in cor; ma il mio v'è chiuso. Oh! quanto
Stupor vi prenderia, quanto disdegno,
Se ci scorgeste mai che un sol desio
A voi tutti mi lega, una speranza...
D'esservi pari un dì! - D'oro appagarmi
Credete voi. L'oro! gittarlo al piede
Del suo minor, quello è destin; ma inerme,
Umil tender la mano ad afferrarlo,
Come il mendico...



SCENA VIII

SVARTO, ILDECHI; poi altri che sopraggiungono.

ILDECHI - Il ciel ti salvi, o Svarto:
Nessuno è qui?

SVARTO - Nessun. Qual nuove, o Duca?

ILDECHI - Gravi; la guerra abbiam coi Franchi: il nodo
Si ravviluppa, o Svarto; e fia mestieri
Sciorlo col ferro: il dì s'appressa, io spero,
Del guiderdon per tutti.

SVARTO - Io nulla attendo,
Fuor che da voi.

ILDECHI - (a Farvaldo che sopraggiunge) Farvaldo, alcun ti segue?

FARVALDO - Vien su' miei passi Indolfo.

ILDECHI - Eccolo.

INDOLFO - Amici!

ILDECHI - Vila! Ervigo!

(ad altri che entrano)

Fratelli! Ebben: supremo
È il momento, il vedete: i vinti in questa
Guerra, qual siasi il vincitor, siam noi,
Se un gran partito non si prende. Arrida
La sorte ai re; svelatamente addosso
Ci piomberan; Carlo trionfi; in preso
Regno, che posto ci riman? Con uno
De' combattenti è forza star. - Credete
Che in cor di questi re siavi un perdono
Per chi voleva un altro re?

INDOLFO - Nessuna
Pace con lor.

ALTRI DUCHI - Nessuna!

ILDECHI - È d'uopo un patto
Stringer con Carlo.

FARVALDO - Al suo legato...

ERVIGO - È cinto
Dagli amici de' regi; io vidi Anfrido
Porglisi al fianco: e fu pensier d'Adelchi.

ILDECHI - Vada adunque un di noi; rechi le nostre
Promesse a Carlo, e con le sue ritorni,
O le rimandi.

INDOLFO - Bene sta.

ILDECHI - Chi piglia
Quest'impresa?

SVARTO - Io v'andrò. Duchi, m'udite.
Se alcun di voi quinci sparisce, i guardi
Fieno intesi a cercarlo; ed il sospetto
Cercherà l'orme sue, fin che le scopra.
Ma che un gregario cavalier, che Svarto
Manchi, non fia che più s'avvegga il mondo,
Che d'un pruno scemato alla foresta.
Se alla chiamata alcun mi noma, e chiede:
Dov'è? dica un di voi: Svarto? io lo vidi
Scorrer lungo il Ticino; il suo destriero
Imbizzarrì, giù dall'arcion nell'onda
Lo scosse; armato egli era, e più non salse.
Sventurato! diranno; e più di Svarto
Non si farà parola. A voi non lice
Inosservati andar: ma nel mio volto
Chi fisserà lo sguardo? Al calpestio
Del mio ronzin che solo arrivi, appena
Qualche Latin fia che si volga; e il passo
Tosto mi sgombrerà.

ILDECHI - Svarto, io da tanto
Non ti credea.

SVARTO - Necessità lo zelo
Rende operoso; e ad arrecar messaggi
Non è mestier che di prontezza.

ILDECHI - Amici!
Ch'ei vada?

I DUCHI - Ei vada.

ILDECHI - Al di novello in pronto
Sii, Svarto; e in un gli ordini nostri il fieno


Fine dell'atto primo




ATTO SECONDO

SCENA I

Campo de' Franchi in Val di Susa.

CARLO, PIETRO.

PIETRO - Carlo invitto, che udii? Toccato ancora
Il suol non hai dove il secondo regno
Il Signor ti destina; e di ritorno
Per tutto il campo si bisbiglia! Oh! possa,
Dal tuo labbro real tosto smentita,
L'empia voce cader! L'età ventura
Non abbia a dir che sul principio tronca
Giacque un'impresa risoluta in cielo,
Abbracciata da te. No; ch'io non torni
Al Pastor santo, e debba dirgli: il brando,
Che suscitato Iddio t'avea, ricadde
Nella guaina; il tuo gran figlio volle,
Volle un momento, e disperò.

CARLO - Quant'io
Per la salvezza di tal padre oprai,
Uomo di Dio, tu lo vedesti, il vide
Il mondo, e fede ne farà. Di quello
Che resti a far, dal mio desir consiglio
Non prenderò, quando m'ha dato il suo
Necessità. L'Onnipotente è un solo.
Quando all'orecchio mi pervenne il grido
Del Pastor minacciato, io, su gl'infranti
Idoli vincitor, dietro l'infido
Sassone camminava; e la sua fuga
Mi batteva la via; ristetti in mezzo
Della vittoria, e patteggiai là dove
Tre dì più tardi comandar potea.
Tenni il campo in Ginevra; al voler mio
Ogni voler piegò; Francia non ebbe
Più che un affar; tutta si mosse, al varco
D'Italia s'affacciò volenterosa,
Come al racquisto di sue terre andria.
Ora, a che siam tu il vedi: il varco è chiuso.
Oh! se frapposti tra il conquisto e i Franchi
Fosser uomini sol, questa parola
Il re de' Franchi proferir potrebbe:
Chiusa è la via? Natura al mio nemico
Il campo preparò, gli abissi intorno
Gli scavò per fossati; e questi monti,
Che il Signor fabbricò, son le sue torri
E i battifredi: ogni più picciol varco
Chiuso è di mura, onde insultare ai mille
Potrieno i dieci, ed ai guerrier le donne.
- Già troppo, in opra ove il valer non basta,
Di valenti io perdei: troppo, fidando
Nel suo vantaggio, il fiero Adelchi ha tinta
Di Franco sangue la sua spada. Ardito
Come un leon presso la tana, ei piomba,
Percote, e fugge. Oh ciel! più volte io stesso,
Nell'alta notte visitando il campo,
Fermo presso le tende, udii quel nome
Con terror proferito. I Franchi miei
Ad una scola di terror più a lungo
Io non terrò. S'io del nemico a fronte
Venir poteva in campo aperto, oh! breve
Era questa tenzon, certa l'impresa...
Fin troppo certa per la gloria. E Svarto,
Un guerrier senza nome, un fuggitivo,
L'avria con me divisa, ei che già vinti
Mi rassegnò tanti nemici. Un giorno,
Men che un giorno bastava: Iddio mel niega.
Non se ne parli più.

PIETRO - Re, all'umil servo
Di Colui che t'elesse, e pose il regno
Nella tua casa, non vorrai tu i preghi
Anco inibir. Pensa a che man tu lasci
Quel che padre tu nomi. Il suo nemico
Già provocato a guerra avevi, in armi
Già tu scendevi, e ancor di rabbia insano,
Più che di tema, il crudo veglio al santo
Pastor mandava ad intimar, che ai Franchi
Desse altri re: - tu li conosci. - Ei tale
Mandò risposta a quel tiranno: immota
Sia questa man per sempre; inaridisca
Il crisma santo su l'altar di Dio,
Pria che, sparso da me, seme diventi
Di guerra contro il figliuol mio. - T'aiti
Quel tuo figliuol, fe' replicargli il rege;
Ma pensa ben, che, s'ei ti manca un giorno,
Fia risoluta fra noi due la lite".

CARLO - A che ritenti questa piaga? In vani
Lamenti vuoi che anch'io mi perda? o pensi
Che abbia Carlo mestier di sproni al fianco?
- È in periglio Adrian; forse è mestieri
Che altri a Carlo il rimembri? Il vedo, il sento;
E non è detto di mortal che possa
Crescere il cruccio che il mio cor ne prova.
Ma superar queste bastite, al suo
Scampo volar... de' Franchi il re nol puote.
Detto io te l'ho; né volentier ripeto
Questa parola. - Io da' miei Franchi ottenni
Tutto finor, perché sol grandi io chiesi
E fattibili cose. All'uom che stassi
Fuor degli eventi e guata, arduo talvolta
Ciò ch'è più lieve appar, lieve talvolta
Ciò che la possa de' mortali eccede.
Ma chi tenzona con le cose, e deve
Ciò ch'egli agogna conseguir con l'opra,
Quei conosce i momenti. - E che potea
Io far di più? Pace al nemico offersi,
Sol che le terre dei Romani ei sgombri;
Oro gli offersi per la pace; e l'oro
Ei ricusò! Vergogna! a ripararla
Sul Vèsero ne andrò.



SCENA II

ARVINO, e detti.

ARVINO - Sire, nel campo
Un uom latino è giunto, e il tuo cospetto
Chiede.

PIETRO - Un Latin?

CARLO - Donde arrivò? Le Chiuse
Come varcò?

ARVINO - Per calli sconosciuti,
Declinandole, ei venne; e a te si vanta
Grande avviso recar.

CARLO - Fa' ch'io gli parli.

(Arvino parte)

E tu meco l'udrai. Nulla intentato
Per la salvezza d'Adriano io voglio
Lasciar: di questo testimon ti chiamo.



SCENA III

MARTINO introdotto da ARVINO, e detti

(Arvino si ritira.)

CARLO - Tu se' latino, e qui? tu nel mio campo,
Illeso, inosservato?

MARTINO - Inclita speme
Dell'ovil santo e del Pastor, ti veggo;
E de' miei stenti e de' perigli è questa
Ampia mercé; ma non è sola. Eletto
A strugger gli empi! ad insegnarti io vengo
La via.

CARLO - Qual via?

MARTINO - Quella ch'io feci.

CARLO - E come
Giungesti a noi? Chi se'? Donde l'ardito
Pensier ti venne?

MARTINO - All'ordin sacro ascritto
De' diaconi io son: Ravenna il giorno
Mi dié: Leone, il suo Pastor, m'invia.
Vanne, ei mi disse, al salvator di Roma;
Trovalo: Iddio sia teco; e s'Ei di tanto
Ti degna, al re sii scorta: a lui di Roma
Presenta il pianto, e d'Adrian.

CARLO - Tu vedi
Il suo legato.

PIETRO - Ch'io la man ti stringa,
Prode concittadino: a noi tu giungi
Angel di gioia.

MARTINO - Uom peccator son io;
Ma la gioia è dal cielo, e non fia vana.

CARLO - Animoso Latin, ciò che veduto,
Ciò che hai sofferto, il tuo cammino e i rischi,
Tutto mi narra.

MARTINO - Di Leone al cenno,
Verso il tuo campo io mi drizzai; la bella
Contrada attraversai, che nido è fatta
Del Longobardo e da lui piglia il nome.
Scorsi ville e città, sol di latini
Abitatori popolate: alcuno
Dell'empia razza a te nemica e a noi
Non vi riman, che le superbe spose
De' tiranni e le madri, ed i fanciulli
Che s'addestrano all'armi, e i vecchi stanchi,
Lasciati a guardia de' cultor soggetti,
Come radi pastor di folto armento.
Giunsi presso alle Chiuse: ivi addensati
Sono i cavalli e l'armi; ivi raccolta
Tutta una gente sta, perché in un colpo
Strugger la possa il braccio tuo.

CARLO - Toccasti,
Il campo lor? qual è? che fan?

