Le costanti dell'arte di Giorgio Bassani, i fili conduttori della sua opera di poeta è di scrittore stanno nella fedeltà alle amicizie dell'età prima, nel profumo irripetibile di un passato che più non ritorna, per quanto lo si rievochi, neppure nel ritorno scandito della pagina; nel senso di un'esclusione dalla vita, o almeno dalla vita dei più, dato dalla rivendicata appartenenza alla religione israelita. Tutto ciò affiora in una pagina autobiografica che vale la pena di riportare:
« Critici si nasce: poeti si diventa - ha detto Roberto Longhi -.
Nella primavera del '42, il primo impulso a scrivere versi mi venne, più che
dalla vita e dalla realtà, dall'arte, dalla cultura. Da tempo mi avevano
colpito le poesie di due vecchi compagni d'università: Francesco Arcangeli e
Antonio Rinaldi; e quelle di Pompeo Bettini, che Benedetto Croce aveva
ristampato nell'inverno precedente, da Laterza. Seguivo, oltre a ciò, i miei amici storici dell'arte -
lo stesso Francesco Arcangeli,
Giuseppe Raimondi, C. L. Ragghianti, Cesare Gnudi, Giancarlo Cavalli - sulle
tracce dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento: cosicché la
campagna tra Ferrara e Bologna, che il mio treno percorreva quasi quotidianamente, mi si mostrava attraverso i
colori, intrisi di una luce come velata, di quelle antiche pitture. La
primavera del '42! Stalingrado, El Alamein, e il futuro incerto, oscuro...
Eppure, nonostante tutto, la vita non mi è mai più apparsa cosi bella, cosi
bella e struggente come allora. Uscivo dalla giovinezza, lo sentivo bene: ma
senza rimpianti, guardando ai miei errori passati - non ero mai riuscito a
perdonarmeli - con una sorta di benigna condiscendenza. Per la prima volta mi
sentivo spettatore indulgente di me stesso. E cosi, nel treno che mi riportava
ogni sera a Ferrara, da Bologna dove avevo compiuto gli studi universitari, e
dove, anche dopo, avevo continuato a recarmi con la stessa frequenza di un
tempo, la vicenda degli amori studenteschi, dai quali mi vedevo di un tratto
escluso, si svolgeva davanti ai miei occhi incantevole ma distante, distante
per sempre. Una delle prime poesie che scrissi riguarda quel treno serale.
Ebbene, quella che si vede attraverso i finestrini dello scompartimento di
terza classe è la mia terra, si; ma resa con la mente alle tele che gli amici,
proprio in quei mesi, mi venivano mostrando, distante e patetica come appare
dietro quelle rustiche madonne provinciali, quei santoni dalle membra
arrossate e sudaticce.
Questa è l'ora che vanno per calde erbe infinite / nel mio paese gli ultimi treni, con fischi lenti / salutano la sera, affondano indolenti / in sonni dove tramontano rosse città turrite. // Dai finestrini aperti il vino delle marcite / monta al madido specchio delle povere panche; / dei giovanili amanti scioglie le dita stanche, / fa deserte di baci le labbra inaridite».
Non paia lunga la citazione, dato che in essa quei motivi biografici sono evidenti, anche le persecuzioni razziali, pur se appena adombrate (« e il futuro incerto, oscuro...»), con in più una città, Ferrara; e un'altra città, sullo sfondo, Bologna. La prima, luogo del cuore e degli affetti; la seconda, apertura alla vita e agli studi più veri. E poi le care presenze, i nomi familiari, gli amori giovanili, che troveranno in Micòl l'eroina che tutti li riassume, se è vero quanto ebbe a dichiarare la madre medesima dello scrittore: « Micòl è un personaggio nato dalla fantasia poetica di mio figlio Giorgio. E’ una donna "costruita", ecco. Con quei capelli biondi, il corpo flessuoso, la battuta pronta, la sua voglia di vivere, Micòl potrebbe rappresentare il concentrato idea le delle donne che Giorgio conobbe ed amò, come succede, durante la prima giovinezza. Non è improbabile che il carattere di una di codeste ragazze sia stato attribuito con una specie di fotomontaggio letterario ad una persona diversa. Qualche volta mio figlio mi ha detto che Micòl è la prima fanciulla cui volle bene nella lontana stagione dell'adolescenza, quando l'amore si trasfigura e assume l'idealizzazione dei sogni. La verità è che Giorgio fu fidanzato con una ragazza cattolica cui dovette rinunciare quando le spietate leggi razziali vietarono i matrimoni fra israeliti e cristiani».