MARTINO - Securi
Da quella parte che all'Italia è volta,
Fossa non hanno, né ripar, né schiere
In ordinanza: a fascio stanno; e solo
Si guardan quinci, donde solo han tema
Che tu attinger li possa. A te, per mezzo
Il campo ostil, quindi venir non m'era
Possibil cosa; e nol tentai; ché cinto
Al par di rocca è questo lato; e mille
Volte nemico tra costor chiarito
M'avria la breve chioma, il mento ignudo,
L'abito, il volto ed il sermon latino.
Straniero ed inimico, inutil morte
Trovato avrei; reddir senza vederti
M'era più amaro che il morir. Pensai
Che dall'aspetto salvator di Carlo
Un breve tratto mi partia: risolsi
La via cercarne, e la rinvenni.

CARLO - E come
Nota a te fu? come al nemico ascosa?

MARTINO - Dio gli accecò. Dio mi guidò. Dal campo
Inosservato uscii; l'orme ripresi
Poco innanzi calcate; indi alla manca
Piegai verso aquilone, e abbandonando
I battuti sentieri, in un'angusta
Oscura valle m'internai: ma quanto
Più il passo procedea, tanto allo sguardo
Più spaziosa ella si fea. Qui scorsi
Gregge erranti e tuguri: era codesta
L'ultima stanza de' mortali. Entrai
Presso un pastor, chiesi l'ospizio, e sovra
Lanose pelli riposai la notte.
Sorto all'aurora, al buon pastor la via
Addimandai di Francia. - Oltre quei monti
Sono altri monti, ei disse, ed altri ancora;
E lontano lontan Francia; ma via
Non avvi; e mille son que' monti, e tutti
Erti, nudi, tremendi, inabitati,
Se non da spirti, ed uom mortal giammai
Non li varcò. - Le vie di Dio son molte,
Più assai di quelle del mortal, risposi;
E Dio mi manda. - E Dio ti scorga, ei disse:
Indi, tra i pani che teneva in serbo,
Tanti pigliò di quanti un pellegrino
Puote andar carco; e, in rude sacco avvolti,
Ne gravò le mie spalle: il guiderdone
Io gli pregai dal cielo, e in via mi posi.
Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,
E in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla
Traccia d'uomo apparia; solo foreste
D'intatti abeti, ignoti fiumi, e valli
Senza sentier: tutto tacea; null'altro
Che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora
Lo scrosciar dei torrenti, o l'improvviso
Stridir del falco, o l'aquila, dall'erto
Nido spiccata sul mattin, rombando
Passar sovra il mio capo, o, sul meriggio,
Tocchi dal sole, crepitar del pino
Silvestre i coni. Andai così tre giorni;
E sotto l'alte piante, o ne' burroni
Posai tre notti. Era mia guida il sole;
Io sorgeva con esso, e il suo viaggio
Seguia, rivolto al suo tramonto. Incerto
Pur del cammino io gìa, di valle in valle
Trapassando mai sempre; o se talvolta
D'accessibil pendio sorgermi innanzi
Vedeva un giogo, e n'attingea la cima,
Altre più eccelse cime, innanzi, intorno
Sovrastavanmi ancora; altre, di neve
Da sommo ad imo biancheggianti, e quasi
Ripidi, acuti padiglioni, al suolo
Confitti; altre ferrigne, erette a guisa
Di mura insuperabili. - Cadeva
Il terzo sol quando un gran monte io scersi,
Che sovra gli altri ergea la fronte, ed era
Tutto una verde china, e la sua vetta
Coronata di piante. A quella parte
Tosto il passo io rivolsi. - Era la costa
Oriental di questo monte istesso,
A cui, di contro al sol cadente, il tuo
Campo s'appoggia, o sire. - In su le falde
Mi colsero le tenebre: le secche
Lubriche spoglie degli abeti, ond'era
Il suol gremito, mifur letto, e sponda
Gli antichissimi tronchi. Una ridente
Speranza, all'alba, risvegliommi; e pieno
Di novello vigor la costa ascesi.
Appena il sommo ne toccai, l'orecchio
Mi percosse un ronzio che di lontano
Parea venir, cupo, incessante; io stetti,
Ed immoto ascoltai. Non eran l'acque
Rotte fra i sassi in giù; non era il vento
Che investia le foreste, e, sibilando,
D'una in altra scorrea, ma veramente
Un rumor di viventi, un indistinto
Suon di favelle e d'opre e di pedate
Brulicanti da lungi, un agitarsi
D'uomini immenso. Il cuor balzommi; e il passo
Accelerai. Su questa, o re, che a noi
Sembra di qui lunga ed acuta cima
Fendere il ciel, quasi affilata scure,
Giace un'ampia pianura, e d'erbe è folta,
Non mai calcate in pria. Presi di quella
Il più breve tragitto: ad ogni istante
Si fea il rumor più presso: divorai
L'estrema via: giunsi sull'orlo: il guardo
Lanciai giù nella valle, e vidi... oh! vidi
Le tende d'Israello, i sospirati
Padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,
Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.

CARLO - Empio colui che non vorrà la destra
Qui riconoscer dell'Eccelso!

PIETRO - E quanto
Più manifesta apparirà nell'opra,
A cui l'Eccelso ti destina!

CARLO - Ed io
La compirò.

(a Martino)

Pensa, o Latino, e certa
Sia la risposta: a cavalieri il passo
Dar può la via che percorresti?

MARTINO - Il puote.
E a che l'avrebbe preparata il Cielo?
Per chi, signor? perché un mortale oscuro
Al re de' Franchi narrator venisse
D'inutile portento?

CARLO - Oggi a riposo
Nella mia tenda rimarrai: sull'alba,
Ad un'eletta di guerrier tu scorta
Per quella via sarai. - Pensa, o valente,
Che il fior di Francia alla tua scorta affido.

MARTINO - Con lor sarò: di mie promesse pegno
Il mio capo ti fia.

CARLO - Se di quest'alpe
Mi sferro alfine, e vincitore al santo
Avel di Piero, al desiato amplesso
Del gran padre Adrian giunger m'è dato,
Se grazia alcuna al suo cospetto un mio
Prego aver può, le pastorali bende
Circonderan quel capo; e faran fede
In quanto onor Carlo lo tenga. - Arvino!

(entra Arvino)

I Conti e i Sacerdoti.

(al legato e a Martino)

E voi, le mani
Alzate al Ciel; le grazie a lui rendute
Preghiera sian che favor novo impetri.

(partono il legato e Martino)



SCENA IV

CARLO.

CARLO - Così, Carlo reddiva. Il riso amaro
Del suo nemico e dell'età ventura
Gli stava innanzi; ma l'avea giurato,
Egli in Francia reddia. - Qual de' miei prodi,
Qual de' miei fidi, per consiglio o prego,
Smosso m'avria dal mio proposto? E un solo,
Un uom di pace, uno stranier, m'apporta
Novi pensier! No: quei che in petto a Carlo
Rimette il cor, non è costui. La stella
Che scintillava al mio partir, che ascosa
Stette alcun tempo, io la riveggo. Egli era
Un fantasma d'error quel che parea
Dall'Italia rispingermi; bugiarda
Era la voce che diceami in core:
No, mai, no, rege esser non puoi nel suolo
Ove nacque Ermengarda. - Oh! del tuo sangue
Mondo son io; tu vivi: e perché dunque
Ostinata così mi stavi innanzi,
Tacita, in atto di rampogna, afflitta,
Pallida, e come dal sepolcro uscita?
Dio riprovata ha la tua casa, ed io
Starle unito dovea? Se agli occhi miei
Piacque Ildegarde, al letto mio compagna
Non la chiamava alta ragion di regno?
Se minor degli eventi è il femminile
Tuo cor, che far poss'io? Che mai faria
Colui che tutti, pria d'oprar, volesse
Prevedere i dolori? Un re non puote
Correr l'alta sua via, senza che alcuno
Cada sotto il suo piè. Larva cresciuta
Nel silenzio e nell'ombra, il sol si leva,
Squillan le trombe; ti dilegua.



SCENA V

CARLO, CONTI e VESCOVI.

CARLO - A dura
Prova io vi posi, o miei guerrier; vi tenni
A perigli ozïosi, a patimenti
Che parean senza onor: ma voi fidaste
Nel vostro re, voi gli ubbidiste come
In un dì di battaglia. Or della prova
È giunto il fine; e un guiderdon s'appressa
Degno de' Franchi. Al sol nascente, in via
Una schiera porrassi. - Eccardo, il duce
Tu ne sarai. - Dell'inimico in cerca
N'andranno, e tosto il giungeran là dove
Ei men s'aspetta. Ordin più chiari, Eccardo,
Io ti darò. Nel longobardo campo
Ho amici assai; come li scerna, e d'essi
Ti valga, udrai. Da queste Chiuse il resto
Voi sniderete di leggier: noi tosto
Le passerem senza contrasto, e tutti
Ci rivedremo in campo aperto. - Amici!
Non più muraglie, né bastie, né frecce
Da' merli uscite, e feritor che rida
Da' ripari impunito, o che improvviso
Piombi su noi; ma insegne aperte al vento,
Destrier contra destrier, genti disperse
Nel piano, e petti non da noi più lunge
Che la misura d'una lancia. Il dite
A' miei soldati; dite lor, che lieto
Vedeste il re, siccome il dì che certa
La vittoria predisse in Eresburgo;
Che sian pronti a pugnar; che di ritorno
Si parlerà dopo il conquisto, e quando
Fia diviso il bottin. Tre giorni; e poi
La pugna e la vittoria; indi il riposo
Là nella bella Italia, in mezzo ai campi
Ondeggianti di spighe, e ne' frutteti
Carchi di poma ai padri nostri ignote;
Fra i tempii antichi e gli atrii, in quella terra
rallegrata dai canti, al sol diletta,
Che i signori del mondo in sen racchiude,
E i martiri di Dio; dove il supremo
Pastore alza le palme, e benedice
Le nostre insegne; ove nemica abbiamo
Una piccola gente, e questa ancora
Tra sé divisa, e mezza mia; la stessa
Gente su cui due volte il mio gran padre
Corse; una gente che si scioglie. Il resto
Tutto è per noi, tutto ci aspetta. - Intento,
Dalle vedette sue, miri il nemico
Moversi il nostro campo; e si rallegri.
Sogni il nostro fuggir, sogni del tempio
La scellerata preda, in sua man servo
Sogni il sommo Levita, il comun padre,
Il nostro amico, in fin che giunga Eccardo,
Risvegliator non aspettato. - E voi,
Vescovi santi e Sacerdoti, al campo
Intimate le preci. A Dio si voti
Questa impresa, ch'è sua. Come i miei Franchi,
Umiliati nella polve, innanzi
Al Re de' regi abbasseran la fronte,
Tale i nemici innanzi a lor nel campo.


Fine dell'atto secondo




ATTO TERZO

SCENA I

Campo de' Longobardi. Piazza dinanzi alla tenda di Adelchi.

ADELCHI, ANFRIDO.

ANFRIDO - (che sopraggiunge) Signor!

ADELCHI - Diletto Anfrido; ebben, che fanno
Codesti Franchi? non dan segno ancora
Le tende al tutto di levar?

ANFRIDO - Nessuno
Finora: immoti tuttavia si stanno,
Quali sull'alba li vedesti, quali
Son da tre dì, poi che le prime schiere
Cominciar la ritratta. Una gran parte
Scorsi del vallo, esaminando; ascesi
Una torre, e guatai: stretti li vidi
In ordinanza, folti, all'erta, in atto
Di chi assalir non pensa, ed in sospetto
Sta d'un assalto; e più si guarda, quanto
Più scemato è di forze; e senza offesa
Ritrarsi agogna, ed il momento aspetta.

ADELCHI - E lo potrà, pur troppo! Ei parte, il vile
Offensor d'Ermengarda, ei che giurava
Di spegner la mia casa; ed io non posso
Spingergli addosso il mio destrier, tenerlo,
Dibattermi con esso. e riposarmi
Sull'armi sue! Non posso! In campo aperto
Stargli a fronte, non posso! In queste Chiuse,
La fé de' pochi che a guardarle io scelsi,
Il cor di quelli ch'io prendea tra i pochi,
Compagni alle sortite, alla salvezza
Poté bastar d'un regno: i traditori
Stetter lontani dalla pugna, inerti,
Ma contenuti. In campo aperto, al Franco
Abbandonato da costor sarei,
Solo coi pochi. Oh vil trionfo! Il messo
Che mi dirà: Carlo è partito, un lieto
Annunzio mi darà: gioia mi fia
Che lunge ei sia dalla mia spada!

ANFRIDO - O dolce
Signor, ti basti questa gloria. Come
Un vincitor sopra la preda, ei scese
Su questo regno, e vinto or torna; ei vinto
Si confessò quando implorò la pace,
Quando il prezzo ne offerse; e tu sei quello
Che l'hai respinto. Il padre tuo n'esulta;
Tutto il campo il confessa: i fidi tuoi
Alteri van della tua gloria, alteri
Di dividerla teco; e quei codardi
Che a non amarti si dannar, temerti
Dovranno or più che mai.

ADELCHI - La gloria? il mio
Destino è d'agognarla, e di morire
Senza averla gustata. Ah no! codesta
Non è ancor gloria, Anfrido. Il mio nemico
Parte impunito; a nuove imprese ei corre;
Vinto in un lato, ei di vittoria altrove
Andar può in cerca; ei che su un popol regna
D'un sol voler, saldo, gittato in uno,
Siccome il ferro del suo brando; e in pugno
Come il brando lo tiensi. Ed io sull'empio
Che m'offese nel cor, che per ammenda
Il mio regno assalì, compier non posso
La mia vendetta! Un'altra impresa, Anfrido,
Che sempre increbbe al mio pensier, né giusta
Né gloriosa, si presenta; e questa
Certa ed agevol fia.

ANFRIDO - Torna agli antichi
Disegni il re?

ADELCHI - Dubbiar ne puoi? Securo
Dalle minacce d'esti Franchi, incontro
L'apostolico sire il campo tosto
Ei moverà: noi guiderem sul Tebro
Tutta Longobardia, pronta, concorde
Contro gl'inermi, e fida allor che a certa
E facil preda la conduci. Anfrido,
Qual guerra! e qual nemico! Ancor ruine
Sopra ruine ammucchierem: l'antica
Nostr'arte è questa: ne' palagi il foco
Porremo e ne' tuguri; uccisi i primi,
I signori del suolo, e quanti a caso
Nell'asce nostre ad inciampar verranno,
Fia servo il resto, e tra di noi diviso;
E ai più sleali e più temuti, il meglio
Toccherà della preda. - Oh! mi parea,
Pur mi parea che ad altro io fossi nato,
Che ad esser capo di ladron; che il cielo
Su questa terra altro da far mi desse
Che, senza rischio e senza onor, guastarla.
- O mio diletto! O de' miei giorni primi,
De' giochi miei, dell'armi poi, de' rischi
Solo compagno e de' piacer; fratello
Della mia scelta, innanzi a te soltanto
Tutto vola sui labbri il mio pensiero.
Il mio cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda
Alte e nobili cose; e la fortuna
Mi condanna ad inique; e strascinato
Vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
Come il germe caduto in rio terreno,
E balzato dal vento.

ANFRIDO - Alto infelice!
Reale amico! Il tuo fedel t'ammira,
E ti compiange. Toglierti la tua
Splendida cura non poss'io, ma posso
Teco sentirla almeno. Al cor d'Adelchi
Dir che d'omaggi, di potenza e d'oro
Sia contento, il poss'io? dargli la pace
De' vili, il posso? e lo vorrei, potendo?
- Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,
Finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso
Comincia appena; e chi sa dir, quai tempi,
Quali opre il cielo ti prepara? Il cielo
Che re ti fece, ed un tal cor ti diede.

(Anfrido si ritira)



SCENA II.

ADELCHI, DESIDERIO.

DESIDERIO - Figlio, a te, rege qual son io, m'è tolto
Esser largo d'onor: farti più grande
Nessun mortale il può; ma un premio io tengo
Caro alla tua pietà, la gioia e l'alte
Lodi d'un padre. Salvator d'un regno,
La tua gloria or comincia: altro più largo
E agevol campo le si schiude. I dubbi,
Ed il timor, che a' miei disegni un giorno
Tu frapponevi, ecco, gli ha sciolti il tuo
Braccio; ogni scusa il tuo valor ti fura.
Dissipator di Francia! io ti saluto
Conquistator di Roma: al nobil serto
Che non intero mai passò sul capo
Di venti re, tu di tua man porrai
L'ultima fronda, e la più bella.

ADELCHI - A quale
Tu vogli impresa, il tuo guerriero, o padre,
Ubbidiente seguiratti.

DESIDERIO - E a tanto
Acquisto, o figlio, ubbidienza sola
Spinger ti può?

ADELCHI - Questa è in mia mano; e intera
L'avrai, fin ch'io respiro.

DESIDERIO - Ubbidiresti
Biasmando?

ADELCHI - Ubbidirei.

DESIDERIO - Gloria e tormento
Della canizie mia, braccio del padre
Nella battaglia, e ne' consigli inciampo!
Sempre così, sempre fia d'uopo a forza
Traggerti alla vittoria?



SCENA III

Uno SCUDIERO frettoloso e atterrito, e detti.

LO SCUDIERO - I Franchi! i Franchi!

DESIDERIO - Che dici, insano?

UN ALTRO SCUDIERO - I Franchi, o re.

DESIDERIO - Che Franchi?

(la scena s'affolla di Longobardi fuggitivi)
(entra Baudo)

ADELCHI - Baudo, che fu?

BAUDO - Morte e sventura! Il campo
È invaso e rotto d'ogni parte: al dorso
Piombano i Franchi ad assalirci.

DESIDERIO - I Franchi!
Per qual via?

BAUDO - Chi lo sa?

ADELCHI - Corriamo; ei fia
Un drappello sbandato.

(in atto di partire)

BAUDO - Un'oste intera:
Gli sbandati siam noi: tutto è perduto.

DESIDERIO - Tutto è perduto?

ADELCHI - Ebben, compagni, i Franchi?
Non siamo noi qui per essi? Andiam: che importa
Da che parte sian giunti? I nostri brandi,
Per riceverli, abbiamo. I brandi in pugno!
Ei gli han provati: è una battaglia ancora:
Non v'è sorpresa pel guerrier: tornate;
Via, Longobardi, indietro; ove correte,
Per Dio? La via che avete presa è infame:
Il nemico è di là. Seguite Adelchi.

(entra Anfrido.)

Anfrido!

ANFRIDO - O re, son teco.

ADELCHI - (avviandosi) O padre; accorri.
Veglia alle Chiuse.

(parte seguito da Anfrido, da Baudo e da alcuni Longobardi.)

DESIDERIO - (ai fuggitivi che attraversano la scena) Sciagurati! almeno
Alle Chiuse con me: se tanto a core
Vi sta la vita, ivi son torri e mura
Da porla in salvo.

(sopraggiungono soldati fuggitivi dalla parte opposta a quella da cui è partito Adelchi)

UN SOLDATO FUGGITIVO - O re, tu qui? Deh! fuggi.

(attraversa le scene.)

DESIDERIO - Infame! al re questo consiglio? E voi,
Da chi fuggite? In abbandon le Chiuse
Voi lasciate così? Che fu? Viltade
V'ha tolto il senno.

(i soldati continuano a fuggire. Desiderio appunta la spada al petto d'uno di essi e lo ferma)

Senza cor, se il ferro
Fuggir ti fa, questo è pur ferro, e uccide
Come quello de' Franchi. Al re favella:
Perché fuggite dalle Chiuse?

SOLDATI - I Franchi
Dall'altra parte hanno sorpreso il campo;
Gli abbiam veduti dalle torri. I nostri
Son dispersi.

DESIDERIO - Tu menti. Il figliuol mio
Gli ha radunati, e li conduce incontro
A que' pochi nemici. Indietro!

SOLDATI - O sire,
Non è più tempo: e' non son pochi; e' giungono;
Scampo non v'è: schierati ei sono; e i nostri
Chi qua, chi là, senz'arme, in fuga: Adelchi
Non li raduna: siam traditi.

DESIDERIO - (ai fuggitivi che s'affollano) O vili!
Alle Chiuse salviamci; ivi a difesa
Restar si può.

UN SOLDATO - Sono deserte: i Franchi
Le passeranno; e noi siam posti intanto
Tra due nemici: un piccol varco appena
Resta alla fuga: or or fia chiuso.

DESIDERIO - Ebbene;
Moriam qui da guerrier.

UN ALTRO SOLDATO - Siamo traditi;
Siam venduti al macello.

UN ALTRO SOLDATO - In giusta guerra
Morir vogliam, come a guerrier conviensi,
Non isgozzati a tradimento.

MOLTI SOLDATI - I Franchi!

ALTRO SOLDATO - Fuggiamo!

DESIDERIO - Ebben, correte; anch'io con voi
Fuggo: è destin di chi comanda ai tristi.

(s'avvia coi fuggitivi.)



SCENA IV

Parte del campo abbandonato da' Longobardi, sotto alle Chiuse

CARLO circondato da CONTI FRANCHI, SVARTO.

CARLO - Ecco varcate queste Chiuse. A Dio
Tutto l'onor. Terra d'Italia, io pianto
Nel tuo sen questa lancia, e ti conquisto.
È una vittoria senza pugna. Eccardo
Tutto ha già fatto.

(A uno de' Conti)

Su quel colle ascendi,
Guarda se vedi la sua schiera, e tosto
Vieni a darmene avviso.

(il Conte parte.)



SCENA V

RUTLANDO e detti.

CARLO - E che? Rutlando,
Tu riedi dal conflitto?

RUTLANDO - O re, ti chiamo
In testimonio, e voi Conti, che in questo
Vil giorno il brando io non cavai: ferisca
Oggi chi vuol: gregge atterrito e sperso,
Io non l'inseguo.

CARLO - E non trovasti alcuno
Che mostrasse la fronte?

RUTLANDO - Incontro io vidi
Un drappello venirmi, ed alla testa
Più duchi avea: sopra lor corsi; e quelli
Calar tosto i vessilli, e fecer segni
Di pace, e amici si gridaro. - Amici?
Noi l'eravam più assai, quando alle Chiuse
Ci scontravam - Chiesero il re; le spalle
Lor volsi; or li vedrai. No: s'io sapea
A qual nemico si venia, per certo
Mosso di Francia non sarei.