Si è già, per la seconda volta, posto l'accento sulla religione di Bassani, e allora converrà dire che egli è nato a Bologna nel 1916 da una cospicua famiglia ferrarese di credo israelita. E a Ferrara, in via Cisterna del Follo, dove la sua famiglia possiede un'antica casa dagli alti soffitti e dalle fonde suggestioni, non poche delle quali destinate ad essere travasate nei suoi racconti, lo scrittore trascorse l'infanzia e la giovinezza e compì gli studi fino alla maturità classica. La madre di Bassani si chiama Dora e il padre Enrico. Enrico Bassani era medico chirurgo e morì a sessantatré anni nel 1948. La famiglia, oltre che dai genitori, era composta da tre figli: Giorgio, Paolo, Jenny. Paolo fu sul punto di diventare ingegnere. Infatti frequentò due anni d’ingegneria a Grenoble, ma fu espulso, perché ebreo, quando l'Italia dichiarò guerra alla Francia. Jenny, sposatasi con il dottor Liscia, imprese a trascorrere la propria vita per molti mesi l'anno in una sua villa di Antignano, nei pressi di Livorno, dove sono cresciuti i suoi figli: David, Dory e Claudio. « Giorgio da ragazzo, voleva diventare musicista; stava ore ed ore ad ascoltare Bach, Beethoven, Mozart; studiava il piano, ma, più che altro, suonava ad orecchio tutti i motivi che udiva. A scuola era molto bravo. A diciassette anni rinunciò di colpo alla musica e prese la strada dello scrittore. Si mise a studiare con più lena di prima, soprattutto letteratura italiana. Gli bastavano dieci minuti per mangiare un boccone, poi tornava a tavolino. » L'inclinazione musicale di Bassani noi la ritroveremo nel ritmo dolce e calibrato della sua prosa, senza mai una sbavatura, una dissonanza, e soprattutto la ritroveremo nel suo lavoro di poeta, attento al ritmo, alla misura con moduli anche esteriori che si concretano nella predilezione, sia pure temperata da un forte senso della modernità, verso i metri classici.
Nella società ferrarese, bene amalgamata da sempre con il resto della borghesia (il padre, un medico che non esercitava, viveva di rendita), la famiglia Bassani condusse, fino al 1938, una vita normale, di lavoro e svaghi, di oneste frequentazioni, di amicizie salde e sincere.
Nel 1935, avvenne un fatto fondamentale nella formazione umana e letteraria di Bassani. In quell'anno, trasferirono a Ferrara alcuni normalisti sardi da poco laureati: Giuseppe Dessì, Claudio Varese, Mario Pinna, Franco Dessì Fulgheri. Professori di prima nomina questi giovani (« gli adolescenti » di Una città di Pianura, 1940) divennero molto intrinseci con Bassani alcuni anni più giovane, ma già pronto ad assorbire non solo il loro messaggio antifascista (mentore Claudio Varese, in particolare), ma anche i fermenti più moderni e meno letterari della loro cultura. Bassani fino a quel momento aveva avuto una formazione soltanto umanistico-letteraria; dal 1935 al 1936-1937, egli assunse, tramite i nuovi amici, quella fondamentale formazione storicistica e idealistica, crociana e gentiliana, che doveva esercitare una prima influenza in Una città di pianura, specie nel racconto Un concerto, cosi vicino mondo del San Silvano di Dessì; ma che doveva in seguito (pensiamo in particolare alle poesie), configurarsi in una posizione del tutto diversa nei confronti della letteratura, da quel momento in poi nutrita di consapevoli succhi filosofici e antifascisti: sono le poesie, liriche, di Storie dei poveri amanti (1945) ma dalle fonde implicazioni narrative, in cui esistono già, in nuce, le Storie ferraresi. E’ chiaro che il moralismo gentiliano e l'idealismo crociano, che segnano il determinante passaggio dalla Città alle Storie, e insieme a una più impegnata concezione del fare letterario, unita ad una dichiarata opposizione al fascismo, non restarono senza esito anche in altri campi. Giorgio Bassani, che aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza rese facili dal censo e dalla posizione familiare, che aveva trascorso felicemente la prima giovinezza fra gli studi universitari a Bologna, le partite di tennis, gli amici e i divertimenti non venne, come gli altri ebrei, ferito da quella che, agli occhi di molti, apparve come una vera e propria catastrofe. Le leggi razziali del 1938 (anno in cui Bassani fu a Firenze e frequentò tra gli altri l'ambiente delle « Giubbe rosse », Bonsanti, i letterati e gli antifascisti del gruppo fiorentino) non lo colpirono nel vivo, anche se arrestarono le sue relazioni concrete, i commerci pratici che egli aveva con la migliore borghesia cittadina, pure se lo strapparono violéntemente a quella che, fino a quel momento, era stata la sua società. Egli sapeva già, per la sua precisa opzione antifascista (attività militante che di lì a cinque anni lo condurrà in carcere e il frutto saranno poi le poesie di Te lucis ante), quanto quella realtà ingiusta crudele e perfino volgare fosse possibile, anzi prevedibile. Le leggi razziali non furono per lui un fatto irrevocabilmente tragico, erano solo la riprova, amara e fatale riprova, degli eccessi cui la dittatura, secondo le previsioni sue e dei suoi amici sardi, sarebbe pervenuta. Ciò non toglie che l'esperienza razzista, epidermicamente vissuta, ma lacerante a livello subliminale, abbia lasciato una durevole traccia nel suo spirito e nella sua arte. Infatti, per contrapposizione, Bassani prese anche conoscenza d’alcune verità che lo riguardavano e che tanta parte, in termini di riscatto (il modico e tenue riscatto che, solo, si può permettere uno scrittore), avrebbero avuto sulla sua opera: cioè l'egoismo, l'indifferenza, il cinismo. Nacque così, nel suo animo, anche un sentimento ambiguo, poli-valente verso quella che egli considerava la sua vera città. Ferrara: un misto d’amore e d’odio, di rancore e di rimorso cui non andava disgiunta una buona dose di pietas, la pietà per il luogo nativo.