CARLO - T'accheta,
Prode tra' prodi miei. Bello è d'un regno,
Sia comunque, l'acquisto; in lungo, il vedi,
Non andrà questo; e non temer che manchi
Da far: Sassonia non è vinta ancora.

(entra il Conte spedito da Carlo.)

CONTE - (a Carlo) Eccardo è in campo, e verso noi s'avanza;
Ei procede in battaglia: i Longobardi,
Tra il nostro campo e il suo, sfilati, in folla,
Sfuggono a destra ed a sinistra: il piano,
Che da lui ci divide, or or fia sgombro.

CARLO - Esser dovea così.

CONTE - Vidi un drappello,
Che s'arrendette ai nostri; e a questa volta
Venia correndo.

ALTRO CONTE - È qui.

CARLO - Svarto, son quelli
Che m'annunziasti?

SVARTO - Il son. - Compagni!



SCENA VI

ILDECHI ed altri DUCHI, GIUDICI, SOLDATI LONGOBARDI e detti.

ILDECHI - O Svarto,
Il re!

CARLO - Son desso.

ILDECHI - (s'inginocchia e mette le sue mani tra quelle di Carlo) O re de' Franchi e nostro!
Nella tua man vittoriosa accogli
La nostra man devota, e dalla bocca
De' Longobardi tuoi l'omaggio accetta,
A te promesso da gran tempo.

CARLO - Svarto,
Conte di Susa...

SVARTO - O re, qual grazia?...

CARLO - Il nome
Dimmi di questi a me devoti.

SVARTO - Il duca
Di Trento Ildechi, di Cremona Ervigo,
Ermenegildo di Milano, Indolfo
Di Pisa, Vila di Piacenza: questi
Giudici son; questi guerrieri.

CARLO - Alzatevi,
Fedeli miei, giudici e duchi, ognuno
Nel grado suo, per ora. I primi istanti
Che di riposo avremo, io li destino
Al guiderdon de' vostri merti: il tempo
Questo è d'oprar. Prodi Fedeli, ai vostri
Fratei tornate; dite lor, che ad una
Gente germana, di german guerrieri
Capo, guerra io non porto: una famiglia
Riprovata dal ciel, del solio indegna,
A balzarnela io venni. Al vostro regno
Non fia mutato altro che il re. Vedete
Quel sol? qualunque, in pria ch'ei scenda, omaggio
In mia mano a far venga, o de' Fedeli
Franchi, o di voi, nel grado suo serbato,
Mio Fedel diverrà. Chi a me dinanzi
Tragga i due che fur regi, un premio aspetti
Pari all'opra.

(i Longobardi partono.)

CARLO - (a Rutlando in disparte) Rutlando, ho io chiamati
Prodi costor?

RUTLANDO - Pur troppo.

CARLO - Errato ha il labbro
Del re. Questa parola ai Franchi miei
In guiderdon la serbo. Oh! possa ognuno
Dimenticar ch'io proferita or l'abbia.

(s'avvia.)



SCENA VII

ANFRIDO ferito, portato da due FRANCHI, e detti.

RUTLANDO - Ecco un nemico. Ove si pugna?

UN FRANCO - Il solo
Che pugnasse, è costui.

CARLO - Solo?

IL FRANCO - Gran parte
Gettan l'arme, o si danno; in fuga a torme
Altri ne van. Lento ritrarsi e solo
Costui vedemmo, che alle barde, all'armi,
Uom d'alto affar parea: quattro guerrieri
Da un drappel ci spiccammo, e a tutta briglia
Sull'orme sue, pei campi. Egli inseguito
Nulla affrettò della sua fuga; e quando
Sopra gli fummo, si rivolse. Arrenditi,
Gli gridiamo; ei ne affronta: al più vicino
Vibra l'asta, e lo abbatte: la ritira,
Prostra il secondo ancor: ma nello stesso
Ferir, percosso dalle nostre ei cadde.
Quando fu al suol, tese le mani in atto
Di supplicante, e ci pregò che, posto
Ogni rancor, sull'aste nostre ei fosse
Portato lungi dal tumulto, in loco
Dove in pace ei si muoia. Invitto sire,
Meglio da far quivi non c'era: al prego
Ci arrendemmo.

CARLO - E ben feste: a chi resiste
L'ire vostre serbate.

(a Svarto)

Il riconosci?

SVARTO - Anfrido egli è, scudier d'Adelchi.

CARLO - Anfrido,
Tu solo andavi contro a lor?

ANFRIDO - Bisogno
C'è di compagni per morir?

CARLO - Rutlando,
Ecco un prode.

(ad Anfrido)

O guerrier, perché gittavi
Una vita sì degna? e non sapevi
Che nostra divenia? che, a noi cedendo,
Guerrier restavi e non prigion di Carlo?

ANFRIDO - Io viver tuo guerrier, quand'io potea
Morir quello d'Adelchi? Al ciel diletto
È Adelchi, o re. Da questo giorno infame
Trarrallo il ciel, lo spero, e ad un migliore
Vorrà serbarlo; ma, se mai... rammenta
Che, regnante o caduto, è tale Adelchi,
Che chi l'offende, il Dio del cielo offende
Nella più pura immagin sua. Lo vinci
Tu di fortuna e di poter, ma d'alma
Nessun mortale: un che si muor tel dice.

CARLO - (ai Conti) Amar così deve un Fedel.

(ad Anfrido)

Tu porti
Teco la nostra stima. È il re de' Franchi
Che ti stringe la man, d'onore in segno,
E d'amistà. Nel suol de' prodi, o prode,
Il tuo nome vivrà; le franche donne
L'udran dal nostro labbro, e il ridiranno
Con riverenza e con pietà: riposo
Ti pregheran. Fulrado, a questo pio
Presta gli estremi ufizi.

(ai soldati che rimangono)

In lui vedete
Un amico del re. Conti, ad Eccardo
Incontro andiam: nobil saluto ei merta.



SCENA VIII

Bosco solitario

DESIDERIO, VERMONDO, altri LONGOBARDI fuggiaschi in disordine.

VERMONDO - Siamo in salvo, o mio re: scendi, e su queste
Erbe l'antico e venerabil fianco
Riposa alquanto. O mio signor, ripiglia
Gli affaticati spirti. Assai dal campo
Siam lunge, e fuor di strada: al nostro orecchio
Lo scellerato mormorio non giunge.
Cinto non sei che di leali.

DESIDERIO - E Adelchi?

VERMONDO - Or or fia qui, lo spero; alla sua traccia
Più d'un fido inviai, che lo ritragga
Dall'empio rischio, a miglior pugna il serbi,
E a questa posta de' leali il guidi.

DESIDERIO - O mio Vermondo, il vecchio rege è stanco,
È stanco - dalla fuga.

VERMONDO - Ahi, traditori!

DESIDERIO - Vili! Nel fango han trascinato i bianchi
Capelli del lor re; l'hanno costretto,
Come un vile, a fuggir. - Fuggire! e quinci
Non sorgerò che per fuggir di nuovo?
A che pro? dove? in traccia d'un sepolcro
Privo di gloria? - E comple? Io, per costoro,
Fuggir? Chi il regno mi rapì, mi tolga
La vita. Ebben! quand'io sarò sotterra,
Che mi farà codesto Carlo?

VERMONDO - O nostro
Re per sempre, fa cor: son molti i fidi;
La sorpresa gli ha spersi; a te d'intorno
Li chiamerà l'onor; ti restan tante
Città munite; e Adelchi vive, io spero.

DESIDERIO - Maledetto quel dì che sopra il monte
Alboino salì, che in giù rivolse
Lo sguardo, e disse: Questa terra è mia!
Una terra infedel, che sotto i piedi
De' successori suoi doveva aprirsi,
Ed ingoiarli! Maledetto il giorno,
Che un popol vi guidò, che la dovea
Guardar così! che vi fondava un regno,
Che un'esecranda ora d'infamia ha spento!

VERMONDO - Il re!

DESIDERIO - Figlio, sei tu?



SCENA IX

ADELCHI, e detti.

ADELCHI - Padre, ti trovo!

(s'abbracciano.)

DESIDERIO - S'io t'avessi ascoltato!

ADELCHI - Oh! che rammenti?
Padre, tu vivi; un alto scopo ancora
È serbato a' miei dì; spender li posso
In tua difesa. - O mio signor, la lena
Come ti regge?

DESIDERIO - Oh! per la prima volta
Sento degli anni e degli stenti il peso.
Di gravi io ne portai, ma allor non era
Per fuggire un nemico.

ADELCHI - (ai Longobardi) Ecco, o guerrieri,
Il vostro re.

UN LONGOBARDO - Noi morirem per lui!

MOLTI LONGOBARDI - Tutti morrem!

ADELCHI - Quand'è così, salvargli
Forse potrem più che la vita. - E a questa
Causa, or sì dubbia ma ognor sacra, afflitta
Ma non perduta, voi legate ancora
La vostra fede?

UN LONGOBARDO - A' tuoi guerrieri, Adelchi,
Risparmia i giuri: ai longobardi labbri
Disdicon oggi, o re: somiglian troppo
Allo spergiuro. Opre ci chiedi: il solo
Segno de' fidi è questo omai.

ADELCHI - V'ha dunque
De' Longobardi ancora! - Ebben; corriamo
Sopra Pavia; fuggiam, salviam per ora
La nostra vita, ma per farla in tempo
Cara costar; donarla al tradimento
Non è valor. Quanti potrem dispersi
Raccoglierem per via; misti con noi
Ritorneran soldati. Entro Pavia,
A riposo, a difesa, o padre, intanto
Restar potrai: cinta di mura intatte,
Ricca d'arme è Pavia: due volte Astolfo
Vi si chiuse fuggiasco, e re ne uscìo.
Io mi getto in Verona. O re, trascegli
L'uom che restar deva al tuo fianco.

DESIDERIO - Il duca
D'Ivrea.

ADELCHI - (a Guntigi che s'avanza) Guntigi, io ti confido il padre.
Il duca di Verona ov'è?

GISELBERTO - (si avanza) Tra i fidi.

ADELCHI - Meco verrai: nosco trarrem Gerberga.
Triste colui che nella sua sventura
Gli sventurati obblia! Baudo, il tuo posto
Lo sai: chiuditi in Brescia; ivi difendi
Il tuo ducato, ed Ermengarda. - E voi,
Alachi, Ansuldo, Ibba, Cunberto, Ansprando,

(li sceglie tra la folla)

Tornate al campo: oggi pur troppo ai Franchi
Ponno senza sospetto i Longobardi
Mischiarsi: esaminate i duchi, i conti
Esplorate, e i guerrier: dai traditori
Discernete i sorpresi, e a quei che mesti
Vergognosi, vedrete da codesto
Orrido sogno di viltà destarsi,
Dite ch'è tempo ancor, che i re son vivi,
Che si combatte, che una via rimane
Di morir senza infamia; e li guidate
Alle città munite. Ei diverranno
Invitti: il brando del guerrier pentito
È ritemprato a morte. Il tempo, i falli
Dell'inimico, il vostro cor, consigli
Inaspettati vi daranno. Il tempo
Porterà la salute; il regno è sperso
In questo dì, ma non distrutto!

(partono gli indicati da Adelchi.)

DESIDERIO - O figlio!
Tu m'hai renduto il mio vigor: partiamo.

ADELCHI - Padre, io t'affido a questi prodi; or ora
Anch'io teco sarò.

DESIDERIO - Che attendi?