Spinto dalle sue sincere propensioni letterarie, appena conseguita la licenza liceale, Bassani si iscrisse alla Facoltà di lettere dell'Università di Bologna, dove ebbe come maestri, fra numerosi altri, Roberto Longhi e Carlo Calcaterra. Con Calcaterra, Bassani si laureò appunto, nel 1939, discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo. Sono questi gli anni contrassegnati da altri maestri e da altre amicizie. Porremo, fra i primi, Giorgio Morandi, di cui Bassani si definì a più riprese discepolo, e Benedetto Croce, del cui insegnamento egli ebbe a fare riprova nel campo della letteratura militante, specie nel senso di una nitida, staremmo per dire socratica, visione della storia e dei suoi problemi, mai avulsi l'uno dall'altro, ma legati, vincolati anzi, da una ferrea concatenazione da causa a effetto. Oltre ai già citati, Bassani, che già fin dal 1934 era legato da amicizia con Attilio Bertolucci e che aveva avuto come compagno di liceo e anche prima alle elementari Lanfranco Caretti, si legò anche con Francesco Arcangeli, Franco Giovanelli, Augusto Frassineti, Fiorenzo Forti e, specie per la comunanza di idee politiche e di genuina propensione antifascista, con Sergio Telmon, Vincenzo Cicognani e altri, ivi compresi i già citati Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Gnudi, con i quali si trovò in seguito a militare nel Partito d'Azione.
Sugli anni della formazione universitaria e su quelli che immediatamente li seguirono, sui maestri e gli amici. primo fra tutti Roberto Longhi, converrà lasciare la parola al medesimo Bassani di cui esiste una pagina assai illuminante non solo dal punto di vista meramente biografico, si proprio da quello della penetrazione psicologica che tanta parte ha nella vita e nell'opera di uno scrittore:
« Ho conosciuto Roberto Longhi a Bologna, nel tardo autunno del 1935. Facevo il second'anno di lettere, a quell'epoca, e ancora non ero riuscito ad ambientarmi. L'anno precedente lo avevo consumato in vani tentativi di questo genere. Ogni mattina prendevo il treno che, da Ferrara, portava a Bologna in meno di un'ora. Frequentavo tutti i corsi possibili: perfino paleografia e biblioteconomia; per poi, verso l'una, ritrovarmi a pranzo con Lanfranco Caretti, anche lui ferrarese, anche lui in cerca di ambientamento e mio grande amico (eravamo stati compagni di banco, al liceo, per tre anni consecutivi), alla mensa del Dopo-lavoro ferroviario o alla Croce di Malta, una trattoria per studenti molto a buon mercato. Alle due eravamo di nuovo all'università, ansiosi di non perdere la lezione, mettiamo, di grammatica latina. E cosi via, una lezione dietro l'altra, fino a sera: fino a quando, cioè, non avremmo ripreso l'accelerato di Ferrara.
Non ero tipo da
esami di coscienza, allora. Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente
(giocavo al tennis niente affatto male: ormai posso dirlo senza falsa modestia),
e la vita, per me, era tutta da scoprire: qualcosa di aperto, di vasto, di
invitante,
che mi stava dinanzi; e a cui mi abbandonavo con impeto cieco, senza voglia,
mai, di ripiegarmi su me stesso un momento solo. Durante l'estate del '35,
tuttavia, dopo quel primo anno di università, credo che un bilancio, più o meno
consciamente, lo avessi fatto. Che cosa volevo fare, della mia vita?
L'Artista, o lo Studioso? Se ripensavo alle lezioni di Storia della
letteratura italiana, alle quali, l'anno precedente, non ero mancato una sola
volta; se ricordavo l'invincibile sopore che mi prendeva, ogni volta, negli
assolati pomeriggi della passata primavera, ascoltando dal banco la voce
sommessa e monotona del professore d'italiano,
a cui, oltre tutto, non potevo perdonare di aver parlato male d'Ungaretti in
un suo famigerato volume sulla letteratura del Novecento; se tornavo con la
mente alla noia, al sopore, alla tetraggine di quelle ore (non restava per
sopportarle,
che guardar fuori dai finestroni verticali dell'aula, o concentrarsi a fissare
qualche compagna): se consideravo tutto ciò, mi dicevo che la carriera dello
Studioso, la carriera dello Storico della letteratura italiana, non poteva,
assolutamente, essere per me. Ma l'Arte, d'altronde? L'università, cioè lo
Studio, era la noia, la polvere, il tedio accademico. D'accordo. Ma l'Arte?
L'Arte era Ungaretti, i versicoli dell'Allegria: qualche cosa di molto
problematico, vago, e incantevole. Come la vita. Come il futuro che mi stava
dinanzi. Come il tennis e gli amori... Si poteva, seriamente, fondare la
propria vita su cose come queste?
Fu alla ripresa delle lezioni, nel novembre, che venni introdotto, per la prima volta, nell'aula di Storia dell'arte da Momi Arcangeli, se non ricordo male. Quelle di Storia dell'arte erano state le uniche lezioni che l'anno prima, chissà perché, avessi disertate; Roberto Longhi l'unico insegnante che non avessi mai visto, nemmeno di lontano.
Difficile immaginare un tipo più diverso, anche fisicamente, dagli
altri professori. Alto, simpatico, elegantissimo, con un viso dai tratti molto
asimmetrici, di una espressività eccezionale: più che a un professore, ad uno
studioso, Longhi faceva pensare a un pittore, a un attore, a un «virtuoso
d'alta razza e d'alta scuola: ad un artista, insomma. Non c'era nulla, in lui,
dell'enfasi curialesca della tradizione carducciana imperante all’università
di Bologna, di quell'unzione accademica che per tutto l'anno precedente mi
aveva riempito di venerazione e di noia.