ADELCHI - Anfrido.
Ei dal mio fianco si disgiunse, e volle
Seguirmi da lontan; più presso al rischio
Star, per guardarmi; io non potei dal duro
Voler, da tanta fedeltà distorlo.
Seco indugiarmi, di tua vita in forse,
Io non potea: ma tu sei salvo, e quinci
Non partirò, fin ch'ei non giunga.

DESIDERIO - E teco
Aspetterò.

ADELCHI - Padre...

(a un soldato che sopraggiunge)

Vedesti Anfrido?

IL SOLDATO - Re, che mi chiedi?

ADELCHI - O ciel! favella.

IL SOLDATO - Il vidi
Morto cader.

ADELCHI - Giorno d'infamia e d'ira,
Tu se' compiuto! O mio fratel, tu sei
Morto per me! tu combattesti!... ed io...
Crudel! perché volesti ad un periglio
Solo andar senza me? Non eran questi
I nostri patti. Oh Dio!... Dio, che mi serbi
In vita ancor, che un gran dover mi lasci,
Dammi la forza per compirlo. - Andiamo.


CORO

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.


Fine dell'atto terzo




ATTO QUARTO

SCENA I

Giardino del monastero di San Salvatore in Brescia.

ERMENGARDA, sostenuta da due DONZELLE, ANSBERGA.

ERMENGARDA - Qui sotto il tiglio, qui.

(s'adagia sur un sedile)

Come è soave
Questo raggio d'april! come si posa
Sulle frondi nascenti! Intendo or come
Tanto ricerchi il sol colui, che, d'anni
Carco, fuggir sente la vita!

(alle Donzelle)

A voi
Grazie, a voi, che, reggendo il fianco infermo,
Pago feste l'amor ch'oggi mi prese
Di circondarmi ancor di queste aperte
Aure, ch'io prime respirai, del Mella;
Sotto il mio cielo di sedermi, e tutto
Vederlo ancor, fin dove il guardo arriva.
- Dolce sorella, a Dio sacrata madre,
Pietosa Ansberga!

(le porge la mano: le Donzelle si ritirano: Ansberga siede)

- Di tue cure il fine
S'appressa, e di mie pene. Oh! con misura
Le dispensa il Signor. Sento una pace
Stanca, foriera della tomba: incontro
L'ora di Dio più non combatte questa
Mia giovinezza doma; e dolcemente,
Più che sperato io non avrei, dal laccio
L'anima, antica nel dolor, si solve.
L'ultima grazia ora ti chiedo: accogli
Le solenni parole, i voti ascolta
Della morente, in cor li serba, e puri
Rendili un giorno a quei ch'io lascio in terra.
- Non turbarti, o diletta: oh! non guardarmi
Accorata così. Di Dio, nol vedi?,
Questa è pietà. Vuoi che mi lasci in terra
Pel dì che Brescia assaliran? per quando
Un tal nemico appresserà? che a questo
Ineffabile strazio Ei qui mi tenga?

ANSBERGA - Cara infelice, non temer: lontane
Da noi son l'armi ancor: contra Verona,
Contra Pavia, de' re, dei fidi asilo,
Tutte le forze sue quell'empio adopra;
E, spero in Dio, non basteranno. Il nostro
Nobil cugin, l'ardito Baudo, il santo
Vescovo Ansvaldo, a queste mura intorno
Del Benaco i guerrieri e delle valli
Han radunati; e immoti stanno, accinti
A difesa mortal. Quando Verona
Cada e Pavia (Dio, nol consenti!) un novo
Lungo conflitto...

ERMENGARDA - Io nol vedrò: disciolta
Già d'ogni tema e d'ogni amor terreno,
Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre
Io pregherò, per quell'amato Adelchi,
Per te, per quei che soffrono, per quelli
Che fan soffrir, per tutti. - Or tu raccogli
La mia mente suprema. Al padre, Ansberga,
Ed al fratel, quando li veda - oh questa
Gioia negata non vi sia! - dirai
Che, all'orlo estremo della vita, al punto
In cui tutto s'obblia, grata e soave
Serbai memoria di quel dì, dell'atto
Cortese, allor che a me tremante, incerta
Steser le braccia risolute e pie,
Né una reietta vergognar; dirai
Che al trono del Signor, caldo, incessante,
Per la vittoria lor stette il mio prego;
E s'Ei non l'ode, alto consiglio è certo
Di pietà più profonda: e ch'io morendo
Gli ho benedetti. - Indi, sorella... oh! questo
Non mi negar... trova un Fedel che possa,
Quando che sia, dovunque, a quel feroce
Di mia gente nemico approssimarsi...

ANSBERGA - Carlo!

ERMENGARDA - Tu l'hai nomato: e sì gli dica:
Senza rancor passa Ermengarda: oggetto
D'odio in terra non lascia, e di quel tanto
Ch'ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
Ch'Egli a nessun conto ne chieda, poi
Che dalle mani sue tutto ella prese.
Questo gli dica, e... se all'orecchio altero
Troppo acerba non giunge esta parola...
Ch'io gli perdono. - Lo farai?

ANSBERGA - L'estreme
Parole mie riceva il ciel, siccome
Queste tue mi son sacre.

ERMENGARDA - Amata! e d'una
Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
Cui mentre un soffio l'animò, sì larga
Fosti di cure, non ti sia ribrezzo
Prender l'estrema; e la componi in pace.
Questo anel che tu vedi alla mia manca,
Scenda seco nell'urna; ei mi fu dato
Presso all'altar, dinanzi a Dio. Modesta
Sia l'urna mia: - tutti siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? - ma porti
Di regina le insegne: un sacro nodo
Mi fe' regina: il don di Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai: come la vita,
Dee la morte attestarlo.

ANSBERGA - Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! - Adempi
Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina Iddio,
Cittadina divieni; e sia la casa
Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e d'ogni umana
Cosa l'obblio.

ERMENGARDA - Che mi proponi, Ansberga?
Ch'io mentisca al Signor! Pensa ch'io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,
Ma d'un mortal. - Felici voi! felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de' regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all'uom! Ma - d'altri io sono.

ANSBERGA - Oh mai
Stata nol fossi!

ERMENGARDA - Oh mai! ma quella via,
Su cui ci pose il ciel, correrla intera
Convien, qual ch'ella sia, fino all'estremo.
- E, se all'annunzio di mia morte, un novo
Pensier di pentimento e di pietade
Assalisse quel cor? Se, per ammenda
Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia
Ei richiedesse come sua, dovuta
Alla tomba real? - Gli estinti, Ansberga,
Talor de' vivi son più forti assai.

ANSBERGA - Oh! nol farà.

ERMENGARDA - Tu pia, tu poni un freno
Ingiurioso alla bontà di Lui,
Che tocca i cor, che gode, in sua mercede,
Far che ripari, chi lo fece, il torto?

ANSBERGA - No, sventurata, ei nol farà. - Nol puote.

ERMENGARDA - Come? perché nol puote?

ANSBERGA - O mia diletta,
Non chieder oltre; obblia.

ERMENGARDA - Parla! alla tomba
Con questo dubbio non mandarmi.

ANSBERGA - Oh! l'empio
il suo delitto consumò.

ERMENGARDA - Prosegui!

ANSBERGA - Scaccialo al tutto dal tuo cor. Di nuove
Inique nozze ei si fe' reo: sugli occhi
Degli uomini e di Dio, l'inverecondo,
Come in trionfo, nel suo campo ei tragge
Quella Ildegarde sua...

(Ermengarda sviene)

Tu impallidisci!
Ermengarda! non m'odi? Oh ciel! sorelle,
Accorrete! oh che feci!

(entrano le due Donzelle e varie Suore)

Oh! chi soccorso
Le dà? Vedete: il suo dolor l'uccide.

PRIMA SUORA - Fa core; ella respira.

SECONDA SUORA - Oh sventurata!
A questa età, nata in tal loco, e tanto
Soffrir!

UNA DONZELLA - Dolce mia donna!

PRIMA SUORA - Ecco le luci
Apre.

ANSBERGA - Oh che sguardo! Ciel! che fia?

ERMENGARDA - (in delirio) Scacciate
Quella donna, o scudieri! Oh! non vedete
Come s'avanza ardimentosa, e tenta
Prender la mano al re?

ANSBERGA - Svegliati: oh Dio!
Non dir così; ritorna in te; respingi
Questi fantasmi; il nome santo invoca.

ERMENGARDA - (in delirio) Carlo! non lo soffrir: lancia a costei
Quel tuo sguardo severo. Oh! tosto in fuga
Andranne: io stessa, io sposa tua, non rea
Pur d'un pensiero, intraveder nol posso
Senza tutta turbarmi. - Oh ciel! che vedo?
Tu le sorridi? Ah no! cessa il crudele
Scherzo; ei mi strazia, io nol sostengo. - O Carlo,
Farmi morire di dolor, tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. - Amor tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri mio: secura
Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l'ebbrezza del mio cor segreto.
- Scacciala, per pietà! Vedi; io la temo,
Come una serpe: il guardo suo m'uccide.
- Sola e debol son io: non sei tu il mio
Unico amico? Se fui tua, se alcuna
Di me dolcezza avesti... oh! non forzarmi
A supplicar così dinanzi a questa
Turba che mi deride... Oh cielo! ei fugge!
Nelle sue braccia!... io muoio!...

ANSBERGA - Oh! mi farai
Teco morir!

ERMENGARDA - (in delirio) Dov'è Bertrada? io voglio
Quella soave, quella pia Bertrada!
Dimmi, il sai tu? tu, che la prima io vidi,
Che prima amai di questa casa, il sai?
Parla a questa infelice: odio la voce
D'ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all'amor somiglia.
- Lascia ch'io ti rimiri, e ch'io mi segga
Qui presso a te: son così stanca! Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non partir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch'io mi levi
Inebbriata dal mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia del destarsi. Oh giorni!...
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S'io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh! consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M'inonda, e il getta nell'obblio.

(ricade.)

ANSBERGA - Tranquilla
Ella moria!

ERMENGARDA - (in delirio) Se fosse un sogno! e l'alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle di pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo,
Di poca fe' mi rampognasse!

(ricade in letargo.)

ANSBERGA - O Donna
Del ciel, soccorri a questa afflitta!

PRIMA SUORA - Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.

ANSBERGA - O suora!
Ermengarda! Ermengarda!

ERMENGARDA - (riavendosi) Oh! Chi mi chiama?

ANSBERGA - Guardami; io sono Ansberga: a te d'intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie,
Che per la pace tua pregano.

ERMENGARDA - Il cielo
Vi benedica. - Ah! sì: questi son volti
Di pace e d'amistà. - Da un tristo sogno
Io mi risveglio.

ANSBERGA - Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.

ERMENGARDA - È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol traetemi: l'estrema
Fatica è questa che vi doma tutte
Son contate lassù. - Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch'Ei giunge.


CORO

Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de' santi ascendere
Santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida
D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:

Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;

E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de' veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;

E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!

Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;

Tale al pensier, cui l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che, reduce,
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;

Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,

Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.

Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,

Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così

Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.



SCENA II

Notte. Interno d'un battifredo sulle mura di Pavia. Un'armatura nel mezzo

GUNTIGI, AMRI.

GUNTIGI - Amri, sovvienti di Spoleti?

AMRI - E posso
Obbliarlo, signor?

GUNTIGI - D'allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni: ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?

AMRI - Ubbidienza e fede
Fino alla morte. - O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?

GUNTIGI - No; ma l'istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.

AMRI - Imponi.

GUNTIGI - Tocca quest'armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Né per timor né per lusinghe, fia,
Mai, dal tuo labbro rivelato.

AMRI - (ponendo le mani sull'armi) Il giuro:
E se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d'un Romano.

GUNTIGI - Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
È la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco che al re. Su questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn'altro
Guerriero allontanai. Tendi l'orecchio,
E osserva al lume della luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà... Perché così mi guardi
Attonito? egli è Svarto, un che tra noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perché seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo, se un respiro ascolti,
Entra ed avvisa.

AMRI - Come imponi, io tutto
Farò.

GUNTIGI - Tu servi a gran disegno, e grande
Fia il premio.

(Amri parte.)



SCENA III

GUNTIGI.

GUNTIGI - Fedeltà? - Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all'estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar. - Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m'invia, mi vuole amico,
M'invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia...
A che, sempre respinta, ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all'importuno? e sempre in mezzo
De' miei pensier si getta, e la consulta
Ne turba? - Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir. - Chi 'l dice?
Quello per cui si muor. - Ma l'universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d'onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici. - Davver? Ma, s'egli è degno,
Perché è mendico e derelitto? E voi
Che l'ammirate, chi vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l'ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que' felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m'udrei: rigetta
L'offerte indegne; de' tuoi re dividi,
Qual ch'ella sia, la sorte. - E perché tanto
A cor questo vi sta? Perché, s'io cado,
Io vi farò pietà; ma se, tra mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v'aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio. - Oh! Carlo anch'egli
In cor ti spregerà. - Chi ve l'ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m'onori, il core a voi
Chi 'l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo, a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d'estinta
Fortuna, o favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; né di toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto: e un dì saprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perché, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch'ei traditori, e Carlo
Noma Fedeli... oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,
Ch'io quel non sia.



SCENA IV

GUNTIGI, SVARTO, AMRI.

SVARTO - Guntigi!

GUNTIGI - Svarto!

(ad Amri)

Alcuno
Non incontrasti?

AMRI - Alcun.

GUNTIGI - Qui intorno veglia.

(Amri parte.)



SCENA V

GUNTIGI, SVARTO.

SVARTO - Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.

GUNTIGI - E tu n'hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.

SVARTO - E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D'un popolo e la tua?

GUNTIGI - Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l'ira di nemico a volger pronto
In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me; tosto de' Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio; e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?

SVARTO - Dubbiar ne puoi?

GUNTIGI - Ch'io sappia
Ciò ch'ei desia, ciò ch'ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe' dono altrui;
Né resta a me che un titol vano.

SVARTO - E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
lmplacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l'hai lasciato
Che per salir. Carlo a' tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti: il Conte,
Prendi,

(gli porge un diploma)

sei di Pavia.

GUNTIGI - Da questo istante
Io l'ufizio ne assumo; e fiane accorto
Dall'opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.

SVARTO - Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re; l'impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi: tranne pochi, ognuno
Brama d'uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L'altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell'indugio ancora,
Cadon tutte in un dì, membra disciolte
D'avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro
Ostinato ubbidir manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v'è.

GUNTIGI - Sì, certo
Pavia gli è d'uopo; ed ei l'avrà: domani,
Non più tardi, l'avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà. - Ch'io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda; io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici, e il mio
Nome d'inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.

SVARTO - Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui! - Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insieme seco
Precipitar, son molti ancora? o all'astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L'altra già fu, questa vittoria estrema?

GUNTIGI - Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D'ogni pensier s'affaccia una parola
Che li spaventa: tradimento. Un'altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando...

SVARTO - Ebben, prometti:
Tutti guadagna.

GUNTIGI - Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir; senz'essi
Tutto compir si può.

SVARTO - Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de' Franchi io qui favello
A un suo Fedel; ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d'amici? in una folla
Di salvati da noi?

GUNTIGI - Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto...
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia, non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.

SVARTO - Saggio tu parli e schietto. - Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo; ma d'inciampi è sparsa
E d'insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà. - Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All'opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.

GUNTIGI - La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.

SVARTO - In vita e in morte.

GUNTIGI - Pegno la destra.

(gli porge la destra: Svarto la stringe)

Al re de' Franchi, amico,
Reca l'omaggio mio.

SVARTO - Doman!

GUNTIGI - Domani.
Amri!

(entra Amri.)

È sgombro lo spalto?

AMRI - È sgombro; e tutto
Tace d'intorno.

GUNTIGI - (ad Amri, accennando Svarto) Il riconduci.

SVARTO - Addio.


Fine dell'atto quarto




ATTO QUINTO

SCENA I

Palazzo reale in Verona.

ADELCHI, GISELBERTO, duca di Verona.

GISELBERTO - Costretto, o re, dell'oste intera io vengo
A nunziarti il voler: duchi e soldati
Chiedon la resa. A tutti è noto, e indarno
Celar si volle, che Pavia le porte
Al Franco aprì che il vincitor s'affretta
Sopra Verona; e che pur troppo ei tragge
Captivo il re. Co' figli suoi Gerberga
Già incontro a Carlo uscì, dell'aspro sire
Più ancor fidando nel perdon, che in una
Impotente amistà. Verona attrita
Dal lungo assedio, di guerrier, di scorte
Scema, non forte assai contra il nemico
Che già la stringe, non potrà la foga
Dei sorvegnenti sostener; né quelli
Che l'han difesa fino ad or, se pochi
Ne traggi, o re, vogliono al rischio starsi
Di pugna impari, e di spietato assalto.
Fin che del fare e del soffrir concesso
Era un frutto sperar, fenno e soffriro;
Quanto il dover, quanto l'onor chiedea,
Il diero: ai mali che non han più scopo
Chiedono il fine.

ADELCHI - Esci: la mia risposta
Tra poco avrai.

(Giselberto parte.)



SCENA II

ADELCHI.

ADELCHI - Va, vivi, invecchia in pace;
Resta un de' primi di tua gente: il merti:
Va, non temer; sarai vassallo: il tempo
È pe' tuoi pari. - Anche il comando udirsi
Intimar de' codardi, e di chi trema
Prender la legge! è troppo. Han risoluto!
Voglion, perché son vili! e minacciosi
Li fa il terror; né soffriran che a questo
Furor di codardia s'opponga alcuno,
Che resti un uom tra loro! - Oh cielo! il padre
Negli artigli di Carlo! I giorni estremi
Uomo d'altrui vivrà, soggetto al cenno
Di quella man, che non avria voluto
Come amico serrar; mangiando il pane
Di chi l'offese, e l'ebbe a prezzo! E nulla
Via di cavarlo dalla fossa, ov'egli
Rugge tradito e solo, e chiama indarno
Chi salvarlo non può! nulla! - Caduta
Brescia, e il mio Baudo, il generoso, astretto
Anch'ei le porte a spalancar da quelli
Che non voglion morire. Oh più di tutti
Fortunata Ermengarda! Oh giorni! oh casa
Di Desiderio, ove d'invidia è degno
Chi d'affanno morì! - Di fuor costui,
Che arrogante s'avanza, e or or verrammi
Ad intimar che il suo trionfo io compia;
Qui la viltà che gli risponde, ed osa
Pressarmi; - è troppo in una volta! Almeno
Finor, perduta anche la speme, il loco
V'era all'opra; ogni giorno il suo domani,
Ed ogni stretta il suo partito avea.
Ed ora... ed or, se in sen de' vili un core
Io piantar non potei, potranno i vili
Togliere al forte, che da forte ei pera?
Tutti alfin non son vili: udrammi alcuno;
Più d'un compagno troverò, s'io grido:
Usciam costoro ad incontrar; mostriamo
Che non è ver che a tutto i Longobardi
Antepongon la vita; e... se non altro,
Morrem. - Che pensi? Nella tua rovina
Perché quei prodi strascinar? Se nulla
Ti resta a far quaggiù, non puoi tu solo
Morir? Nol puoi? Sento che l'alma in questo
Pensier riposa alfine: ei mi sorride,
Come l'amico che sul volto reca
Una lieta novella. Uscir di questa
Ignobil calca che mi preme; il riso
Non veder del nemico; e questo peso
D'ira, di dubbio e di pietà, gittarlo!...
Tu, brando mio, che del destino altrui
Tante volte hai deciso, e tu, secura
Mano avvezza a trattarlo... e in un momento
Tutto è finito. - Tutto? Ah sciagurato!
Perché menti a te stesso? Il mormorio
Di questi vermi ti stordisce; il solo
Pensier di starti a un vincitor dinanzi
Vince ogni tua virtù; l'ansia di questa
Ora t'affrange, e fa gridarti: è troppo!
E affrontar Dio potresti? e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi chiami; il posto
Che m'assegnasti, era difficil troppo;
E l'ho deserto! - Empio! fuggire? e intanto,
Per compagnia fino alla tomba, al padre
Lasciar questa memoria; il tuo supremo
Disperato sospir legargli! Al vento,
Empio pensier. - L'animo tuo ripiglia,
Adelchi; uom sii. Che cerchi? In questo istante
D'ogni travaglio il fin tu vuoi: non vedi,
Che in tuo poter non è? - T'offre un asilo
Il greco imperador. Sì; per sua bocca
Te l'offre Iddio: grato l'accetta: il solo
Saggio partito, il solo degno è questo.
Conserva al padre la sua speme: ei possa
Reduce almeno e vincitor sognarti,
Infrangitor de' ceppi suoi, non tinto
Del sangue sparso disperando. - E sogno
Forse non fia: da più profondo abisso
Altri già sorse: non fa patti eterni
Con alcun la fortuna: il tempo toglie
E dà: gli amici, il successor li crea.
- Teudi!



SCENA III

ADELCHI, TEUDI.

TEUDI - Mio re.

ADELCHI - Restano amici ancora
Al re che cade?

TEUDI - Sì: color che amici
Eran d'Adelchi.

ADELCHI - E che partito han preso?

TEUDI - L'aspettano da te.

ADELCHI - Dove son essi?

TEUDI - Qui nel palazzo tuo, lungi dai tristi
A cui sol tarda d'esser vinti appieno.

ADELCHI - Tristo, o Teudi, il valor disseminato
Tra la viltà! - Compagni alla mia fuga
Io questi prodi prenderò: null'altro
Far ne poss'io; nulla ei per me far ponno,
Che seguirmi a Bisanzio. Ah! se avvi alcuno
Cui venga in mente un più gentil consiglio,
Per pietà, me lo dia. - Da te, mio Teudi,
Un più coral servigio, un più fidato
Attendo ancor: resta per ora; al padre
Fa che di me questa novella arrivi:
Ch'io son fuggito, ma per lui; ch'io vivo,
Per liberarlo un dì; che non disperi.
Vieni, e m'abbraccia: a dì più lieti! - Al duca
Di Verona dirai che non attenda
Ordini più da me. - Sulla tua fede
Riposo, o Teudi.

TEUDI - Oh! la secondi il cielo.

(escono dalle parti opposte.)



SCENA IV

Tenda nel campo di Carlo sotto Verona

CARLO, un ARALDO, ARVINO, CONTI
.

CARLO - Vanne, araldo, in Verona; e al duca, a tutti
I suoi guerrier questa parola esponi:
Re Carlo è qui: le porte aprite; egli entra
Grazioso signor; se no, più tarda
L'entrata fia, ma non men certa; e i patti
Quali un solo li detta, e inacerbito.