Nessuna posa erudita, nessun sussiego di casta, nessuna boria didattica e
didascalica; nessuna pretesa che non riguardasse l'intelligenza, la pura
volontà di capire e far capire: e per questo, non per altro, ci si sentiva a
un certo punto osservati dai suoi occhi nerissimi, che lustravano, piccoli e
malinconici come per febbre, dietro il taglio spiovente del pincenez e delle grandi palpebre brune (occhi da spadaccino italiano del
Seicento, mi sorpresi un giorno a pensare bizzarramente)...
Le lezioni di Storia dell'arte avevano luogo due giorni alla settimana, alle dieci del mattino. Ma poi, finita la lezione, e sgombratasi l'aula, cominciavano in una saletta attigua, alle undici, le cosiddette esercitazioni, alle quali partecipavano, seduti attorno a un tavolone rettangolare, una decina soltanto di studenti. Fra questi c'erano, si, i futuri "specialisti”... i quali, come me, in fondo non avevano troppa voglia di dedicarsi totalmente ad un particolare ramo di studi » .
I ricordi universitari di Bassani proseguono per dare conto di cosa professore e studenti facessero una volta usciti dall'aula: visite in libreria, inviti a casa di Longhi per ascoltare musica classica, ovvero partite di tennis dove l'allievo si improvvisava maestro. In quel periodo, Roberto Longhi lesse anche alcune prose di Bassani, uscite sul « Corriere Padano », e le lodò. Fu forse questa la spinta determinante che incamminò l'aspirante scrittore verso il proprio destino. Il fascino del maestro fu tanto che il giovane non frequentò altre lezioni che quelle di Storia dell'arte.
Conseguita la laurea, e dando concreto avvio alla propria attività di scrittore, cominciò nello stesso 1939 ad insegnare nella scuola israelitica di Ferrara. Tuttavia, egli non venne mai meno all'abitudine di ascoltare Longhi due volte la settimana, tanto più che le lezioni erano state spostate al pomeriggio. Ma ora Bassani si occupava molto intensamente di politica, anzi, la politica assorbiva tutti i suoi pensieri e perfino l'indulgenza del maestro d'un tempo sembrava dirgli che anche quella poteva essere una strada, non solo la via dell'arte, per accostarsi alla vita e ai suoi problemi. Tanto legato, comunque, Bassani restava a Longhi e all'ambiente universitario bolognese che nel 1941, unico superstite, con Momi Arcangeli e Attilio Bertolucci, della vecchia guardia del '35, partecipò a una gita scolastica ad Assisi, durata tre giorni.
Nel 1940 Bassani pubblica, sotto lo pseudonimo di Giacomo Marchi, a causa delle leggi razziali, il suo primo libro (frutto, in parte, del suo rapporto letterario con il gruppo dei professori sardi e con Caretti, Bertolucci, Arcangeli, Giovanelli, Frassineti e Forti), Una città di pianura, stampato dall'Arte Grafica Lucini, venne accolto con simpatia, anche se la cultura ufficiale irretita dalle reboanti certezze littorie proprie dei letterati del regime, mostrò di ignorarlo. Le sezioni del volume: Omaggio, Un concerto, Rondò, Storia di Debora, Ancora dei poveri amanti, Una città di pianura, segnano l'inizio di una vocazione cui lo scrittore rimase fedele, non solo riprendendo in seguito Ancora dei poveri amanti (una poesia) in Storie dei poveri amanti (1945) e rielaborando la Storia di Debora in Lida Mantovani (1956), si proprio come atmosfera spirituale, centrata sulle impressioni indelebili della rima giovinezza, un mondo scomparso e recuperato solo al limite di una sensibilità affettuosa e virile.
Sempre più impegnato nell'attività politica, Bassani, che gli
antifascisti di Ferrara inviavano spesso in missione a Milano per incontrarsi con La Malfa o Parri, a Firenze per conferire con Capitini, a Roma
per tenere i contatti con De Ruggiero, ebbe, nel 1942, un trauma psicologico da
cui secondo un suo biografo, ma lo scrittore recisamente lo nega, doveva
nascere la figura di Alberto Finzi-Contini, uno dei protagonisti del suo libro
più fortunato: « Nel 1942, morì a Ferrara, un ragazzo di buona famiglia. Fra
gli amici che lo accompagnavano al cimitero camminava un giovane con gli occhi
cerulei, piccolo, assorto. Quel giovane, Giorgio Bassani, appena ardiva di
tanto in tanto alzare gli occhi verso il feretro: cosi grossa era la pena che
sentiva crescergli nel cuore. Il morto era stato suo amico, di quelli intimi,
compagno in gite e cospirazioni politiche. Che gran bene gli aveva voluto.
Come s'intendevano con una parola, anche con lo sguardo. E come se lui, Bassani,
lo aveva tradito. All'improvviso quel suo amico si era ammalato di una
malattia rapida, inguaribile, mortale, e Bassani non aveva avuto la forza di
andargli a fare visita. Gli descrivevano il pallore cianotico dell'infermo, i
suoi rantoli, e sempre di più Bassani si sentiva mancare l'animo di andarlo a
trovare. Dopo il funerale, Bassani tornò a casa, vi rimase chiuso per qualche
giorno e cercò di liberarsi dal rimorso scrivendo alcune paginette di un
quaderno intorno all'amico tradito e morto » .