(l'Araldo parte.)

ARVINO - Il vinto re chiede di parlarti, o sire.

CARLO - Che vuol?

ARVINO - Nol disse; ma pietosa istanza
Egli ne fea.

CARLO - Venga.

(Arvino parte)

Vediam colui,
Che destinata a un'altra fronte avea
La corona di Carlo.

(ai Conti)

Ite: alle mura
La custodia addoppiate; ad ogni sbocco
Si vegli in arme: e che nessun mi sfugga.



SCENA V

CARLO, DESIDERIO.

CARLO - A che vieni, infelice? E che parola
Correr puote tra noi? Decisa il cielo
Ha la nostra contesa; e più non resta
Di che garrir. Tristi querele e pianto
Sparger dinanzi al vincitor, disdice
A chi fu re; né a me con detti acerbi
L'odio antico appagar lice, né questo
Gaudio superbo che in mio cor s'eleva,
Ostentarti sul volto; onde sdegnato
Dio non si penta, e alla vittoria in mezzo
Non m'abbandoni ancor. Né, certo, un vano
Da me conforto di parole attendi.
Che ti direi? ciò che t'accora, è gioia
Per me; né lamentar posso un destino,
Ch'io non voglio mutar. Tal del mortale
È la sorte quaggiù: quando alle prese
Son due di lor, forza è che l'un piangendo
Esca dal campo. Tu vivrai; null'altro
Dono ha Carlo per te.

DESIDERIO - Re del mio regno,
Persecutor del sangue mio, qual dono
Ai re caduti sia la vita, il sai?
E pensi tu, ch'io vinto, io nella polve,
Di gioia anco una volta inebbriarmi
Non potrei? del velen che il cor m'affoga,
Il tuo trionfo amareggiar? parole
Dirti di cui ti sovverresti, e in parte
Vendicato morir? Ma in te del cielo
Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
Dio m'inchinò, m'inchino: a supplicarti
Vengo; e m'udrai; ché degli afflitti il prego
È giudizio di sangue a chi lo sdegna.

CARLO - Parla.

DESIDERIO - In difesa d'Adrian, tu il brando
Contro di me traesti?

CARLO - A che domandi
Quello che sai?

DESIDERIO - Sappi tu ancor che solo
Io nemico gli fui, che Adelchi - e m'ode
Quel Dio che è presso ai travagliati - Adelchi
Al mio furor preghi, consigli, ed anche,
Quanto è concesso a pio figliuol, rampogne
Mai sempre oppose: indarno!

CARLO - Ebben?

DESIDERIO - Compiuta
È la tua impresa: non ha più nemici
Il tuo Romano: intera, e tal che basti
Al cor più fiacco ed iracondo, ei gode
La sicurezza e la vendetta. A questo
Tu scendevi, e l'hai detto: allor tu stesso
Segnasti il termin dell'offesa. Ell'era
Causa di Dio, dicevi. È vinta; e nulla
Più ti domanda Iddio.

CARLO - Tu legge imponi
Al vincitor?

DESIDERIO - Legge? Oh! ne' detti miei
Non ti fingere orgoglio, onde sdegnarli.
O Carlo, il ciel molto ti die': ti vedi
Il nemico ai ginocchi, e dal suo labbro
Odi il prego sommesso e la lusinga;
Nel suolo ov'ei ti combattea, tu regni.
Ah! non voler di più: pensa che abborre
Gli smisurati desideri il cielo.

CARLO - Cessa.

DESIDERIO - Ah! m'ascolta: un dì tu ancor potresti
Assaggiar la sventura, e d'un amico
Pensier che ti conforti, aver bisogno;
E allor gioconda ti verrebbe in mente
Di questo giorno la pietà. Rammenta
Che innanzi al trono dell'Eterno un giorno
aspetterai tremando una risposta,
O di mercede o di rigor, com'io
Dal tuo labbro or l'aspetto. Ahi! già venduto
Il mio figlio t'è forse! Oh! se quell'alto
Spirto indomito, ardente, consumarsi
Deve in catene!... Ah no! pensa che reo
Di nulla egli è; difese il padre: or questo
Gli è tolto ancor. Che puoi temer? Per noi
Non c'è brando che fera: a te vassalli
Son quei che il furo a noi: da lor tradito
Tu non sarai: tutto è leale al forte.
Italia è tua; reggila in pace; un rege
Prigion ti basti; a stranio suol consenti
Che il figliuol mio...

CARLO - Non più; cosa mi chiedi
Tu! che da me non otterria Bertrada.

DESIDERIO - - Io ti pregava! io, che per certo a prova
Conoscerti dovea! Nega; sul tuo
Capo il tesor della vendetta addensa.
Ti fe' l'inganno vincitor; superbo
La vittoria ti faccia e dispietato.
Calca i prostrati, e sali; a Dio rincresci...

CARLO - Taci, tu che sei vinto. E che? pur ieri
La mia morte sognavi, e grazie or chiedi,
Qual converria, se, nella facil ora
Di colloquio ospital, lieto io sorgessi
Dalla tua mensa! E perché amica e pari
Non sonò la risposta al tuo desio,
Anco mi vieni a imperversar d'intorno,
Come il mendico che un rifiuto ascolta!
Ma quel che a me tu preparavi - Adelchi
Era allor teco - non ne parli: or io
Ne parlerò. Da me fuggia Gerberga,
Da me cognato, e seco i figli, i figli
Del mio fratel traea, di strida empiendo
Il suo passaggio, come augel che i nati
Trafuga all'ugna di sparvier. Mentito
Era il terror: vero soltanto il cruccio
Di non regnar; ma obbrobriosa intanto
Me una fama pingea quasi un immane
Vorator di fanciulli, un parricida.
Io soffriva, e tacea. Voi premurosi
La sconsigliata raccettaste, ed eco
Feste a quel suo garrito. Ospiti voi
De' nipoti di Carlo! Difensori
Voi, del mio sangue, contro me! Tornata
Or finalmente è, se nol sai, Gerberga
A cui fuggir mai non doveva; a questo
Tutor tremendo i figli adduce, e fida
Le care vite a questa man. Ma voi,
Altro che vita, un più superbo dono
Destinavate a' miei nipoti. Al santo
Pastor chiedeste, e non fu inerme il prego,
Che sulle chiome de' fanciulli, al peso
Non pur dell'elmo avvezze, ei, da spergiuro,
L'olio versasse del Signor. Sceglieste
Un pugnal, l'affilaste, e al più diletto
Amico mio por lo voleste in pugno,
Perch'egli in cor me lo piantasse. E quando
Io, tra 'l Vèsero infido o la selvaggia
Elba, i nemici a debellar del cielo
Mi sarei travagliato, in Francia voi
Correre, insegna contro insegna, e crisma
Contro crisma levar, perfidi! e pormi
In un letto di spine, il più giocondo
De' vostri sogni era codesto. Al cielo
Parve altrimenti. Voi tempraste al mio
Labbro un calice amaro; ei v'è rimasto:
Votatelo. Di Dio tu mi favelli;
S'io nol temessi, il rio che tanto ardia
Pensi che in Francia il condurrei captivo?
Cogli ora il fior che hai coltivato, e taci.
Inesausta di ciance è la sventura;
Ma del par sofferente e infaticato
Non è d'offeso vincitor l'orecchio.



SCENA VI

CARLO, DESIDERIO, ARVINO.

ARVINO - Viva re Carlo! Al cenno tuo, dai valli
Calan le insegne; strepitando a terra
Van le sbarre nemiche; ai claustri aperti
Ognun s'affolla, ed all'omaggio accorre.

DESIDERIO - Ahi dolente, che ascolto! e che mi resta
Ad ascoltar!

CARLO - Né si sottrasse alcuno?

ARVINO - Nessuno, o re: pochi il tentar, ma invano.
Sorpresi nella fuga, d'ogni parte
Cinti, pugnar fino all'estremo; e tutti
Restar sul campo, quale estinto, e quale
Ferito a morte.

CARLO - E son?

ARVINO - Tale è presente,
A cui troppo dorrà, se tutto io dico.

DESIDERIO - Nunzio di morte, tu l'hai detto.

CARLO - Adelchi
Dunque perì?

DESIDERIO - Parla, o crudele, al padre.

ARVINO - La luce ei vede, ma per poco, offeso
D'immedicabil colpo. Il padre ei chiede,
E te pur anche, o sire.

DESIDERIO - E questo ancora
Mi negherai?

CARLO - No, sventurato. - Arvino,
Fa ch'ei sia tratto a questa tenda; e digli
Che non ha più nemici.



SCENA VII


CARLO, DESIDERIO.

DESIDERIO - Oh! come grave
Sei tu discesa sul mio capo antico,
Mano di Dio! Qual mi ritorni il figlio!
Figlio, mia sola gloria, io qui mi struggo,
E tremo di vederti. Io del tuo corpo
Mirerò la ferita! io che dovea
Esser pianto da te! Misero! io solo
Ti trassi a ciò: cieco amator, per farti
Più bello il soglio, io ti scavai la tomba!
Se ancor, tra il canto de' guerrier, caduto
Fossi in un giorno di vittoria! o chiusi,
Tra il singulto de' tuoi, tra il riverente
Dolor de' fidi, sul real tuo letto,
Gli occhi io t'avessi... ah! saria stato ancora
Ineffabil cordoglio! Ed or morrai
Non re, deserto, al tuo nemico in mano,
Senza lamenti che del padre, e sparsi
Innanzi ad uom che in ascoltarli esulta?

CARLO - Veglio, t'inganna il tuo dolor. Pensoso,
Non esultante, d'un gagliardo il fato
Io contemplo, e d'un re. Nemico io fui
D'Adelchi; egli era il mio, né tal, che in questo
Novello seggio io riposar potessi,
Lui vivo, e fuor delle mie mani. Or egli
Stassi in quelle di Dio: quivi non giunge
La nimistà d'un pio.

DESIDERIO - Dono funesto
La tua pietà, s'ella giammai non scende,
Che sui caduti senza speme in fondo;
Se allor soltanto il braccio tuo rattieni,
Che più loco non trovi alle ferite.



SCENA VIII

CARLO, DESIDERIO, ADELCHI, ferito e portato.

DESIDERIO - Ahi, figlio!

ADELCHI - O padre, io ti rivedo! Appressa;
Tocca la mano del tuo figlio.

DESIDERIO - Orrendo
M'è il vederti così.

ADELCHI - Molti sul campo
Cadder così per la mia mano.

DESIDERIO - Ahi, dunque
Insanabile, o caro, è questa piaga?

ADELCHI - Insanabile.

DESIDERIO - Ahi lasso! ahi guerra atroce!
Io crudel che la volli; io che t'uccido!

ADELCHI - Non tu, né questi, ma il Signor d'entrambi.

DESIDERIO - Oh desiato da quest'occhi, oh quanto
Lunge da te soffersi! Ed un pensiero
Fra tante ambasce mi reggea, la speme
Di narrartele un giorno, in una fida
Ora di pace.

ADELCHI - Ora per me di pace,
Credilo, o padre, è giunta; ah! pur che vinto
Te dal dolor quaggiù non lasci.

DESIDERIO - Oh fronte
Balda e serena! oh man gagliarda! oh ciglio
Che spiravi il terror!