La verità, al di fuori di
ogni concrezione romantica, è diversa. Il giovane morto, che si chiamava Uberto
Magrini, era si amico della famiglia Bassani, ma si trattava solo di un'amicizia
mondana: incontri al tennis, al tè: nessun vero e proprio intimo sodalizio.
Un anno dopo, il gruppo di antifascisti ferraresi di cui Bassani
faceva parte venne scoperto dalla polizia fascista. Gli arrestati furono più di
cento. Senza alcun processo, Bassani e i suoi amici vennero messi in carcere e
da qui uscirono solo il 26 luglio 1943, alla caduta del fascismo. Ai primi di
agosto dello stesso anno, Bassani si sposò con Valeria Sinigallia, che doveva
dargli due figli: Enrico e Paola, e partì per Firenze. Aveva in tasca
sessantamila lire. La vita a Firenze fu misera. Lo scrittore abitava con la
moglie in due stanzucce semibuie, in una vecchia casa, sotto falsa identità.
Per vivere, traduceva Addio alle armi di Hemingway; per procurarsi i
libri necessari ai suoi studi andava al Gabinetto Vieusseux. Per il lavoro clandestino, si incontrava con
Ragghianti e gli altri del Partito d'Azione. Gli amici di quel tempo, con
Manlio Cancogni, erano sempre Antonio Delfini, nella cui casa vicino al Lungarno
si vedevano, o in piazza Pitti. Le riunioni finivano quasi sempre con degli
scherzi. Si inventavano strofette politiche a spese di altri compagni di fede.
Delfini, obbedendo alla sua vena satirica e irrisiva, aveva fondato il Pacon
(Partito conservatore). Bassani e Cancogni risposero dando vita
all'inconcepibile
Perplex Party, cui aderirono molto seriosamente anche Delfini e Levi. Intanto,
la letteratura non era certo dimenticata,
se fra gli altri manoscritti Bassani conservava un fascio di poesie cui solo
gli eventi nazionali e internazionali avevano impedito di vedere la luce.
Mentre i suoi parenti rimasti a Ferrara erano finiti per lo più nei
campi di sterminio di Buchenwald (e questi morti lo trattenevano
spiritualmente in un'altra stagione: un interminabile corteo cui Bassani doveva
rimanere fedele, in poesia e in prosa,
nelle opere che verranno), lo scrittore non attese gli alleati a Firenze, ma,
sistemati i genitori e la sorella che nel frattempo lo avevano raggiunto,
decise di andare a Roma. Era già avvenuto lo sbarco di Anzio. E’ un tempo di
fame e di apprensioni. Sempre sotto falso nome per sfuggire alla cattura da
parte dei fascisti, lo scrittore prosegue nei contatti con i movimenti
clandestini della Resistenze anzi vi partecipa attivamente; ma occorre pur fare
qualcosa per sentirsi vivi, per essere degni della
libertà che, attraverso varie contraddizioni, si sta preparando. Le notizie,
come le speranze sono contraddittorie:
« Da oggi - scrive nel suo diario alla data del 31 gennaio 1944 - soltanto, anzi da stamattina, si è ritornati all'ansia dei primi giorni dopo lo sbarco sulle coste del Lazio, quando la situazione dei tedeschi pareva insostenibile e ci si aspettava la presa di Roma da un'ora all'altra. Il cannoneggiamento si è improvvisamente avvicinato (i vetri delle finestre ne vibravano di tempo in tempo), ed è ormai un continuo, cupo, minaccioso suono di bordone che sussulta, a volte, in scoppi prolungati, in boati fragorosi. Che ci sia qualcosa di mutato nell'aria lo dimostra il contegno degli stessi tedeschi, nei giorni scorsi quasi assente, oggi di nuovo irritato e febbrile. Il solito monsignore ci comunica che stanno demolendo a colpi di dinamite tutta la zona di Centocelle, fortificando la Flaminia e terminando di rendere impraticabile la Casilina. E non si limitano a questo. Dopo una mattina tranquilla, spesa per le botteghe di libri attorno al Pantheon e alla Biblioteca Nazionale (senza avere tuttavia combinato niente in nessun senso), di ritorno a casa ho trovato la pensione in preda al panico più vivo. I tedeschi avevano infatti bloccato - come usano fare quando hanno fame d'uomini - via Nazionale e altre vie nei dintorni della stazione. Gli uomini, senza discriminazione d'età, vengono caricati nei camion come vitelli, e portati via... ».
Venuta la liberazione, Bassani pubblica il suo secondo libro, e si tratta di un volume di poesia: Storie dei poveri amanti e altri versi (1945), che l'anno dopo doveva conoscere la fortuna di una seconda edizione. In queste poesie, in cui Montale scoperse la presenza sotterranea di quel narratore che Bassani sarebbe poi divenuto, si rileva oltre alla maestria tecnica di chi sa sollevare a materia d'arte anche gli elementi più consunti della cronaca privata e corale, anche una matrice ermetico-religioso-sentimentale che ritroveremo, via via, lungo il più complesso itinerario dello scrittore.
In questo periodo, Bassani, sul piano pratico, si impegna in vario modo per sopravvivere. Diviene, a volta a volta, impiegato avventizio in un Ministero, bibliotecario, insegnante di lettere all'Istituto Nautico di Napoli, poi professore a Velletri, dovendosi impegnare ogni mattina a percorrere, su un « Guzzino », circa cinquanta chilometri e altrettanti la sera. E’ una vita dura, per un magro stipendio. Intanto i figli, Paola ed Enrico, crescono. Bassani tenta anche la via del cinema, come attore. Qualcuno lo ricorderà forse in una particina (faceva il professore, come nella vita) nel film di Emmer, « Le ragazze di piazza di Spagna ».
Dopo il Congresso in cui si consumò la rottura del Partito d'Azione e in cui Parri e Lombardi furono sconfitti dai fiorentini della sinistra, da Codignola, Furno e Agnoletti, Bassani, che aveva prestato la propria collaborazione all'« Italia libera », passò insensibilmente su posizioni più avanzate fino a aderire al socialismo, e ci passò con quella estroversa carica di lealtà che lo distingue.
Nel 1947 esce, con Ubaldini, la sua seconda raccolta di versi, Te lucis ante. Sono componimenti brevi, racchiusi in versi di poche sillabe, dedicati per lo più alla Divinità, accorato transito verso prove più concrete e meno centrate in un’ontologia privata:
« Quando più ero solo, / forse Tu m' assolvevi. / Al cieco aprivi prodigo / Tu dunque i fulvi cieli // da cui torna ai roventi / màceri e all'erbe sera? / Febbre d'ingiurie, lagrime / cocenti!... Alla preghiera // che si levò a or di notte / da un carcere, le chiare / già rispondean, le rotte / tue distanti fanfare ».
Nel 1948, all'atto della fondazione cioè, Bassani diviene redattore della rivista « Botteghe Oscure », intorno alla quale Marguerite Caetani raccolse, fino al 1960, il meglio della letteratura internazionale. In seguito, entrò anche nella redazione di « Paragone », la rivista di Anna Banti e di Roberto Longhi, dove poté svolgere una sua precisa politica culturale.
Mentre si trova impegnato, negli anni che vanno dal 1949 al 1951, a
scrivere il suo racconto La passeggiata prima di cena, Bassani pubblica,
proprio nel 1952, presso Mondadori, un'altra raccolta di versi, Un'altra
libertà, accolta con il solito favore dalla critica, dove l'intento
autobiografico, svolto sia pure in chiave di strenua e nobile trasfigurazione,
appare evidente. Ciò appunto maggiormente si rileva se si tengono presenti le
parole che Bassani stesso ebbe a spendere per una delle poesie più intense
della raccolta, Villa Glori:
« Dalla finestra di un alto casamento, dove aveva sede l'ufficio nel quale lavoravo in quegli anni, potevo vedere il boschetto di pini che copre il curvo dosso della collinetta di Villa Glori. Tra le undici e le dodici d'ogni mattina un raggio di sole, scendendo obliquo tra rami e tronchi, evocava ai miei occhi l'immagine nettissima, che tuttavia mostrai vanamente a qualche collega, d'un soldato con lo zaino, e la baionetta innestata sul lungo fucile ottocentesco, visto di spalle. E tale immagine, gravida di silenzio e di corruccio (e reale, oh come reale!) mi sembrava apparsa, laggiù tra gli alberi, soltanto per distogliermi da un'altra immagine (puramente mentale, quella, puramente sognata) verso la quale, in quegli stessi giorni, la fantasia consolatrice soleva piegarmi ».
E qui, nella dichiarazione di Bassani - non dichiarazione di poetica, sì motivazione operativa e chiarimento insieme di un concetto restituito dalla poesia - gran parte del suo mondo in cui gli elementi visivi, concreti fino a un certo punto, come il soldato creato da un gioco di ombre e di luci, si sposano alle accensioni più pure della fantasia, sì da fare aggio su una realtà che essa medesima è sogno, o almeno accensione surreale. Ma vale la pena riportare intero il componimento, che dà appunto conto di come, in quegli anni, tra il '49 e il '51, Bassani, intriso nella cronaca, e vedremo anche il perché, non si neghi alle evasioni della fantasia:
« L'effimera creatura di luce incoronata, / che al margine del prato lentamente saluta, / non essa è che a un suo breve bisbiglio fa più acuta / (s'abbandona una musica...) la pietà ch'hai di te? // Ma l'altra che fra i tronchi, muta ombra assolata, / muove adagio col sole la rigida figura, / e, schiena affardellata che si volge, paura / noia ed ira rinnova - oh, un miraggio non è! ».
Bassani, proprio nel periodo in cui scrive La passeggiata prima
di cena, che verrà poi pubblicata da Sansoni nel 1953, collabora
intensamente alla stesura di sceneggiature
cinematografiche. Possiamo anzi dire, per sua stessa ammissione, che egli ne
mise insieme circa una dozzina. Era quello un lavoro marginale, che tuttavia
lascerà una traccia nel racconto già citato, costruito a imbuto, come se una
macchina da presa stesse mettendo a fuoco, avanzando adagio in carrellata, un
oggetto lontano. E accade in realtà che proprio solo alla fine l'immagine del
protagonista, il dottor Elia Corcos, si configuri nella sua vera e ambigua
realtà, per un restringimento del campo visivo che ne isola e ne pone in luce
tutte le componenti, attraverso nebbie tra mitiche e ironiche.