ADELCHI - Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio! Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu, che preso
Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
Né una lagrima pur notata in cielo
Fia contro te, né il nome tuo saravvi
Con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è; tu l'hai provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo felice,
Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.

DESIDERIO - Ma ch'io ti perdo,
Figlio, di ciò chi mi consola?

ADELCHI - Il Dio
Che di tutto consola.

(si volge a Carlo)

E tu superbo
Nemico mio...

CARLO - Con questo nome, Adelchi,
Più non chiamarmi; il fui: ma con le tombe
Empia e villana è nimistà; né tale,
Credilo, in cor cape di Carlo.

ADELCHI - E amico
Il mio parlar sarà, supplice, e schivo
D'ogni ricordo ad ambo amaro, e a questo
Per cui ti prego, e la morente mano
Ripongo nella tua. Che tanta preda
Tu lasci in libertà... questo io non chiedo...
Ché vano, il veggo, il mio pregar saria,
Vano il pregar d'ogni mortale. Immoto
È il senno tuo; né a questo segno arriva
Il tuo perdon. Quel che negar non puoi
Senza esser crudo, io ti domando. Mite,
Quant'esser può, scevra d'insulto sia
La prigionia di questo antico, e quale
La imploreresti al padre tuo, se il cielo
Al dolor di lasciarlo in forza altrui
Ti destinava. Il venerabil capo
D'ogni oltraggio difendi: i forti contro
I caduti, son molti; e la crudele
Vista ei non deve sopportar d'alcuno
Che vassallo il tradì.

CARLO - Porta all'avello
Questa lieta certezza: Adelchi, il cielo
Testimonio mi sia; la tua preghiera
È parola di Carlo.

ADELCHI - Il tuo nemico
Prega per te, morendo.



SCENA IX

ARVINO, CARLO, DESIDERIO, ADELCHI.

ARVINO - Impazienti,
Invitto re, chiedon guerrieri e duchi
D'esser ammessi.

ADELCHI - Carlo!

CARLO - Alcun non osi
Avvicinarsi a questa tenda. Adelchi
È signor qui. Solo d'Adelchi il padre,
E il pio ministro del perdon divino
Han qui l'accesso.

(parte con Arvino.)



SCENA X

DESIDERIO, ADELCHI.

DESIDERIO - Ahi, mio diletto!

ADELCHI - O padre,
Fugge la luce da quest'occhi.

DESIDERIO - Adelchi,
No, non lasciarmi!

ADELCHI - O Re de' re tradito
Da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!...
Vengo alla pace tua: l'anima stanca
Accogli.

DESIDERIO - Ei t'ode: oh ciel! tu manchi! ed io...
In servitude a piangerti rimango.


Fine della tragedia



________________

(1) PAUL. DIAC., De gestis Langob., lib. 2.

(2) Una descrizione più circostanziata delle divisioni dell'Italia in quel tempo ci condurrebbe a questioni intricate e inopportune. V. MURAT., Antich. Ital., dissert. seconda.

(3) « Affirmans etiam sub juramento, quod per nullius hominis favorem sese certamini saepius dedisset, nisi pro amore beati Petri, et venia delictorum; asserens et hoc, quod nulla eum thesauri copia suadere valeret, ut quod semel Beato Petro obtulit, auferret ». ANASTAS. BIBLIOTH.; Rer. It., t. III, p. 171.

(4) « Cujus [Brixiae] ipse Desiderius nobilis erat » RIDOLF. NOTAR., Hist. ap. BIEMMI, Ist. Di Brescia. (Del secolo XI). - SICARDI EPISC.; Rer. It., t. VII, p. 577, e altri.

(5) ANAST., 172.

(6) « Sub jurejurando pollicitus est restituendum B. Petro civitates reliquas, Faventiam, Imolam, Ferrariam, cum eorum finibus, etc ». STEPH., Ep. Ad Pipin.; Cod. Car. 8.

(7) « Anselperga sacrata Deo Abbatissa Monasterii Domini Salvatoris, quod fundatum est in civitate Brixia, quam Domnus Desiderius excellentissimus rex, et Ansa precellentissima regina, genitores ejus, a fundamentis edificaverunt... » Dipl. an. 761; apud MURAT., Antiquit. Italic., dissert. 66, t. V, p. 499.

(8) PAUL. EP. ad Pip..; Cod. Car. 15.

(9) Le cronache di que' tempi variano perfino ne' nomi, quando però li danno.

(10) Cod. Carol., Epist. 45.

(11) « Berta duxit filiam Desiderii regis Langobardorum in Franciam ». Annal. NAZAR. ad h. an.; Rer. Fr., t. V, p. 11.

(12) « Cum, matris hortatu, filiam Desiderii regis Langobardorum duxisset uxorem, incertum qua de causa, post annum repudiavit, et Hildegardem, de gente Suavorum praecipuae nobilitatis feminam, in matrimonium accepit ». Karol. M. Vita per EGINHARDUM, 18. (Scrittore contemporaneo).

(13) « Ita ut nulla invicem sit exorta discordia, praeter in divortio filiae regis Desiderii, quam, illa suadente, acceperat ». EGINH, in Vita Kar., ibid.

(14) « Rex autem hanc eorum profectionem, quasi supervacuam, impatienter tulit. EGINH., Annal, ad h. annum.

(15) ANAST., 180.

(16) HEGEVISCH, Hist. de Charlem., trad. de l'Allem., p. 116.

(17) ANAST., p. 181.

(18) ANAST., p. 182.

(19) ANAST., p. 183.

(20) « Albinus, deliciosus ipsius regis ». ANAST., p. 184. V. MUR., Ant. It., diss. 4.

(21) « Asserens se minime quidquam redditurum ». ANAST., ibid.

(22) Annal. TILIANI, LOISELIANI, Cronac. Moissiacense, ed altri, nel t. V. Rer. Franc. In generale, gli annalisti di que' secoli che noi chiamiamo barbari, sanno, nelle cose di poca importanza, copiarsi l'uno coll'altro, al pari di qualunque letterato moderno: s'accordano poi a maraviglia nel passar sotto silenzio ciò che più si vorrebbe sapere.

(23) « Sed dum iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam ex proceribus Langobardis talem legationem mittunt Carolo, Francorum regi, quatenus veniret cum valido exercitu, et regnum Italiae sub sua ditione obtineret, asserentes quia istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent vinctum, et opes multas, etc... Quod ille praedictus rex Carolus cognoscens, cum... ingenti multitudine Italiam properavit ». ANONIM. SALERNIT., Chron., c. 9; Rer. It., t. II, part. II p. 180. - Scrisse nel secolo X.

(24) Vedi gli annalisti citati sopra, e EGINH., Annal., ad an. 773.

(25) ANAST., p. 184. - Chron. Novaliciense, 1. 3, c. 9; R. I., t. II, p. II, pag. 717. - Il monaco, anonimo autore di questa cronaca, visse, secondo le congetture del Muratori, verso la metà del secolo XI.

(26) « Firmis qui [Desiderius] fabricis praecludens limina regni, Arcebat Francos aditu ».
Ex FRODOARDO, de Pontif. Rom.; R. Fr., t. V, p. 463. - Frodoardo, canonico di Rheims, visse nel X secolo.

(27) « Erat enim Desiderio filius nomine Algisus, a juventute sua fortis viribus. Hic baculum ferreum equitando solitus erat ferre tempore hostili... Cum autem his juvenis dies et noctes observaret, et Francos quiescere cerneret, subito super ipsos irruens, percutiebat cum suis a dextris et a sinistris, et maxima caede eos prosternebat ». Chron. Nov., 1. 3, c. 10.

(28) « Claustrisque repulsi,
In sua praecipitem meditantur regna regressum.
Una moram reditus tantum nox forte ferebat. »
FRODOARD., ib.
« Dum vellent Franci alio die ad propria reverti ». ANAST., pag. 184.

(29) « Hic [Leo] primus Francis Italiae iter ostendit, per Martinum diaconum suum, qui post eum quartus Ecclesiae regimen tenuit, et ab eo Karolus rex invitatus Italiam venit ». AGNEL., Raven. Pontif.; R. I., t. II, p. 177. - Scrisse Agnello nella prima metà del secolo IX, e conobbe Martino, di cui descrive l'alta statura e le forme atletiche. Ibid., p. 182.

(30) « Misit autem [Karolus] per difficilem ascensum montis legionem ex probatissimis pugnatoribus, qui, transcenso monte, Langobardos cum Desiderio rege eorum... in fuga converterunt. Karolus vero rex, cum exercitu suo, per apertas Clusas intravit ». Chron. Moissiac.; Rer. Fr., t. V, p. 69. - Questa cronaca di incerto autore termina all'anno 818.

(31) ANAST., 184.

(32) RIDOLFI NOTARII, Histor., apud BIEMMI. Istoria di Brescia, t. II. (Del secolo XI).

(33) ANAST., 185 e seg.

(34) « Langobardi obsidione pertaesi civitate cum Desiderio rege egrediuntur ad regem ». Annal. Lambech.; R. Fr., V, 64.

(35) « Desiderius a suis quippe, ut diximus, Fidelibus callide est ei traditus ». ANON. SALERN., 179.

(36) Rer. Fr., t. V, p. 385.

(37) « Ibique venientes undique Langobardi de singulis civitatibus Italiae, subdiderunt se dominio et regimini gloriosi regis Karoli ». Chron. Moissiac.; Rer. Fr. V, 70.

(38) HADRIANI, Epist. Ad Karolum, Cod. Carol. 90 e 88.

(39) Ex SIGIBERTI Chron.; Rer. Fr., V, 377.

(40) « Cui [Hildeprando] dum contum, uti moris est, traderent ». PAUL. DIAC., 1, 6, c. 55.

(41) « Si quis Langobardus, se vivente, suas filias nuptui tradiderit, et alias filias in capillo in casa reliquerit... » Liutprandi Leg., 1. 1, 2.

(42) V. la nota al passo citato, Rer. It., t. I, parte II, p. 51.

(43) « De omnibus Judicibus, quomodo in exercitu ambulandi causa necessitas fuerit, non mittant alios homines, nisi tantummodo qui unum caballum habeant, idest homines quinque, etc. ». Liutpr. Leg., lib. 6, 29.

(44) « Insignis nobilitas, aut magna patrum merita principis dignationem etiam adolescentulis assignant: coeteris robustioribus, ac jampridem probatis aggregantur: nec rubor inter comites aspici ». TACIT., German., 13.

(45) HOMER., Il., 1. 23, v. 90.

(46) « Tassilo dux Bajoariorum... more francico, in manus regis, in vassaticum, manibus suis, semetipsum commendavit ». EGINH., Annal., Rer. Fr., t. V, p. 198.

(47) « Juret ad arma sacrata », Rotharis Leg. 364. V. MURAT., Ant. It., dissert. 38.

(48) « Assidue exercebatur equitando ac venando, quod illi gentilium erat ». EGINH., Vit. Kar., 22.

(49) Rer. Fr., t. V, p. 388.

(50) « Delectabatur etiam vaporibus aquarum naturaliter calentium...Ob hoc etiam Aquisgrani Regiam extruxit ». EGINH., Vit. Kar., 22.

(51) Treu, fedele.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Poesie e tragedie", a cura di Gaetano Trombatore, « LA NUOVA ITALIA » EDITRICE, Firenze, 1970







 

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