Le pagine scritte per il
cinema hanno dato a Bassani questo solo frutto, ché, per il resto, egli le vede
senza alcuna ambizione, anche se non può dire di averle composte senza alcun
impegno:
« Sapevo bene, lavorando, di star fornendo un libretto d'opera sul
quale, poi, sarebbe intervenuto il regista, che avrebbe provveduto per conto
suo a farne quello che meglio gli sarebbe sembrato. Comunque sia, debbo dire
che il lavoro subalterno dello sceneggiatore non è stato senza utilità, per la
mia letteratura. Erano gli anni intorno al 1950. Come scrittore, a quell'epoca
mi trovavo ancora involto nella presunzione giovanile, di origine forse
ermetica, dell'ineffabilità. Scrivendo, non mi impegnavo solitamente a
"tirar fuori" tutto quello che avevo dentro, convinto come ero che
ciò che avevo, o credevo di avere, dentro non poteva, e quindi non doveva,
esser tirato fuori. Scrivere, significava fornire dei lampi, dei barlumi,
dei segni fulminei, magari anche imprecisi, traendoli dal ribollente e
indifferenziato magma interiore. Orbene, fu proprio il lavoro cinematografico,
e soprattutto la vicinanza e lo sprone di un amico carissimo, che era un
regista, si, ma anche uno scrittore (parlo di Mario Soldati), il quale non
soffriva affatto, ovviamente, dei complessi di inferiorità o superiorità, nei
confronti della letteratura, che affliggono tanti uomini di cinema, fu
proprio questo incontro e questa collaborazione a indurmi a uscire da me, a
esprimermi completamente sulla pagina. Scrivendo per il cinema, facendo, cioè,
un lavoro affatto diverso da quello dello scrittore, mi ero reso conto, in
sostanza, che lo scrittore, per esprimersi, non ha a sua disposizione altri
mezzi all'infuori della parola e dei segni di interpunzione. Niente altro »
Il 1955, vede apparire con Nistri-Lischi di Pisa il racconto Gli
ultimi anni di Clelia Trotti, storia di un giovane israelita che, alla
vigilia della guerra (la storia si svolge nel 1939), per vincere il proprio
isolamento, cerca solidarietà nell'ambito degli antifascisti, si lega di
amicizia con un ciabattino di estrazione anarchica e con una vecchia dirigente
socialista, Clelia Trotti. Ma ben presto il giovane scopre l'inutilità di
questi suoi tentativi, l’isolamento non
potrà mai essere infranto con gesti di estrazione volontaristica. Con questo
racconto, Bassani vince, sempre nel 1955, il premio internazionale Veillon.
Nel 1956 appaiono con Einaudi le Cinque storie ferraresi, che
comprendono le tre « storie » dell'edizione sansoniana: La passeggiata prima di
cena, Storia d'amore e Una lapide in via Mazzini, con in più Gli ultimi anni
di Clelia Trotti e Una notte del '43. Il libro ebbe notevole fortuna anche di
pubblico e vinse lo stesso anno il premio Strega. Nel 1958, Bassani pubblica,
sempre con Einaudi, Gli occhiali
d'oro, dove ogni seduzione della tecnica cinematografica è stata
abbandonata in pro di una visione già personale della letteratura. Come in una
pièce classica, ma senza però alcuna concezione teatrale, fatta solo di forma e
di costruzione, per l’importanza data al finale e ai pochi personaggi
principali, qui tre regole imperano: di spazio, di tempo e di azione. E nel
quinto atto, cioè alla fine, come avverrà in altri libri dello scrittore
ferrarese, spazio, tempo e azione vengono ristretti al massimo sì che lo sforzo
poetico, sommamente concentrato nelle ultime pagine, genera il suo effetto
maggiore.
Il 1958 è un anno importante nella biografia di Bassani anche per
un altro motivo. Consulente e direttore editoriale dell'editore Feltrinelli,
egli « scopre » e lancia un autentico talento delle nostre lettere, il
principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo, che narra la
storia di una famiglia dell'alta aristocrazia siciliana colta in quel
particolare momento storico che segna il trapasso fra il regime borbonico e
quello sabaudo, segnò un successo di vendite e di critica incredibile. Per la
prima volta, la nostra letteratura contemporanea conobbe le vertiginose
tirature proprie dei paesi anglosassoni, e Bassani, cui andava il merito della
scoperta, poteva tranquillamente invitare, nella sua prefazione al libro, a
leggere da capo a fondo il romanzo con l'abbandono richiesto dalla vera poesia,
certo che il lettore si sarebbe innamorato ingenuamente «proprio come usava una
volta, di quei personaggi della favola dentro i quali l'autore, anch'egli come
usavano una volta i poeti, se ne sta chiuso » e parve questa, come in effetti
era, una dichiarazione di poetica, oltre che un sincero attestato di fiducia
nella letteratura devota alla politica dei sentimenti, per entro uno spirito
alacre e modernissimo, consapevole della problematica storica, politica e
letteraria del nostro tempo.
E’ questo un periodo di intenso lavoro per Bassani il quale, mentre
nel 1960 vede uscire con Einaudi una nuova edizione de Le storie ferraresi, accresciuta
di due racconti: Il muro di cinta (1946) e In esilio (1956), che
con diverso titolo (« L'odore del fieno » e « Cuoio grasso ») e con revisioni
di stesura sarebbero poi state pubblicate, nel 1972, ne L'odore del fieno. In
questo periodo, Bassani accresce e intensifica le proprie collaborazioni a
periodici e a quotidiani. Esse si chiameranno: « Emporium », « Lo spettatore
italiano », « La Fiera letteraria », «
Il Mondo », « Letteratura », « Nuovi Argomenti », «L'Europa letteraria », «
Corriere della Sera », « Il Giorno », ecc.; ma quello che, per parere quasi
unanime della critica, è da considerare il suo capolavoro: Il
giardino dei Finzi-Contini, esce nel 1962. Ed è un esito memorabile. In
esso davvero, secondo l'insegnamento crociano cui Bassani è rimasto fedele, il
passato si fa presente e diventa avvenire. Lungamente elaborato nella memoria,
folto di creature fantastiche e reali, prima fra tutte l’indimenticabile figura
di Micòl, il Giardino, che nello stesso anno della sua apparizione
meritò il premio Viareggio, è stato, nel 1970, tradotto in film da Vittorio De
Sica. Questa storia della società israelita ferrarese mescolata
ai goim cattolici e a certa temperia fascista, è stata, come altre opere
di Bassani, tradotta nelle principali lingue: Le jardin des Finzi-Contini, Paris,
Gallimard, 1964; The Garden of the Finzi-Continis, London, Faber and Faber e
New York, Atheneum; El jarden de los Finzi-Contini, Barcelona, Editoriai Seix
Barral; Die Garten der Finzi-Contini, Piper Verlag; ecc.
Giorgio Bassani, che dal 1958 al 1963, come si è detto diresse la
fortunata « Biblioteca di letteratura » dell’editore Feltrinelli, occupò in
seguito la carica di vice presidente
della Radiotelevisione Italiana, da cui si dimise, ed è stato poi presidente di
« Italia nostra » noto sodalizio
che ebbe come scopo quello di tutelare l'integrità paesaggistica del nostro
paese, insieme con il suo patrimonio artistico e culturale. Bassani ha
insegnato anche dal 1957 al 1967 storia del teatro all'Accademia nazionale di
arte drammatica di Roma, senza che tutto ciò, vale a dire l'attività pubblica,
didattica o redazionale, sia venuta a intaccare la ragionata regolarità della
sua produzione letteraria. Nel 1963, uscirono infatti, con Einaudi, le poesie
di Alba ai vetri, che, nelle sezioni Primi versi, Te lucis ante e
Un'altra libertà, comprendono il meglio della produzione che va dal 1942
al 1950.
Nel 1964, apparve Dietro
la porta, altro romanzo di ambiente ferrarese: la Ferrara degli studi
liceali del protagonista: un microcosmo dove ogni dramma, benché in embrione,
possiede tutti gli elementi costitutivi di un mondo in cui ogni distinzione, in
apparenza semplice, frana nel dubbio continuo, nella verifica esasperata di
alcuni valori, come il censo, l'intelligenza, la classe sociale, la religione.
I saggi de Le parole
preparate escono con Einaudi nel 1966. Questo libro che raccoglie tutte le
cose più importanti scritte su argomenti letterari dal 1944 in poi, appare
importante perché permette di penetrare nelle convinzioni etiche e estetiche di
Bassani, e le numerose citazioni che ne abbiamo tratto stanno a dimostrarlo.
Principio primo che si può estrarre dal libro è quello della coerenza, una
coerenza che, in un arco di oltre vent'anni, quanti ne abbraccia il volume, mai
viene meno: fatta di un rapporto dialettico e critico con il proprio passato e
insieme come atto di consapevole amore verso il presente e il futuro dell'uomo
e degli uomini.
L'anno 1968 segna
l'apparizione dell'ultimo romanzo di Bassani: L'airone. Questo libro,
che nel 1969 ebbe il premio Campiello (nel medesimo anno lo scrittore ferrarese
vinse il premio internazionale Nelly Sachs per la sua opera complessiva), segna
una svolta nella narrativa bassaniana. Edgardo Limentani, il protagonista,
israelita senza vera fede, borghese senza più ideali, scruta negli altri e in
se medesimo fino a ritrovarsi in una dimensione vera e solenne che è quella
della morte. Una morte che è il solo vero atto d'amore che egli sa compiere e
che virilmente assolve quando, di fronte a una vetrina colma di animali
imbalsamati,
egli comprende che la vita acquista un valore reale solo contrapponendola al
nulla, all'aldilà, alla dimensione immutabile e eterna, vero e proprio muro
d'ombra, anzi di ombre, che può far rifulgere, come prismatica sfera, tutte le
sfaccettature della contraddizione umana.
Nel 1972, Bassani pubblica
la raccolta di racconti L 'odore del fieno. Dodici prose brevi, che
variamente riprendono i temi narrativi tipici dello scrittore. Il fulcro
centrale è ancora e sempre Ferrara, il mondo e i nomi delle Cinque storie
ferraresi, degli Occhiali d'oro e de Gli ultimi anni di Clelia
Trotti; ma, fatto rimarchevole nella narrativa bassaniana, appaiono, per
la prima volta con tanta evidenza, anche prose, come Un topo nel formaggio e
Le scarpe da tennis, in cui figurano con risalto altre città: Napoli,
Roma. E’ forse questo sintomo che alla saga di Ferrara cui Bassani sta
lavorando da sempre e che, quando conclusa, prenderà il nome di Romanzo di
Ferrara, sta per aggiungersi forse un filone collaterale, d’importanza
certo minore, non meno indicativo.